Bombance

Amico, uniamo le nostre due malinconie per traghettare questo solco che l’abitudine ha scavato tra i settimanali periodi di lavoro. Andiamo fuori della città anche noi lungo gli stradali suburbani che il traffico lascia in quiete, a immergerci negli odori terrestri di fieno tagliato, a vedere gli ultimi verdori che ingialliscono, a vagabondare lontano da questo mondo che ogni giorno su sette vuole bruciare i pensieri che rodono, le preoccupazioni che martellano sul ritmo dell’ansare della città laboriosa. Siamo soli, possiamo aprire liberamente la via ai nostri ingenui desideri, mettere in comunione le nostre sobrietà. Non desideriamo troppo, in fondo; viviamo cosí intensamente la vita di tutti, per non desiderare qualche volta il nulla intorno, e dirugginire il nostro io, e liberarci delle scorie sentimentali.

Uniamo le nostre malinconie che incupiscono per le lettere sgusciate, chissà come, alla vigilanza della divinità che tutela il nostro pessimismo. Le tetre immagini dei morti, delle sofferenze inaudite, di questo intrecciarsi su un terzo della superfice terrestre dei camminamenti di formiche (come direbbe il senatore Garofalo) inconsciamente aspiranti alla preda, non sono compagnie buone per le passeggiate serali della domenica fra gli odori del fieno appena falciato e della terra che ribolle soddisfatta della periodica graveolente razione di concime. Dalle oasi illuminate delle bettole suburbane arriva fin qui lo strepito, il clamore della bombance domenicale. Canti stonati o in armonia di gole rauche, cori di parole senza senso si diffondono intorno. Che malinconia essere afflitti dalla piaga del dovere, credere a nuove formazioni di miti sociali diversi dalla snobistica mania di godimento dei vecchi uomini, della società che abbiamo voluto fuggire! Ci perseguita questo ronzio molesto di giovani che scialacquano il lavoro asfissiante di sei giorni in luridi saturnali. Anime di schiavi che non trovano di meglio che imitare periodicamente i loro padroni? Che unico fine sia davvero fare il signore quando il borsellino è rigonfio, e dimenticare quelli che le lettere ci dipingono realisticamente a brancicare luridumi, a scavare solchi di morte, a seminare di metallo micidiale le intatte cime dei monti, per restituire, inutile, alla terra ciò che essa dà per la vita? Il morto assale il vivo, il vecchio mondo di artificio cerca di perpetuarsi nel nuovo, e questo vi si adatta supinamente, gode, egli che è sano e nobile, di poter fare ciò che gli altri fanno. Amico, bisogna cercare alla nostra malinconia domenicale un altro rifugio; il nulla esiste solo per chi non sente e non vede nulla. E poiché non abbiamo anime da asceti, e poiché siamo fieri di ciò che pensiamo, lasciamo che la malinconia nostra viva pur essa. Sarà il segno di nobiltà della coscienza per domani, quando essa troverà altri Alberto Dürer che la dipingano sul campo di battaglia ormai deserto, fra gli strumenti di distruzione ormai inservibili, sola padrona del terreno da cui la vita è andata via sbigottita.

(1° agosto 1916).