I moventi e Coppoletto

Giuseppe Dardano è il Coppoletto del nazionalismo torinese. Un Coppoletto che non ha né l’ingegno né le virtú stilistiche della sua bella copia, ma che ne segue la falsariga per ciò che riguarda le questioni di massima, e per l’odio catilinario che nutre per la demagogia e gli scandali cosiddetti demagogici. Attraverso la lente delle sue pupille di barbagianni tutto si rimpicciolisce; tutto diventa pettegolezzo nella sua mentalità di pettegolo; e perciò nello «scandalo» dell’Esposizione egli non riesce a vedere che astio neutralista.

Tanto odio (a mala pena spiegabile se invece di qualche milione male spesi si trattasse di un tradimento della patria o di un giornalista venduto al nemico) diventa spiegabilissimo appena si consideri che l'attaccato è una delle piú influenti figure dell'interventismo subalpino e che l'autore principale della campagna è uno dei piccoli dèi dell'Olimpo socialneutralista torinese.

Cosí scrive il Coppoletto. Noi rileggiamo un libro che tanto amiamo, Notre jeunesse di Carlo Péguy, e ci inebriamo di quel senso mistico religioso del socialismo, della giustizia, che tutto lo pervade. Paragone immodesto, lo confessiamo, quello tra la campagna per la liberazione di Dreyfus e la campagna per la resa dei conti. Eppure nella prosa del Péguy sentiamo espressi con empito sovrumano, con tremiti di commozione indicibili, molti di quei sentimenti che ci pervadono, e che importa poco ci siano riconosciuti. Sentiamo in noi una vita nuova, una fede piú vibrante del solito e le miserie polemiche dei piccoli politicanti crassamente materialisti nella determinazione dei moventi, hanno solo la virtú di renderci piú alteri. Non ci spaventa la constatazione ridevole delle coincidenze con i giolittiani della «Stampa» e tanto meno quella coi neutralisti del «Giorno» di Matilde Serao, l’inneggiatrice alle prodezze dei sommergibili tedeschi. L’interventismo del conte Orsi è un campanaccio in un boschetto arcadico. Non è il conte Orsi che ha spiantato o spianterà l’Italia. La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato. Certo il suo ronzio noioso di mosca cocchiera ci importunava. Ma ciò che irritava maggiormente il nostro senso morale era la prosopopea da padre eterno di questo risibile Catone, che, impotente sempre a creare un organo forte dell’opinione pubblica, a imprimere alla vita politica — sia pure locale — una sua impronta di partito, vivacchiava alla giornata, corvo affamato sempre pronto a lanciarsi sui supposti cadaveri degli avversari. Da un pezzo il messere si trastullava a indicarci alla giustizia esecutiva come malfattori pericolosi, senza assumere mai una responsabilità, senza specificare mai un’accusa.

L’abbiamo colto nel laccio proprio in ciò che sembrava la sua fortezza, la sua torre d’avorio: la correttezza personale. E abbiamo menato la ferula, talvolta rudemente. La patria può esserci grata: abbiamo tolto dalla circolazione una moneta falsa, un uomo che nel suo antigiolittismo ha la mentalità piú squisitamente giolittiana: la doppiezza e l’impotenza a creare qualcosa di duraturo.

Questi sono stati i nostri moventi, o ameno Coppoletto del nazionalismo torinese! Il nostro astio è quello che tutti i galantuomini hanno sempre nutrito per le persone oblique; è quello che in lotte ben piú importanti e nelle rivoluzioni ha dato a qualcuno la forza necessaria per poter dire: pur che trionfi la giustizia, perisca il mondo!

La colpa non è nostra se il perverso destino ha posto dinanzi alla punta dei nostri stivali dei cenci sporchi come gli Orsi, gli Sbroda e i Coppoletti della miseria politica cittadina.

(19 aprile 1916).