Anime in pena

Il mutamento di sindaco, la ricomposizione della nuova giunta con uomini nuovi, per quanto scelti nella medesima maggioranza, non è soltanto fatto interno della amministrazione, come parrebbe, a prima vista, ad un osservatore superficiale. Intorno ai favoriti del pubblico ufficio pullula una miriade di clienti (nel senso pagano della parola) che eleva (o si dà l’aria di elevare) al seggio, e ne chiede, in cambio, la professione e il favore quotidiano. Sono centinaia di esseri, e forse piú, che in questi giorni si agitano, perché resti Tizio, se ne vada Caio, si faccia posto a Sempronio. Si assiste ora allo spettacolo del calcio all’asino, gente che si abbarbica e striscia e declama in omaggio all’astro che sorge. Vera settimana di passione per chi sta per perdere il protettore, o spera trovarne uno migliore. Vegeta e pullula come la gramigna una quantità di gente, che si abbarbica e striscia e declama, e confonde il pubblico bene col privato interesse. Esseri che non sanno vivere di vita e risorse proprie, che intorno all’ente comune cercano di sfruttare e campare: che abbisognano di soddisfare le proprie ambizioni, e di tenersi in piedi col poter usufruire dell’appoggio di qualcuno: chi muove le pedine per soddisfare la vanità della croce, chi confida nella promozione o nel sussidio.

In una città, non ancora redenta dalla vittoria elettorale del popolo, dominata dalle cricche e dalle camarille che si formano nei circoli rionali, e che alla vigilia delle elezioni fanno combutta, trovando solo nel privato tornaconto il trait d’union fra preti e massoni, ebrei e clericali, conservatori e democratici, reazionari e repubblicani, non può svolgersi che in questo modo il sottosuolo della vita del comune. Convien ricordare che da cinquant’anni in Torino si sono andate concentrando e succedendo in poche mani, e fra gli stessi parentadi, il dominio assoluto della cassa comunale, delle opere pie, degli enti tutti di erogazioni di cariche, di emolumenti, di beneficenza: cosí che si è consolidata quella camorra, che a torto si volle restringere ad altre regioni in Italia, quale retaggio di servitú borbonica, e che in Torino vive anche maggiormente che colà, e per quanto larvata nelle forme per piú squisita abilità di occultamento: questa è la psicologia vera della nostra città.

Ed è cosí che tremano gli esercenti che manchi in giunta il loro avvocato difensore; teme l’impiegato fannullone di vedersi spezzata l’inonorata carriera; trepidano i professionisti sfugga loro l’ausilio del comune per sbarcare il lunario; si spaventano i contravventori ai numerosi regolamenti comunali venga loro tolto l’assessore compiacente per cancellare o ridurre le ammende meritate.

E noi osserviamo, e passiamo oltre, sorridenti ed increduli che il Frola abbia polso fermo ed energica mano per rinnovare la fatica di Ercole nel pulire le famose stalle di Augia: e pensiamo che fra poco tempo i calmieri saranno quelli di prima; che, cambiato il maestro di cappella, la musica sarà identica alla precedente; che si ricostruiranno le vecchie clientele; che i regolamenti, le tasse e le imposte comunali continueranno ad essere un’arma in mano ai dominatori in odio al partito avversario; che all’entrata in città il contadino continuerà ad essere frugato nella cesta da quella guardia, che al passaggio dell’assessore con un’onusta valigia, si metterà sull’attenti senza punto ricercare se il contrabbando vi sia…

O popolo torinese, soltanto dopo la tua vittoria piena ed assoluta ed incontrastata, tutte quelle povere animucce in pena perderanno la speranza di abbarbicarsi all’albero della cuccagna, e incominceranno a lavorare non di gomito, ma di schiena!

(20 ottobre 1917).