La maschera

«O perché Giove non imprime sulla faccia di ciascun uomo il segno invisibile del suo carattere?», esclama Medea nella tragedia di Euripide.

È il desiderio postumo di tutti i truffati. Il dolore che si prova nello scoprire che si è stati la vittima di un ingannatore è accresciuto dal dover constatare la propria dabbenaggine, dall’essere costretti a riconoscere che se non ci si fosse fidati, se si fosse stati un po’ piú furbi non si sarebbe caduti in trappola. Medea in fondo con la sua esclamazione rigetta la colpa sugli dèi, sul fato che non dà agli uomini gli elementi sufficienti per poter operare con sicurezza, per poter discernere a colpo d’occhio chi può essere un mascalzone da chi è un vero galantuomo. Noi invero, in questi tempi di psichiatria e di antropologia criminale, dovremmo non poter muovere lo stesso rimprovero alle forze ignote che regolano la vita umana, benché gli antropologi siano anche loro spesso vittime, come la comune dei mortali, di imbroglioni e di truffatori. Ma nondimeno dobbiamo essere grati a quelle quattro donne reduci dalla fiera di Novara, alle quali i questurini trovarono indosso tutto il necessario per stabilire che, pur non essendo state sorprese in flagrante, erano delle possibili borsaiole. Diamine, non si portano in giro, di quaresima, maschere, parrucche, velette, senza che la polizia abbia tutti i diritti di sospettare e di arrestare. Non capita tutti i giorni la fortuna di poter incontrare chi non aspetta dagli dèi il marchio di fabbrica e se lo porta egli stesso dentro il portafoglio o nella borsetta. Troppi rimproveri si son mossi alle guardie per la loro cecità, per la loro mancanza di fiuto. Un caustico scrittore viennese (è possibile citare uno scrittore viennese?), Carlo Kraus, era arrivato fino al punto di affermare: «La maggiore fortuna che sia sempre toccata alla polizia è che il 75 per cento degli arrestati non riescono a dimostrare la loro innocenza!» Immaginate un po’ con che gioia il poliziotto, che segui col suo occhio linceo le quattro viaggiatrici da Novara a Torino, che notò nella loro faccia i segni progressivi del turbamento, della confusione, scoprí nelle loro borsette le maschere e le parrucche. Neanche se avesse scoperto un paio di dozzine di orologi e di anelli, sarebbe stato piú contento. Perché non acciuffava dei delinquenti colpevoli di materiali delitti già commessi, ma preveniva tutta una possibile serie di crimini futuri. Prevenire, non punire, si è sempre urlato, deve essere il compito della giustizia oculata, conscia del proprio dovere.

E va bene! Non abbiamo niente da obiettare. Siamo arcipersuasi che tutti gli uomini fin dalla prima fanciullezza si abituano ad incollarsi sulla faccia una maschera di onestà, di serietà, di galantomismo, che in fondo non sarebbe estremamente difficile strappare, se le convenienze sociali non imponessero doveri ed obblighi piú forti della stessa coercizione violenta. Se uno stupido, o una scema, preferisce portare la sua maschera nella borsetta e il dito di Dio ve la va a scovare, sua colpa. Non doveva essere stupido o scema e doveva fare come gli altri. Non si fa il pick pocket nei treni, anche se da Novara a Torino, senza possedere già naturalmente tre o quattro o quante maschere necessarie per la propria truccatura.

Ma vedrete! Le quattro donne riusciranno a dimostrare… la loro innocenza; le maschere della borsetta, a grande scorno della polizia, saranno dimostrate molto piú innocue delle innumerevoli maschere che gli uomini portano in giro per le strade, e saranno sempre queste dalle quali dovremmo specialmente guardarci, perché solo dopo averne subito l’inganno, ci accorgeremo che sono maschere e non facce.

(16 marzo 1916).