Disillusioni e speranze

La morte del digiunatore (in tempi di abbondanza) Succi, proprio quando il digiuno è diventato un dovere ed una virtú civica, ha depresso il mio spirito. Sfoglio con tristezza e scoramento il voluminoso manoscritto che tante notti insonni mi è costato, che tanto bagliore di intelligenza e tanta concreta volontà pratica ha trasportato dall’attivo al passivo del mio bilancio spirituale; ahimè, è tutto da rifare, come dice il ministro intraprendente, nella Presidentessa, all’infelice burocrate sottoposto alla sua autorità. È tutto da rifare il progetto che mi avrebbe procurato tanto plauso e tanta commossa ammirazione dai lucidi cervelli della mia patria. Esso era fondato graniticamente sulle esperienze di Succi; la base sperimentale e positiva è mancata, il granito si è spappolato come una ricotta.

Il problema della guerra fino in fondo mi assillava. Come la mia patria avrebbe potuto emulare la Germania e la brillante sua seconda nell’organizzare condizioni alimentari che le permettessero una indefinita capacità guerriera? Il razionamento tesserato era un espediente empirico, degno solo, in tutto, dell’angusta mentalità barbarica dei popoli germanici; bisognava che noi latini sprigionassimo dalla nativa genialità della prodigiosa stirpe nostra una scintilla divina di originalità, creassimo un’organizzazione di resistenza quale mai il sole illuminò sulla rugosa e cincischiata corteccia terrestre.

Un primo progetto balenò al mio spirito infuocato: eliminare dalla concorrenza vitale tutti i vecchi, tutti gli uomini superiori ai sessant’anni. Perciò sarebbe stato opportuno promuovere nuovi comitati di guerra fra i cittadini non legati da vincoli di affetto con alcuna futura vittima, e propagandare, propagandare. Motivo essenziale della propaganda la giustizia ideale e morale che i vecchi — per causa dei quali la guerra è scoppiata, giacché essi non si sono curati, per fiacchezza o per precisa volontà politica, di eliminare le condizioni generatrici dei conflitti armati — fossero eliminati violentemente, ostie consacrate alla fiorente gioventú immolatasi nelle trincee. Dimostrare l’ingiustizia patente del fatto che questi residui delle generazioni responsabili togliessero ai soldati, ai bimbi, ai giovinetti, una notevole parte del patrimonio sociale alimentare, insidiando la integrità fisica permanente delle generazioni in isviluppo, dopo aver determinato il micidiale sterminio delle generazioni mature. Dimostrare come questo fatto anche immediatamente ponesse a repentaglio la vita dei giovani, in quanto questi, obbligati dall’officina, dall’ufficio e dalla trincea a non risparmiarsi, potevano essere distrutti da una epidemia, facendo sí che la pace trovasse il mondo abitato da vecchiardi decrepiti, scimuniti, valetudinari. Una statistica delle vittime piú frequenti dell’influenza avrebbe irrobustito e resa schiacciante quest’ultima parte della dimostrazione.

Non mi piacque questo progetto. Il mondo è ancora troppo ammorbato da pregiudizi. E d’altronde fra i vecchi non sono molte le anime sensibili, cosí che un comitato dei piú illustri poeti, che li perseguitassero con infuocati giambi, potesse dar speranza di far conseguire un suicidio collettivo, alla giapponese.

Succi. Ecco l’uomo che per l’urto di una concatenazione d’idee fece sprizzare da una cellula cerebrale la scintilla divina. Rifeci il progetto, studiai, mi immersi in profondissime riflessioni, compilai specchietti, diagrammi, statistiche. L’organizzazione di resistenza guerriera fiorí nello spirito ardente quale lampada inestinguibile: fiorí vasta, complessa, definitiva, come certo nessuna intelligenza (!) espressa dal funesto ed inverecondo seno della cultura germanica avrebbe mai immaginata.

Lo Stato, secondo il progetto, avrebbe dovuto fissare con esattezza, attraverso i suoi organi amministrativi, quali cittadini fossero indispensabili per la vita di guerra e quali rappresentassero solo un ingombro inutile. Da un parte i soldati, gli operai, maschi e femmine addetti alle industrie di guerra o alle industrie necessarie alla società rinnovata e crivellata, gli agricoltori anch’essi indispensabili e quel minimo di impiegati amministrativi utili per la gestione nuova sociale: una dittatura giovanile ed energica avrebbe dovuto sostituire il governo parlamentare (!), il parlamento, il senato e gli enti locali elettivi; dall’altro i vecchi invalidi e tutta la caterva parassitaria per età o per la non funzione sociale: signore, signorine, signorini, ragazzi, preti, frati, monache, giornalisti, milionari, collaboratori della «Donna» e della «Scena illustrata», abbonati effettivi o virtuali del «Venerdí della Contessa» e della «Gazzetta del Popolo». Ma per non offendere i pregiudizi sociali e d’altronde per conservare intatto il canovaccio su cui si sviluppa il corso delle generazioni e della storia, questi esseri non avrebbero dovuto essere uccisi. Sarebbe bastato sottoporli a una cura di fakiri e conservarli in tombini, in istato catalettico fino alla pace.

Sarebbero sorte nelle campagne sterminate «necropoli di viventi inutili in tempo di guerra», documento del massimo sviluppo della civiltà borghese, che sa far tacere ogni palpito, ogni affetto, ogni ideologia pseudoumanitaria per aver modo di attuare la sua missione nel mondo.

Il progetto era fondato, col piú rigoroso metodo sperimentale e positivo, sul caso Succi; avrebbe anzi servito anche a dimostrare come nel ceto italiano nazionale dei saltimbanchi, giocolieri ed illusionisti si nasconda una miniera di virtú e di energie civili. Succi, che a tanti digiuni si era volontariamente sottoposto in tempo di abbondanza, mi muore quando il digiuno è dovere e civica virtú, insidiosamente insinuando il dubbio che la «necropoli dei viventi inutili in tempo di guerra» non sia un progetto concreto, ma un castello in Ispagna; lo spunto possibile di un romanzo alla Wells o di una novella alla Kipling. Eppure…

Manderò il manoscritto al Presidente della Commissione per il dopoguerra. Poiché nel dopoguerra ci può essere anche una nuova guerra, e non sono che balorde illusioni, degne dei «Felice Umanità», i sogni delle Leghe delle Nazioni, delle paci perpetue e simili grullerie, il progetto potrà essere motivo di utili meditazioni all’on. Pantano e agli altri benemeriti cittadini che si sono sobbarcati al difficile compito di organizzarci una patria piú ammodo, intonacando le screpolature, lucidando i mobili un po’ consumati, disinfettando i recessi miasmatici.

Forse la mia fatica non sarà stata vana, e il sogno di gloria immortale, divisa coi piú illustri fondatori della patria, non svanirà come un effimero gioco di fuochi di bengala.

(15 ottobre 1918).