Il cieco Tiresia

Narra la «Stampa» come ad Ostria, nelle Marche, viva un povero fanciullo cieco, il quale ha profetizzato che la guerra finirà entro l’anno 1918. Il piccolo profeta non era cieco prima della profezia: la cecità era indissolubile però colla sua nuova qualità; egli è diventato cieco subito dopo aver allietato gli uomini con la fausta notizia della prossima loro liberazione dall’incubo del sangue.

Ostria è nelle Marche (presso Senigallia, precisa la «Stampa») l’istituto del Cottolengo è a Torino. Due settimane fa si affermava che nella pia Casa del Cottolengo una bambina, di spirito profetico dotata, incominciò a prevedere tutta una serie di piccoli avvenimenti. D’un tratto affermò di sapere quando la guerra sarebbe finita, ma rifiutò di dirlo perché sicura di diventar cieca. Come il fanciullo d’Ostria (si narra) ella venne visitata da specialisti, i suoi occhi furono riconosciuti immuni da ogni predisposizione alla cecità. Fu indotta a parlare, recitò la profezia, e immediatamente divenne cieca. Torino-stria, come nel 1916 Torino-Padova, S. Antonio e il frate del convento dei Cappuccini. Una profezia all’anno, una pace all’anno. Ma nel 1918 lo spirito popolare ha fatta propria la tradizione, l’ha abbellita della ingenua poesia che vivifica le sue creazioni spontanee. La qualità di profeta fu ricongiunta con la sventura della cecità. Il greco Tiresia era cieco: la limpida chiarità del suo pensiero era chiusa in un corpo opaco, chiuso ad ogni impressione dell’attualità. È la compensazione ineluttabile che la natura domanda alle sue eccezioni: c’è un principio di pensiero di giustizia. È un destino atroce, come quello di Cassandra, che non viene creduta, che conosce gli eventi futuri, li vede avvicinarsi, sa chi sarà travolto e piange e parla, ma trova solo scettici, indifferenti gli uomini che non provvedono, che non si oppongono al destino. Cassandra vive un dramma piú individuale, è creazione di poesia colta, già raffinata letterariamente. Tiresia è popolare, è plastico: la sventura ha un aspetto esteriore nella sua persona, il dramma è fisico prima e piú che interiore, la pietà è immediata, non ha bisogno di riflessioni e di ragionamenti per sorgere. Sembra una cosa da nulla: è invece un’enorme esperienza, che solo la tradizione popolare poteva riuscire a provare e concretare. Il decimo canto dell’inferno dantesco, la fortuna che esso ha avuto nella critica e nella diffusione, è dipendente da questa esperienza. Farinata e Cavalcante sono puniti dell’aver voluto troppo vedere nell’al di là, uscendo fuori dalla disciplina cattolica: sono puniti con la non conoscenza del presente. Ma il dramma di questa punizione è sfuggito alla critica. Farinata è ammirato per il plastico atteggiarsi della sua fierezza, per il suo giganteggiare nell’orrore infernale. Cavalcante è trascurato; eppure egli è colpito a morte da una parola: egli ebbe, che gli fa credere suo figlio essere morto. Egli non conosce il presente: vede il futuro e nel futuro il figlio è morto; nel presente? Dubbio torturante, punizione tremenda in questo dubbio, dramma altissimo che si consuma in poche parole. Ma dramma difficile, complicato, che per essere compreso ha bisogno di riflessione e ragionamento; che agghiaccia d’orrore per la sua rapidità e intensità, ma dopo esame critico. Cavalcante non vede, ma non è cieco, non ha una plastica evidenza corporale della sua sventura. Dante è un poeta colto in questo caso. La tradizione popolare vuole la plasticità, ha una poesia piú ingenua e immediata.

 

Il bambino di Ostria, la fanciulla della pia Casa del Cottolengo, sono appunto due canti della poesia popolare: poesia, niente altro che poesia…

(18 aprile 1918).