Buscaje

Due spettacoli. Uno si svolge sul palcoscenico. L’altro fra il pubblico. E il secondo non è il meno interessante. E il dialetto pone piú rapidamente a contatto le due parti del teatro, le fa collaborare, suscita impressioni immediate, perché il dialetto è sempre il linguaggio piú proprio della maggioranza, mentre la lingua letteraria ha bisogno di una traduzione interiore che diminuisce la spontaneità della reazione fantastica, la freschezza della comprensione.

Osservo. Il palcoscenico non ha niente di interessante. L’operetta è una delle solite volgarissime e banalissime riduzioni. Non una frase, non un motivo che esca dalle comunissime spiritosaggini.

Un padre che vuol maritare la figliola senza dote, un susseguirsi di avvenimenti slegati, in cui il motivo dominante è la ricerca del trucco per ingannarsi vicendevolmente. Ma il pubblico, commisto di vari elementi sociali disparati, pare s’interessi. Raggruppato intorno ai tavolini con la bibita rinfrescante, circondato dai grandi alberi stormeggianti, dal fiume che fa sentire lo scroscio delle sue acque costrette dalla chiusa, non suggestionato dal raccoglimento chiuso dei teatri soliti che impone al cervello solo quella fetta di vita che si svolge nel palcoscenico, tuttavia il pubblico segue lo spettacolo. E ride, e sorride, pur senza turbarsi o commuoversi affatto. E lo spettatore imparziale, che osserva, si accorge subito che questo benedetto pubblico dei suburbi è molto piú intelligente di quello chic delle poltrone e dei palchi. Perché non concede alla produzione, agli attori e agli autori piú di quanto si meritano. Lo stesso riso discreto fiorisce sulle labbra del passante che ha visto una portinaia imbizzita che sbraita. Lo stesso sorriso senza malignità e senza cattiveria increspa le facce degli affaccendati che all’angolo di una via sorprendono una frase senza senso di un ubriaco dallo scilinguagnolo sciolto che barcolla incompostamente. Le stesse osservazioni banali si sentono fare dai soliti qualunque per ognuno dei casi banali di cronaca.

E se si guardano questi poveri attori, che goffamente si agitano, goffamente cantano ogni tanto o sgambettano pigramente, e ripetono con convinzione delle freddure stantie, aspettando l’applauso che non viene mai, si sente una infinita pietà. Perché si ha un bel riflettere che, in fondo, chi si riduce a buffoneggiare e a far smorfie non può aspettare l’alloro e la palma. Si ha un bel riflettere che questa accozzaglia di uomini e di donne che non sa far altro che imitare le marionette, in fondo si spoglia di ogni decoro umano, e vuol far dimenticare che esiste una dignità umana. Rimane il dubbio che la punizione sia troppo grave, che il pubblico sia troppo intelligente anche nei suburbi, e che lo stormire delle fronde, lo scroscio delle acque, il raggio di luna che filtra sotto la tettoia dovrebbero fargli fare il sacrifizio del tavolino con la bibita, per lasciare a se stessi, alle loro malinconiche esercitazioni questi uomini e queste donne dai visi troppo coloriti, dagli abiti troppo stonati con le facce che hanno un residuo della placida onestà piccolo borghese. Invece… Invece questi attori credono sul serio di continuare la tradizione dialettale e si propongono di abbandonare per sempre il baraccone e i tavolini con le bibite, per fondare un teatro stabile, e indicono un grande concorso per la miglior commedia che drammatizzi i sentimenti patrio-gianduieschi suscitati dalla guerra. Cosí l’illusione creata dal compatimento benevolo crea sempre le disgrazie e i suicidi.

(30 agosto 1916).