La barba e la fascia

Il filosofo Croce ha scritto un paio di monografie per dimostrare che la «storia» è sempre, e non può che essere sempre, «contemporanea». Un fatto passato, per essere storia, e non semplice segno grafico, documento materiale, strumento mnemonico, deve essere ripensato e in questo ripensamento si contemporaneizza, poiché la valutazione, l’ordine che si dà ai suoi elementi costitutivi dipendono necessariamente dalla coscienza «contemporanea» di chi fa la storia anche passata, di chi ripensa il fatto passato.

Il filosofo Croce ha ragione, indubbiamente. E mai questa sua ragione sarebbe apparsa cosí convincente come appare a noi, che viviamo esperienze enormi, d’una profondità ed ampiezza mai verificatesi. Comprendiamo meglio le vicende e la psicologia del passato, degli uomini del passato, di quelli che in iscuola ci hanno abituato a chiamare tiranni, a raffigurarceli grondanti sangue, viso truce, circondati di sgherri, occupanti il loro tempo a firmare condanne alla galera e al patibolo.

La coscienza «attuale» ci smaga, ci fa ripensare quei fatti e quegli uomini in un modo che si avvicina certo di piú alla realtà loro. Essi, i tiranni, avevano un torto che non è meno comune ora di allora: erano, e sono, materialisti, nel senso che misurano la realtà spirituale solo con misure esteriori, e la giudicano solo dalla sua apparenza sensibile. La censura allora permetteva di parlare della libertà cinese, ma non di quella italiana: una libertà lontana tante migliaia di chilometri non faceva spavento. Nei collegi gesuitici sarebbe stato severamente punito uno scolaro che in un componimento avesse parlato di repubblica, di ideali popolari, di diritti della plebe conculcati, ecc. ecc., ma quello stesso scolaro nei momenti di ricreazione poteva accordarsi coi suoi compagni e rappresentare, improvvisando, scene immaginarie della repubblica romana, in cui egli, romano antico, poteva coprire i tiranni di ogni contumelia, e poteva, con la voce tremante d’emozione, esaltare i plebei conculcati dagli odiati patrizi, ed eccitarli alla sommossa, al pronunciamento, alla secessione. La libertà era vista in lontananza, nel passato, e non sembrava pericolosa, anzi il tribuno piú focoso veniva premiato, magari con un esemplare delle opere di S. Ignazio.

L’esteriorità tiranneggiava i tiranni. L’ordine, la disciplina erano voluti nella superficie, e dalla superficie si giudicava la gravità del disordine e della [in]disciplina. Si ricordano le persecuzioni cui andavano soggetti gli uomini barbuti. La barba era segno di sovversivismo come venti anni fa lo erano la cravatta rossa e il cappello a larghe falde. Come adesso lo è… la fascia sotto il gomito. Chi non issa la fascia ben alto e non la ferma con spilli, ma la lascia cadere floscia e stanca fin sull’orlo della manica, non può non essere un sovversivo, meglio ancora un disfattista. L’esteriorità continua a tiranneggiare i cervelli. Il sepolcro deve essere imbiancato, e apparire pulita casetta lillipuziana e non verminaia. La coscienza non esiste, l’interiorità non esiste, il cervello non esiste. Esiste l’abito, esiste la parola, esiste la scatola cranica. Si processa la parola distaccata dal discorso; non potendo mozzare la scatola cranica la si rinchiude in un carcere in compagnia del corpo.

L’«attualità» ci fa vivere davvero il passato, la psicologia degli uomini del passato. E ci chiarisce le idee, e ci obbliga a trasformare il vocabolario. Lasciamo cadere la parola «tiranno»: sostituiamola con quella di «stupido»: faremo del passato storia contemporanea.

(5 febbraio 1918).