Daneo

L’on. Daneo si è assunto alla Camera l’ingrato compito di tutelare il buon nome di Torino e il culto delle sante tradizioni del Risorgimento. Parlare di Torino è suscitare un fatto personale con l’on. Daneo. La maggioranza dei torinesi (3556 voti su 100 000 elettori e 500 000 abitanti) è impersonata nell’on. Daneo, che è diventato una sensitiva e s’inalbera ogni qualvolta un qualsiasi Pirolini «mette il dito nella piaga». Non meravigliamoci.

Daneo è uno dei piú grandi disfattisti d’Italia. È uno dei disfattisti della vigilia. È un rappresentante di quel ceto borghese affarista e politicante che ha impacciato lo sviluppo economico ed intellettuale della classe borghese italiana, e ha condotto l’Italia alle condizioni di sfacelo amministrativo e politico in cui la guerra l’ha sorpresa. Ha iniziato la sua carriera politica come crispino. È corresponsabile della politica grandiloquente che ha cacciato l’Italia nelle lotte coloniali, nelle guerre commerciali di tariffe che rovinarono mezza Italia, e determinarono l’emigrazione di sei milioni di italiani. È un leggero immorale. Roso dall’ambizione, senza preparazione tecnica, senza intelligenza sufficiente, ha ricoperto alte cariche portatovi dalla politica di corridoio. È uno dei tanti microbi politici che hanno sforacchiato il gracile organismo del giovane Stato italiano, ne hanno spezzato i tendini e macerato le ossa. Il suo spirito di civismo si è esaurito tutto nei discorsi per la «Dante Alighieri»: retorica bolsa, vernice velenosa che nascondeva i mali, li incancreniva. Non ha mai lavorato, non ha mai preso sul serio nulla. Ministro delle finanze nel gabinetto Salandra, quando piú urgeva risolvere i problemi che avrebbero in seguito ostruito il libero svolgersi delle attività nazionali, se ne stava lontano da Roma, passava le sue mezze giornate a passeggiare sotto i portici di piazza Castello. Quando già incominciavano a farsi sentire le prime ripercussioni dell’entrata in guerra, e tutta la impalcatura dello Stato scricchiolava per le gravezze nuove, Daneo si crogiolava nella beata illusione del migliore dei mondi e dello stellone d’Italia, e lasciava ai burocratici del ministero il disbrigo degli affari d’ordinaria amministrazione. I borghesi seri, che sentono la responsabilità che grava sulla loro classe, dovrebbero essi prendere a pedate questo frustolo d’uomo, questo parassita della loro energia e attività. Dovrebbero essi vergognarsi che Torino sia alla Camera esaltata da questo eletto dagli staffieri di casa reale e dai sacrestani del duomo. A noi socialisti Daneo fa solo nausea: non è solo un borghese, è un cattivo borghese; è doppiamente parassita: della collettività e della propria classe. Il Manifesto dei comunisti è anche un inno (e sia pure quest’inno un epicedio) alla borghesia produttrice, creatrice di scienza, di tecnica, di ricchezza. Daneo è uno spurgo della borghesia. È tafano che si nutre di sangue piagoso. È piccola astuzia, faciloneria, pigrizia mentale e fisica. Certe sue conversazioni private in municipio sono, per la legge borghese, delitti di alto tradimento. Tutta la sua vita è un alto tradimento per la morale del bene sociale.

Ma in Italia Daneo parla per la Patria [cinque righe censurate].

(22 dicembre 1917).