Fra me e me

A una svolta del pensiero il mio io si scinde in due parti: me e me, e tra me e me avviene questo dialogo:

— Credi proprio sul serio di riuscire a indurre il prof. Rinaudo a fare ciò che egli stesso sostiene essere dovere di ogni cittadino, e specialmente di quella categoria ristretta di cittadini che legifera, che determina in quali e quanti modi si concreta la piú elastica delle parole del vocabolario: il dovere? O non è tempo perso quello che tu dedichi al poco illustre magistrato, e per di piú tempo perso nel fare opera selvaggia, perché puoi ottenere l’effetto di far credere che il prof. sia la sola canaglietta che riscaldi i seggi del consiglio comunale?

— Distinguiamo. Non sono e non voglio essere il don Chisciotte della morale, della giustizia ecc. ecc., sebbene persuasissimo che queste virtú siano instaurate non solo nelle parole, ma anche negli atti dei singoli individui come della collettività. Esse sono parole elastiche, è vero. Ma per un borghese sono meno elastiche di quanto possa sembrare. Per un borghese che sia veramente cittadino del suo Stato o della sua città, morale, giustizia, rettitudine si concretano nella legge, per ciò che riguarda i rapporti scambievoli. Essendo il borghese uomo dell’ordine, come si dice, e non sovversivo, accetta le leggi del suo Stato e della sua città. Le accetta integralmente, perché non le combatte, perché non fa alcun tentativo per cambiarle, perché l’attività sua di cittadino tende alla conservazione e non alla sostituzione, alla rivoluzione. Ora osserva: il borghese fa le leggi, ma non le osserva, è impiegato, ma non lavora al suo ufficio, è ufficiale e non vuole andare alla guerra, è prete e non crede in Dio, è giudice ed è Casalegno. Il borghese tende con tutte le sue forze a diventare parassita delle sue idee, del suo programma, della sua nascita, della eredità di suo padre, della ignoranza dei suoi operai, della fama di suo padre, della indifferenza dei suoi amministrati. Il borghese vuole che le strade siano pulite, illuminate, che la patria sia difesa, che abbia molti cannoni, molti soldati, che la posta funzioni, che i treni vadano in orario, che molti poliziotti tutelino il suo portafoglio e tutte le altre infinite cose che gli assicurano il benessere attuale e cercano di portar questo al massimo grado raggiungibile. Bisogna spendere, bisogna sacrificare qualcosa, bisogna limitare questo benessere stesso per conservarlo e dargli incremento. Il borghese cerca di esimersi dal far ciò. Riversa sugli altri gli oneri, tiene per sé gli onori. Bene senza male, godimento senza sofferenza, luce senza buio. Egli ha cento. Tende a conservare tutti i cento. Gli altri hanno dieci. Cerca toglier loro tutto ciò che è possibile togliere, lasciando solo il fiato per respirare. Pone in contraddizione le parole coi fatti, il borghese col cittadino, col legislatore. Nessuno si cura di porlo in risalto, o meglio nessuno si cura di continuare a porlo in risalto fino a quando egli si vergogni, sia coperto di sputi. Allora bisogna al posto di borghese porre un nome: Rinaudo. Ci sono cinquantamila borghesi che non fanno il loro dovere, inteso come sopra. Questi cinquantamila si concretano in un breve gruppo: la giunta. Nella giunta uno, l’assessore delle finanze, ha la responsabilità diretta della imposizione delle imposte. Cogliamolo nell’atto in cui egli si crea il privilegio di non pagare le imposte. Per far odiare il privilegio bisogna cercare di far diminuire il numero dei privilegiati. Ogni non privilegiato odia il privilegio. Se l’assessore non fosse privilegiato, non permetterebbe che gli altri lo fossero. La tolleranza è il prezzo del crimine proprio.

Dopo queste parole me e me si stringono la mano e io, ritornato uno, continua nella sua strada.

 

L’omaggio al Rinaudo si concreta bene: qualcuno ha cambiato spirito di civismo in cinismo. La variazione può essere accettata.

(28 gennaio 1917).