Il chierichino

Unica consolazione dei deficienti è il senso che possono acquistare della relatività della loro disgrazia. Non c’è imbecille che non possa specchiarsi in uno piú imbecille ancora, e non c’è scribacchiatore in verso o prosa che non susciti ammirazione in qualcuno, e non abbia dei chierichini che agitano il turibolo sotto il naso. Anche Marco Sbroda, pare impossibile, ha il suo satellite che umilmente si inchina e si genuflette alla sua maestosa autorità e guardandoci in tralice lascia cadere su noi la sua disapprovazione e il suo disprezzo. Brrr che freddo nelle midolla! Terenzio Grandi, il cittadino perseguitato dalle sgrammaticature dei proletari, che si dimette da direttore dell’organo dei tipografi per non perdere la coscienza della sintassi dopo aver perduto quella della repubblica santa. È il chierichino. La fregola di entrare nella banda degli scorticatori, che dalle rive dell’Orenoco si è stabilita a Torino fra i cessi o i carielli, ha finalmente esploso in una colonnina di prosa assettatuzza e fragrante di incenso e di mirra. Lo Sbroda è proprio fortunato: le sue fatiche di fisarmonico, costretto per ragioni di materialismo economico a dar sempre maggior respiro al suo organo frasaiolo per allungare il numero delle righe e il conto dell’amministratore, sono state ricompensate dal soffiettino paterno dell’ex direttore di tanti preziosi fogli ormai passati alla posterità. Ma a costui, che per la sua onesta faccia di fraticello novizio ci ispira ancora qualche simpatia, domandiamo fra un’incensata e l’altra; come spiega il fatto che il documentario Sbroda, di mille cubiti piú alto moralmente di noi, ci abbia rimproverato di aver delle spie al ministero che ci fornivano informazioni sull’inchiesta della gestione Orsi? Come mai questo catone degli scaracchi in tram, ha preso le difese del conte che non voleva rendere i conti, e a noi che conducevamo una campagna per impedire che sopraggiungesse una prescrizione, ha buttato fra le gambe, credendo di stancarci, la faccenda della Cassa pensioni, intorno alla quale Donato Bachi potrebbe fornirgli chiarimenti migliori e piú da competenti? Come bollava lo Sbroda i clericali che durante la campagna per l’intervento dell’Italia in guerra, ricordavano Nizza, Tunisi e Corsica a chi voleva Trento e Trieste? E come dovremmo chiamar lui, che ricorre allo stesso gioco e mostra la stessa mentalità di scherano? Se il nostro cervello fosse svaporato e infrollito come il suo, potremmo parlare di prezzolati, di venduti, di aspiranti alla greppia di via Quattro Marzo, ecc. ecc., e andar pescando nei dizionari quegli aggettivi che avviluppano i cadaveri da seppellire nel cimitero politico. Ma il chierichino non comprende queste cose, perché altrimenti non sarebbe chierichino.

Marco Sbroda continuerà nei suoi tiritera che le spie che egli ha in palazzo Siccardi continueranno a documentargli, ridendone in seguito con noi e dandoci a nostra volta i documenti di «tanto al rigo», e il chierichino continuerà ad agitare goffamente il turibolo, contento se un raggio del sole che illumina la testa del suo eroe, venga a investire la sua pallida faccia di fraticello questuante un decimo di immoralità.

(31 marzo 1916).