La passività

L’assenza del pensiero caratterizza l’azione politica della classe dirigente. Provando e riprovando, è il motto d’ordine, distolto dalla sua sede naturale — la scienza sperimentale, che prova e riprova sulla materia bruta — e trasportato alla politica e all’amministrazione, le quali operano sugli uomini, che nelle prove e riprove soffrono, sono danneggiati, sono taglieggiati in tutti i modi.

Avviene cosí che la molla dello sviluppo storico non sia il pensiero, ma sia il dolore, il male. Il pensiero, antivedendo le logiche conseguenze di una premessa, delibera di operare subito come se quelle conseguenze si fossero verificate, e pertanto evita il male e la sofferenza: la storia si sviluppa allora con una certa armonia, le correzioni da introdurre all’organizzazione degli istituti necessari per la convivenza sociale si riducono al minimo, a quel minimo di imprevedibile che è contenuto nello svolgimento di ogni fatto umano. L’assenza di pensiero, l’empirismo che procede a tastoni per il provando e riprovando, lascia che il male si accumuli, che le sofferenze si moltiplichino: quando la vita ne è diventata insopportabile, provvede e toglie di mezzo la premessa, che di tutto quel male, di tutte quelle sofferenze è stata la sorgente avvelenata. La storia procede cosí per eliminazioni di passività: è un perenne fallimento, una perenne revisione di conti sbagliati, fallimento e sbagli non necessari, ma dovuti al solo fatto che gli amministratori non avevano alcuna capacità per il delicato loro compito.

Riconosciamo dunque nel male il salvatore della fortuna progressiva degli uomini, la sicurezza che alfine qualcosa si farà; la tigna, il colera, il vaiolo hanno costretto, con le stragi d’altri tempi, all’esercizio metodico di norme igieniche che ponessero al riparo dal ripetersi delle stragi. I mali che oggi si verificano costringeranno alla riflessione e ai ripari per l’avvenire. Aspettiamo che la passività cavi gli occhi, che rappresenti un pericolo: la pazienza è ormai diventata la prima virtú cardinale dell’uomo politico e sociale.

Una, due, tre, dieci, venti volte. Dei malandrini si presentano di notte a una portineria. Fanno destare i dormienti. Si dichiarano agenti di polizia agli ordini di un delegato; devono compiere una perquisizione negli appartamenti per assicurarsi che nella casa non siano nascosti dei ricercati speciali, ecc. ecc. Parlano con quella sicurezza e prepotenza che si addice ai rappresentanti della legge che sanno di essere superiori a ogni legge. Alla minima obiezione distribuiscono largamente cazzotti, preludio delle scene selvagge che si svolgono ai commissariati. Il cittadino, abbandonato da ogni forza umana, conoscendo, o per dolorosa esperienza propria o per esperienza raccontata, i costumi della «giustizia», lascia l’ingresso libero, e per una, due, tre, dieci, venti volte gli appartamenti vengono saccheggiati da malandrini.

Che fare? si domanda il cittadino. Aspettare, non c’è altro che aspettare. Che le gesta si moltiplichino, che i malandrini acquistino sempre una maggiore fiducia nell’impunità, ed allarghino il campo della loro azione. Che divenga loro vittima un qualche grasso cittadino, che la grassa proprietà sia in pericolo. Allora l’opinione pubblica sarà satura. Allora si dirà: ma perché non si cerca di dar modo ai cittadini di distinguere subito un malandrino da un agente di polizia? Perché non si dà una divisa a tutti gli agenti di polizia? Perché non si toglie via l’agente in borghese che determina questi equivoci e provoca queste possibilità di malfare?

Lasciate che la passività diventi cumulo, che essa metta in pericolo di fallimento presso i benpensanti e gli indifferenti l’azienda dell’«ordine». Provando e riprovando, si arriverà a provvedere.

Lo sviluppo della storia è tutto cosí, nelle piccole come nelle grandi cose.

(16 giugno 1918).