L’assessore Ratti si è dimesso: nessun dubbio dovrebbe poter piú oltre sussistere sulla realtà di queste dimissioni. C’è una condanna, c’è un’accusa chiaramente espressa e documentata, che ha avuto una chiara sanzione. La sanzione dell’opinione pubblica dovrebbe essere sicura anche essa. Un civico magistrato si è fatto cogliere con le mani nel sacco, come un volgare ladroncello di Porta Palazzo: ha commesso un reato che è grave e infamante qualitativamente, non quantitativamente, per il pervertimento morale di cui è indice, piú che per il danno effettivo che ha arrecato alla collettività. La squalifica morale di un tale individuo dovrebbe essere chiara e sicura, perché solo se chiara e sicura può essere educativa, può servire a formare un criterio di giudizio sociale, e quindi ad elevare il livello di vita, a migliorare il costume.
Queste considerazioni sono piane e oneste; ma appunto per ciò non sono clericali. Osservate con che sottile e furbesco lavorio di erosione il «Momento» cincischia la banale notizia di cronaca:
Le dimissioni sono conseguenza della condanna a sette giorni d'arresto e 140 lire di ammenda inflittagli dal pretore urbano perché incolpato d'avere permesso che nella sua panetteria in via Barbaroux, si fosse fabbricato del pane di peso e forma non corrispondenti alle prescrizioni, ecc.
Pertanto il panettiere Ratti avrebbe commesso una semplice colpa di disattenzione: il crimine l’avrebbero perpetrato i suoi operai, gli infami. Inoltre, il crimine stesso sarebbe molto veniale: peso e forma del pane; non spreco di farina, non privilegiato consumo di pane bianco mentre la maggioranza, anche i bambini e i moribondi, deve consumare il pane nero e legnoso. E quando il lettore ha sorriso dell’accusa, pensando con pietà profonda al povero martire Carlo Ratti, vittima del fiscalismo giudiziario, il «Momento» continua:
Il cav. Ratti sostenne in giudizio che quel pane, sequestratogli dagli agenti in una cesta a parte, nella sala da pranzo, era stato confezionato per sua moglie ammalata e dimostrò, col conforto di testimonianze inoppugnabili, fra cui il dott. comm. Bellosta, che realmente sua moglie necessitava di quel pane speciale. Ma il Magistrato non poté accogliere le giustificazioni, opponendosi l'esplicito disposto dell'art. 60 del Codice penale, che punisce anche la semplice negligenza ed inosservanza nei rapporti dei propri dipendenti.
Saltano di nuovo fuori i dipendenti, che sembravano essere stati messi da parte dopo l’ammissione della necessità familiare, non certamente ignorata dal Ratti. Si tace che il pane bianco sequestrato pesava 720 grammi, quantità un tantino esagerata per una signora ammalata di stomaco. Non si fa notare che la polizia non fece la sorpresa appena commesso il primo crimine, ma che, trattandosi di un assessore, dovette ben essere longanime ed intervenire quando la misura era colma e lo scandalo dilagava.
L’assessore Carlo Ratti, dalla narrazione del «Momento», dopo le opportune e furbesche erosioni dei fatti, appare un poveraccio, che ha peccato per soverchio amore della famiglia. E la famiglia è uno dei puntelli della società, come a tutti è noto. E per il tripode bronzeo della società i clericali sono disposti a tutto: anche a rodere la verità, a rodere la morale, cosí come l’assessore Ratti rodeva il suo dovere di magistrato per conguagliarlo alla sua mentalità di bottegaio. È la morale del rosicchiante che trionfa, ed essa è piú diffusa di quanto non appaia dalle affermazioni che si sogliono fare. I colleghi di giunta terranno conto del lavoro giornalistico del «Momento», e il cav. Ratti continuerà a rimanere assessore e bottegaio, accanto a Teofilo Rossi, e a Costanzo Rinaudo.
(29 maggio 1917).