Il bravo

Due cittadini e una casa. Dopo le ventitre. Nella casa c’è un esercizio, e quantunque siano trascorse le ventitre, l’esercizio ospita buon numero di avventori, i quali fanno chiasso.

I due cittadini s’avvicinano alla casa. Mentre uno sta per introdurre la chiave nel portone, l’altro tende il braccio maiestatico e impone il fermo. È un’autorità, è un addetto all’ordine sociale. Ha il diritto (!) di sindacare i suoi simili, di fermarli, di condurli sotto un lampione, di palparli come fossero dei vitelli alla fiera, di frugarli addosso, di domandar loro giustificazione del perché vivano, del perché si muovano, del perché starnutino secondo un tono piuttosto che un altro.

Il compito è svolto sotto il solito lampione, con la meticolosa cura di chi ha la precisa coscienza di adempiere un dovere improrogabile e necessario. La ricerca non dà risultati. I due cittadini si separano. Nella casa continua lo schiamazzo. Il regolatore dell’ordine sociale ha però compiuto il suo mandato. Il disordine era potenzialmente in tasca dell’altro, non è nello schiamazzo, nella violazione della legge sugli orari dei pubblici esercizi. Egli «non si incarica» di ciò. Esiste forse la legge per lui? Forse che egli sa di essere un esecutore della legge? Egli sa di avere avuto un ordine generico che egli mette in esecuzione. Generico, ma non tanto da coincidere con la legge generale che inibisce le attività moleste alla società cosí com’è costituita, ma non tanto da imporgli un intervento perché a due passi da lui si schiamazza, si viola una norma precisa.

Egli non sa nulla. È come il bravo classico dei romanzi d’appendice. Assumendolo non gli hanno domandato una prova di capacità; gli domandano ora solo di riferire sul particolare mandato. La sua giornata è compiuta. Non ha trovato nulla: sarà per domani. Altre imprese del genere, altri individui particolari da fermare, da palpare come vitelli, da frugare. Perché? E che importa il saperlo? Importava forse al bravo sapere il perché di un ordine del signorotto? Anzi, il non sapere era virtú, come ora. L’ignoranza è obiettività. Sapere vorrebbe dire avere coscienza dei diritti e dei doveri, dei doveri propri e dei diritti altrui. E questo sapere potrebbe trasformarsi in ritegno, in meno scrupoloso adempimento del mandato preciso. Il bravo è ignorantemente obiettivo, è ignorantemente scrupoloso nel non aver scrupoli.

[Dodici righe censurate].

(3 agosto 1918).