Il dovere dell’on. Quindicilire

L’on. Quirino Nofri, piú volgarmente noto come l’on. Quindicilire, ha scritto un articolo sulla restrizione dei consumi che ha avuto una discreta fortuna. Pensato come poteva pensarlo l’onorevole, a seconda cioè delle ultime convinzioni di costui, è stato riportato dalla «Gazzetta del Popolo», dal «Messaggero» e non sappiamo da quanti altri organi ed organetti della trionfante democrazia. L’on. Quindicilire lo ha affidato alle tante cassette postali della pubblica opinione, e le cassette postali lo hanno accolto nel loro seno capace. Purtroppo fra di esse c’è stato anche il «Bollettino dell’ACT», e dispiace constatare che anch’esso si è ridotto questa volta all’umile ufficio di cassetta acefala, pur dovendo avere una testa che pensi e sappia distinguere tra il grano e il loglio. Perché ciò che scrive l’onorevole sarà grano ottimo, a rendimento ancor maggiore dell’85 per cento, per coloro che se ne devono cibare, per coloro ai quali idealmente era rivolto, e cioè per i lettori della «Gazzetta», del «Messaggero» e degli altri organi ed organetti della democrazia. Ma per i lettori del «Bollettino» esso è loglio, sterile loglio, tutto ciò che di piú loglio possa esistere sulla superficie della terra. E ciò quantunque quella tal cosa che si chiama dovere, non sia diventata, come mostra credere l’on. Quindicilire, «da troppo tempo un mito e una frase retorica». Anzi appunto perché il dovere, non mito e non frase retorica, è sempre vivo e operante nelle loro coscienze. E significa per essi qualcosa di ben concreto: essere coerenti alle loro convinzioni formatesi liberamente, accettate perché il risultato di un libero e disinteressato esame dei dati storici di dominio universale.

Per il Nofri il dovere ha ora altro significato. Significa essere ritenuto incosciente e settario se non si fa ciò che a lui pare il meglio. Significa «affrontare, ferire, rompere consuetudini inveterate, costumi secolari, mentalità fossilizzate, pregiudizi ciechi», e inoltre «speculazioni politiche e religiose, facenti il loro turpe gioco sulle conseguenze della guerra», come si dice precisamente nel linguaggio della «Gazzetta» e del «Messaggero» e come è lecito faccia un tantino maraviglia nel linguaggio del «Bollettino». E per l’on. Quindicilire, è dovere dire anche queste altre cose: «Siamo in guerra, o signori!, e da piú di due anni; e malgrado ciò pare ci siano parecchi milioni di italiani che lo sanno, ma non lo sentono. Prima che lo sentano troppo, pensi, chi della guerra ha la responsabilità piú nel paese che al fronte, di farglielo sentire quanto basti a risvegliare automaticamente il loro dovere, che è quello di contribuire alla vittoria, che solo può terminare la guerra, almeno col sacrificio di qualche soddisfazione del ventre». Ma in attesa che gli altri siano costretti a compiere automaticamente tutti questi doveri, verso «coloro che dànno quotidianamente, al fronte, la loro vita per la patria e per la civiltà, per la giustizia e per la libertà internazionale», l’on. Quindicilire non si sente di compiere liberamente il dovere di staccare la sua persona dai settari e incoscienti che lo stipendiano. Ed in quanto a restrizioni, egli ne adora una sola: la restrizione del sacrificio pecuniario in favore di quelli che quotidianamente, ecc.: poiché egli che guadagna piú di trentamila lire all’anno, dà a favore dell’eroismo quelle quindici lire al mese che lo hanno reso famigerato.

(16 dicembre 1916).