Impaludamento

È stata sempre una gloria dei comuni dell’Alta Italia l’aver saputo mantenere, anche attraverso il processo di accentramento statale degli ultimi cinquant’anni, una relativa autonomia. Essa era negli uomini, se non nelle cose e nelle leggi; negli amministratori, che hanno quasi sempre avuto la coscienza del loro dovere civico, della responsabilità che assumevano accettando le cariche cittadine.

È cosí che, a malgrado delle condizioni sempre precarie della economia generale nazionale, nel settentrione si è raggiunto un livello di vita che è pari a quello degli Stati piú progrediti, e la terra si è venuta organizzando e la pianura padana è diventata un’immensa fucina di produzione intensa. Lo Stato liberale ha come massima di non intervenire mai direttamente negli interessi strettamente locali. Lascia all’iniziativa dei singoli l’eccitare volta per volta a fare ciò che è necessario, a intervenire con i suoi mezzi piú potenti, piú vasti, per colmare le lacune, per fare ciò che i privati e i comuni da soli non potrebbero. Nel Medioevo la pianura padana era un immenso acquitrino ma, per usare una frase del De Sanctis, la palude era piú nei cervelli che nel territorio. Bonificati quelli, anche questo fu bonificato, e le acque che prima apportavano la malaria e la pellagra furono disciplinate e divennero sorgente di ricchezza e di benessere.

A Torino l’amministrazione Rossi sta compiendo l’opera inversa. Sta di nuovo impaludando i cervelli. Pare di essere cittadini non di una città moderna con quasi mezzo milione di abitanti, ma di un comunello delle Calabrie o della Basilicata. Non siamo arrivati a sentire il fatidico grido: Piove, governo ladro!, ma poco c’è mancato. Il sindaco ha avuto la faccia fresca di annunziare cosí, semplicemente, che era possibile e bisognava deprecare che la nostra città rimanesse di colpo senza grano e senza pane, e a breve scadenza, fra due o tre giorni. Nessuno gli ha domandato conto del suo operato, del modo col quale si era servito del suo mandato di tutore delle necessità piú urgenti degli amministrati.

Nessuno ha domandato conto a questo volgare reliquiario delle peggiori qualità dell’italiano tradizionale a che cosa erano dunque servite le sue frequenti gite a Roma, i suoi colloqui di servitore blasonato con tutti i suoi alti protettori, se cosí d’un tratto la città doveva rimanere priva del suo principale mezzo di sostentamento, mentre altrove (e lo disse egli stesso) ciò non era avvenuto o si era ben lontani dall’aver preoccupazioni di tal genere.

Il governo ha avuto responsabilità iniziali gravissime, e dovrà a suo tempo risponderne. Ma ormai siamo entrati in un periodo di assestamento, e degli squilibri parziali sono responsabili solo gli amministratori locali. La cecità con la quale il governo ha operato lasciando che l’Italia fosse sacrificata di fronte agli altri paesi per i bisogni annonari, ha avuto ed ha tuttora riscontro nella cecità della giunta Rossi, che ha lasciato sacrificare Torino di fronte alle altre città italiane. Non crediamo troppo alle vittime, in questi casi. Troppi altri casi abbiamo visti! Sono già trascorsi cinque mesi, e l’azione giudiziaria contro le società del gas non è stata ancora iniziata; anzi queste società muovono ora lite al comune per essere pagate integralmente.

Il Palazzo di Città è diventato una palude miasmatica che è necessario bonificare. Il cervello di Teofilo Rossi, ottenebrato dalle emanazioni alcooliche dei suoi stabilimenti, minaccia di guastare il cervello di tutta la cittadinanza. Siamo in istato di guerra, e il tardare significa essere affamati. Ma gli storici codini inorridiscono nel narrare che durante la Rivoluzione francese gli amministratori inetti venivano ghigliottinati.

(14 maggio 1916).