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La genesi della personalità digitale

Come emerso da quanto fin qui esposto, la definizione della nostra personalità digitale è strettamente connessa alle informazioni che ci riguardano e che vengono immesse in rete da noi stessi o da soggetti terzi, con il rapporto tra questi due insiemi che può variare a seconda del periodo della vita che prendiamo in considerazione.

Per un neonato, ad esempio, la quantità di materiale distribuito in autonomia sarà pari a zero, mentre è ipotizzabile che il rapporto sia sbilanciato verso l’autoproduzione quando si parla di un soggetto adulto.

Per questo motivo è più semplice analizzare la genesi della personalità digitale considerando in maniera separata le diverse fasi della vita.

La prima infanzia

Per quanto a molti possa apparire strano, la costruzione della personalità digitale può iniziare sin dai primi istanti di vita, in alcuni casi addirittura prima della nascita.

Basti pensare alle foto di neonati caricate sui social network pochi istanti dopo la nascita o alla creazione di profili social di bambini prima ancora che vengano alla luce22.

In questi casi, è importante che i criteri di valutazione dei genitori, o dei soggetti terzi che diffondono notizie sul neonato, siano caratterizzati da una estrema prudenza e dalla massima attenzione.

I dati, le informazioni, le immagini che sono distribuite, infatti, mantengono le medesime caratteristiche di presenza e persistenza che accompagnano ogni altro dato immesso in rete, con la profonda differenza, e la conseguente responsabilità, derivante dall’agire su parte della vita di un altro soggetto.

Esiste la concreta possibilità che ogni immagine, commento o descrizione relativa alla vita dei nostri figli, sia rintracciabile anche in un futuro remoto, grazie agli algoritmi e alle infinite potenzialità di connessione tra i dati.

Parlare di un bambino a un pubblico vasto e senza filtri, circostanziando la sua personalità e la sua esistenza in modo definito, vuol dire esporlo al rischio che la sua vita sia un libro aperto sin dalla nascita e privarlo della possibilità di scegliere come costruire la propria personalità digitale, per lo meno in relazione alla prima parte della propria vita.

Tutto questo non vuol dire che l’unica via praticabile sia quella di lasciare i nostri figli fuori dal contesto digitale, anche se molti ritengono possa essere un approccio valido, è però necessario adottare comportamenti tali da rendere più agevole la costruzione della loro identità.

Una buona regola, ad esempio, è quella di adoperare tutti gli accorgimenti mirati a limitare l’accesso ai loro dati da parte di terzi indesiderati, riducendo e circoscrivendo i possibili destinatari ogni qual volta si diffondono immagini o notizie relative a bambini.

È importante considerare, poi, che oltre a comportamenti restrittivi esistono anche accorgimenti proattivi di tutela e garanzia, come il registrare un dominio con nome cognome dei propri figli, una sorta di polizza immateriale sui loro riferimenti per il futuro.

Infanzia e preadolescenza

Durante la fase infantile e la prima preadolescenza, ha inizio, in molti casi, una doppia via nella generazione della personalità digitale.

Alle azioni citate in precedenza da parte dei genitori si affiancano i primi passi mossi in autonomia nel contesto della rete.

La diffusione dell’utilizzo di device elettronici e perennemente connessi, sta crescendo esponenzialmente e ha raggiunto cifre considerevoli23. L’attività di esplorazione e di contatto con i sistemi e i device che in futuro diverranno oggetti quotidiani porta i futuri adulti a diffondere nel web informazioni e dati che, come ogni altro tipo di elemento condiviso, può essere conservato e catalogato e che costituisce un ulteriore elemento compositivo dell’immagine nel suo complesso.

I principali canali attraverso cui vengono diffuse online le informazioni relative alle fasce d’età in oggetto possono essere considerate:

* cronologia di navigazione e di accesso

* social network

* applicazioni

Per quanto riguarda il primo dei punti indicati, non è raro che, nell’ottica della suddivisione delle utenze in rete, vengano creati account per ciascun membro della famiglia, bambini inclusi.

Creare profili con dati che evidenzino l’età del bambino, inserendo la data di nascita, ad esempio, permette, qualora queste informazioni siano lasciate disponibili per fini d’analisi, di ricondurre al minore le cronologie di navigazione e di accesso, raccogliendo così abitudini e preferenze.

Se vi sorprende trovare i social network al secondo punto nella lista di indicazioni relative a questa fascia d’età, i dati diffusi dalla britannica NSPCC potrebbero farvi ricredere.

Secondo un’indagine pubblicata dall’organizzazione con sede nel Regno Unito24, infatti, il 20% dei bambini tra gli 8 e gli 11 anni e il 5% dei bambini tra i 5 e 7 hanno un profilo attivo su un social network. Sono numeri considerevoli soprattutto alla luce del fatto che l’età minima prevista dalle regole dei social per poter creare un account è, in proporzione, considerevolmente superiore25.

Nella terza categoria, infine, quella delle applicazioni, rientrano le app per dispositivi mobili per cui è necessaria la creazione di profili o di utenze e che richiedono il consenso al trattamento dei dati personali per l’accesso alle informazioni utilizzate nell’esperienza di gioco, come fotografie del bambino o clip audio della sua voce.

Queste applicazioni, oltre a fornire cospicui guadagni ai produttori grazie all’utilizzo del meccanismo degli acquisti in-app26, costituiscono consistenti fonti di dati e informazioni, a volte anche in violazione delle norme sulla privacy.

Da un’indagine svolta dal Garante italiano, in collaborazione con altre ventotto Autorità internazionali del Global Privacy Enforcement Network (GPEN) 27, infatti, è emerso che molte tra le app più utilizzate dai bambini non tutelano adeguatamente la privacy dei piccoli.

Il Garante ha esaminato 35 casi e di questi ben 21 hanno evidenziato, per usare la stessa espressione dell’autorità, “gravi profili di rischio”.

Si tratta di una percentuale molto alta che si attesta al 60%.

Gli esperti hanno selezionato 22 app e 13 siti internet appartenenti al settore dell’educazione, al mondo dei giochi, a servizi on-line offerti da canali televisivi per l’infanzia, ai social network, analizzandone a fondo le caratteristiche.

I risultati, riportando ancora una volta le parole del Garante, parlano di “un panorama poco confortante, in linea con le criticità riscontrate anche dalle altre Autorità internazionali. I risultati evidenziano una grave disattenzione nei confronti dei più piccoli, poca trasparenza in merito alla raccolta, all’utilizzo dei dati personali e alle autorizzazioni richieste per scaricare le app su smartphone e tablet, presenza di pubblicità e rischi che i bambini vengano reindirizzati verso siti non controllati.

La considerazione che gran parte dei bambini e ragazzi tra gli 8 e i 13 anni usa strumenti tecnologici collegati in rete senza essere adeguatamente protetta, risulta quanto mai attuale visto che, andando più a fondo nei dati, sui 35 casi presi in esame:

* in 30 casi vengono raccolti dati personali;

* in 20 casi occorre indicare il proprio nome;

* in 13 casi è necessario consentire l’accesso a foto e video presenti sullo smartphone, sul tablet o sul pc;

* 19 tra siti e app registrano l’indirizzo IP;

* 18 tra siti e app registrano l’identificativo unico dell’utente;

* 11 richiedono la geolocalizzazione del dispositivo utilizzato dal bambino.

* in 23 casi è prevista la condivisione con altri soggetti dei dati personali raccolti.

Appare chiaro come, anche nel caso dei programmi destinati ai bambini, l’acquisizione e la conservazione dei dati rivesta un ruolo sempre più rilevante, e, sebbene in molti casi il trattamento delle informazioni sia aggregato e non destinato alla profilazione del singolo, resta la diffusione scarsamente controllata dei dati anche relativi soggetti più giovani e, inevitabilmente, più esposti.

L’adolescenza

La parte della “generazione Google”28 costituita da adolescenti è sempre più online, sempre più connessa.

Secondo una ricerca condotta da IPSOS29 per Save the Children due giovanissimi su tre utilizzano WhatsApp (59%) e uno su tre è iscritto a Instagram (36%). Uno su due, inoltre, dimostra di conoscere le regole che governano la privacy nella Rete (51%), ma non se ne preoccupa più di tanto (57%). Se si osserva la realtà che ci circonda, i numeri esposti sorprendono poco, così come poco sorprende apprendere, grazie alla medesima ricerca, che gli “adolescenti connessi” vivono relazioni “virtuali” di gruppo grazie alle applicazioni di messaggistica dei loro smartphone, relazioni che, in molti casi (41%) comprendono persone di cui non si ha conoscenza diretta.

Qualche sorpresa, probabilmente, desterà l’apprendere che uno su quattro (24%) invia messaggi, video o foto con riferimenti sessuali espliciti anche all’interno di gruppi nei quali non conosce tutti i partecipanti e uno su tre (33%) accetta di incontrare dal vivo qualcuno conosciuto solo attraverso questi gruppi.

Per molti degli appartenenti a questa fascia di età, la socialità virtuale è qualcosa di naturale e poco mediato e, se è vero che gli adolescenti contemporanei hanno a disposizione strumenti che offrono grandi risorse, è altrettanto vero che gli stessi strumenti sono potenzialmente pericolosi se non utilizzati con la dovuta consapevolezza dei rischi.

Il pericolo che deriva della scarsa consapevolezza nella gestione e nella diffusione delle informazioni può derivare anche dalla assenza di una educazione specifica al contesto, considerato che ben il 58% dei teenager oggetto della citata ricerca, compiuta da IPSOS su un campione di ragazze e ragazzi tra i 12 e i 17 anni, racconta di aver imparato ad utilizzarli in autonomia.

Appare quindi evidente che l’agire in maniera autonoma in un contesto di socialità nuova e spesso sconosciuta ai genitori, rende i ragazzi precocemente autonomi ma anche privi di qualsiasi elemento non solo di guida, ma anche di confronto.

Come vedremo più avanti nel paragrafo dedicato a “Compiti genitoriali e compiti evolutivi in adolescenza” le problematiche inerenti alla socialità digitale richiedono, sì, un approccio articolato, ma non per questo necessariamente dissimile da quello comunemente adoperato nel contesto educativo generale.

Punti fermi tuttavia, rimangono quelli della prudenza e della consapevolezza, soprattutto in considerazione della più volte citata considerazione che gli elementi immessi nell’universo digitale trovano nella persistenza una delle proprie caratteristiche fondamentali.

Ciò che viene condiviso in rete, rimarrà in rete, e anche se non disponibile a tutti, ci sarà di certo qualcuno che potrà aversi accesso.

L’età adulta

Lo sviluppo della personalità digitale assume, nell’età adulta, la rilevanza e la forma già parzialmente esaminati in precedenza.

L’”Io digitale”, certamente non materiale ma lungi dall’essere per questo “non reale”, diviene parte integrante della personalità di ciascun individuo la cui vita sia, anche parzialmente, connessa alla rete.

Messaggi, immagini, testi, commenti, affermazioni di approvazione (like) o disapprovazione (dislike) e tutto quanto riversiamo nell’universo web, plasmano e formano la parte di noi che decidiamo di condividere tramite i canali digitali, e ci rende protagonisti di una versione temporalmente espansa, anche se socialmente ridotta, dei quindici minuti di notorietà profetizzati da Andy Warhol.30

Tutto questo porta con sé opportunità e rischi.

Rischi, perché, scegliendo di renderci parte di un consesso comune e caratterizzato dalla condivisione, accettiamo di esporci in maniera diretta e spesso senza filtri, rinunciando di conseguenza a quella parte di protezione personale che la privacy innegabilmente garantisce.

Opportunità, perché, a parte l’ovvia constatazione che le nuove forme di socialità facilitano contatti e legami a prescindere dalla distanza fisica, si creano nuove possibilità di diffusione delle idee e contesti in cui ricercare occasioni lavorative e di business.

Basti pensare a come è cambiata la selezione del personale e l’esposizione delle proprie competenze professionali grazie a un network sociale, il più volte citato Linkedin.

In precedenza il passaparola, la risposta ad annunci di lavoro cartacei e l’auto candidatura tramite l’invio di curriculum, costituivano gli strumenti maggiormente diffusi per la ricerca di un’occupazione.

Oggi, e come già ampiamente trattato, sono cambiati non solo gli strumenti, ma anche l’approccio alla concezione stessa di ricerca e selezione.

In questa sede, tuttavia, è necessario ampliare il concetto affermando che, a prescindere da una singola foto o da una singola affermazione che pure nella loro specificità possono generare curiosità o biasimo, è l’intero “Io digitale” a essere indagato ogni qual volta, per motivi che vanno dall’interesse specifico alla semplice curiosità, si accede ai dati che ci vedono protagonisti.31

Essere presenti nel mondo digitale, operare in maniera attiva per definire il proprio “Io” non significa limitarsi a distribuire elementi che ci riguardano ma anche controllare quanto di noi viene distribuito dagli altri.

Perché quand’anche non avessimo alcuna intenzione di pubblicare quella famosa foto provocante o inappropriata di cui parlavamo in precedenza, nulla esclude che qualcuno altro possa decidere di farlo al nostro posto, taggandoci32 in maniera esplicita e rendendoci, in questo modo, esposti e vulnerabili33.

C’è di più.

È possibile che non siamo neppure a conoscenza dell’esistenza di quell’immagine.

Potrebbe essere stata scattata mentre ne eravamo assolutamente inconsapevoli e, di seguito, distribuita con l’intento di generare un contenuto simpatico o divertente ma che, all’atto pratico, non si è rivelato rispondere né all’una né all’altra caratteristica.

Un controllo non costante ma frequente, uno sporadico egosurfing34 e l’attivazione degli strumenti di allarme disponibili, non solo ci permetteranno di mantenere la nostra personalità digitale “pulita” e più coerente, ma anche di comprendere meglio insidie e trabocchetti dell’universo web, aiutandoci a integrare elementi di prevenzione in modo sistematico, al punto da rendere le nostre azioni “prudenti” in maniera del tutto naturale.

22 Un’indagine del sito di photo-sharing “Posterista” ha rivelato come i due terzi dei nuovi nati nel Regno Unito abbiano la propria immagine distribuita su Facebook entro un’ora dalla nascita.

La ricerca ha coinvolto 2.367 persone e ha rivelato che, con una media di 57,9 minuti, le primissime foto del neonato viaggiano rapide sul Social.

Autore della condivisione è generalmente il papà che scatta l’istantanea del bambino poco dopo il parto e la pubblica sui social network per dare notizia del lieto evento.

23 Per comprendere l’entità dell’aggettivo “considerevole”, basta dare un’occhiata ai dati relativi agli USA e pubblicati da Brandwarch.com e stando ai quali:

il 16% dei bambini tra gli 8 e gli 11 anni possiede almeno cinque media device;

i bambini tra i 3 e i 4 anni trascorrono mediamente 6,5 ore alla settimana su internet;

la chat attraverso sistemi di messaggistica è l’attività più popolare tra i bambini nella fascia di età tra gli 8 e gli 11 anni;

quasi il 20% dei bambini tra i 5 e i 7 anni ha caricato foto sul web almeno una volta

Molti altri dati sulle abitudini dei bambini e dei ragazzi in rete sono disponibili all’interno dell’infografica “Social Media Parenting? There’s An Infographic For That” – (Brandwatch – 21.5.2015 – [http://www.brandwatch.com/2014/05/social-media-parenting-theres-infographic/])

24 “Share Aware Help your child stay safe on social networks, apps and games” – (NSPCC – [http://www.nspcc.org.uk/preventing-abuse/keeping-children-safe/share-aware/])

25 L’età minima per iscriversi a Facebook o a Instagram, ad esempio, è di 13 anni mentre molti ignorano che, stando ai termini di servizio, per utilizzare WhatsApp non è sufficiente avere un’utenza telefonica, ma è necessario avere almeno 16 anni d’età.

26 Si parla di “In app purchase” quando all’interno di un gioco o di un’applicazione sia possibile acquistare componenti, accessori, attrezzi o risorse indispensabili per proseguire tramite l’esborso di denaro reale.

Questi acquisti, effettuati all’interno del programma stesso con addebiti reali sulle carte di credito, sono finiti nel mirino dell’Antitrust anche perché, in molti casi, sono destinati ai bambini e non sempre è richiesto l’inserimento di una password per completare l’acquisto.

27 “2015 GPEN Sweep – Children’s Privacy” – (Garante per la protezione dei dati personali – 2015) – [http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/4231738]

28 Con generazione Google vengono definiti, nel contesto dei nativi digitali, i più giovani, nati dopo il 1993, cresciuti in un mondo pervaso dai media digitali e che hanno trovato come naturalmente integrato nelle proprie vite il motore di ricerca Google, entrato in funzione nel 1998.

The Google generation: the information behaviour of the researcher of the future” – (Ian Rowlands, David Nicholas, Peter Williams, Paul Huntington, Maggie Fieldhouse – Aslib Journal of Information Management – Aprile 2008)

29 “Minori e Internet: Save the Children, ‘on-line’ e ‘disconnessi’, i due volti dei nativi digitali. Da un lato i giovanissimi quasi sempre connessi con gli smartphone, dall’altro 452mila adolescenti che non hanno mai avuto accesso a Internet” – (Save the Children – 6.2.2015 – [http://www.savethechildren.it/informati/comunicati/minori_e_internet_save_the_children__on-line__e__disconnessi__i_due_volti_dei_nativi_digitali_da_un_lato_i_giovanissimi_quasi_sempre_connessi_con_gli_smartphone_dall_altro_452mila_adolescenti_che_non_hanno_mai_avuto_accesso_a_internet])

30 In realtà la paternità della frase “in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti”, da sempre attribuita a quello che da molti è considerato il più grande artista pop del XX secolo, Andy Warhol, non è così certa. Stando alla versione dell’esperto di critica d’arte Blake Gopnik, infatti, la realtà sarebbe differente.

Lo studioso afferma di aver conosciuto qualcun altro che ne reclama la paternità, il fotografo Nat Finkelstein che ha raccontato: «Andy un giorno mi disse: ‘Tutti vogliono diventare famosi’. E io gli risposi: ‘Sì, per circa 15 minuti’. Lui ha preso quella frase e l’ha fatta propria» – “Andy Warhol e la frase sui 15 minuti di celebrità: falso d’autore?” – (Lettera 43 – 10.4.2015 – [http://www.lettera43.it/cultura/andy-warhol-e-la-frase-sui-15-minuti-di-celebrita-falso-d-autore_43675126767.htm])

31 Facile agire tramite motore di ricerca e, probabilmente, altrettanto facile è utilizzare Facebook per trovare notizie di persone cui siamo interessati, sempre a patto che i loro profili siano aperti. Ancora più semplice, tuttavia, sarà eseguire una ricerca integrata, grazie all’accordo stretto tra Google e il social di Mark Zuckerberg in base al quale a Google viene concessa la possibilità di inserire, tra i risultati delle ricerche effettuate dagli utenti tramite dispositivo mobile, anche i contenuti presenti su Facebook all’interno profili, pagine di gruppi ed eventi pubblici.

I termini della collaborazione prevedono che gli annunci vengano visualizzati come “deep links” e conducano gli utenti alla corrispondente occorrenza all’interno dell’applicazione Facebook – “Accordo tra Google e Facebook: tra i risultati delle ricerche effettuate da mobile verranno inseriti anche i link a profili ed eventi pubblicati sul social” – (Prima Online – 17.11.2015 – [http://www.primaonline.it/2015/11/17/219521/accordo-tra-google-e-facebook-tra-i-risultati-delle-ricerche-effettuate-da-mobile-verranno-inseriti-anche-i-link-a-profili-ed-eventi-pubblicati-sul-social/])

32 Il verbo “taggare” è entrato da pochi anni nel lessico comune e deriva dall’inglese “tag”, “etichetta”. Secondo la definizione del Garzanti online, tra i vari significati, “taggare” assume anche “nei social network, segnalare che in una foto, un video ecc. è presente un utente”

33 È il caso, ad esempio, di una cheerleader dei New England Patriots che è stata licenziata a causa di fotografie postate su Facebook che la ritraevano piegata su un ragazzo privo di sensi il cui viso e corpo erano coperti da graffiti con simboli fallici, la parola pene, la scritta ‘Sono un ebreo’ e due svastiche.

34 Il termine, che deriva dalla combinazione di “ego”, “io” e dell’inglese “to surf”, in questa accezione “navigare in internet”, è utilizzato per descrivere l’atto di inserire il proprio nome in un motore di ricerca web per analizzarne i risultati e valutare la propria presenza e rilevanza su Internet.