La patria giapponese

Cinema Vittoria: Taifun, il ciclone. Gente in coda, quattrini in cassetta, facce liete, sospiri di violini e sbuffi di persone accaldate. Sulla tela il dramma: figurine di gheise, ambasciatori nipponici, degenerate intellettuali dell’occidente, una donna perversa, due uomini rivali, assassinio, processo, condanna dell’innocente, scena patetica finale: la morte del reo pentito.

E sta bene: cose comuni, degne tutt’al piú del compiacimento di chi ama gli onesti svaghi del buon popolo in guerra, dimentico della guerra; degne forse anche di un sorriso amaro di chi ha l’animo vibrante per il maledetto flagello, teso nell’aria verso il domani minaccioso. Cose comuni.

Ah, no! Io m’ergo e grido! A voi giovinetti urlanti inni di guerra, a voi professori che negli ospitali cinematografi, regge e palazzi di Max Linder e di Capozzi, lanciate le invocazioni alla dea padrona e gli anatemi ai suoi negatori; a voi mi rivolgo, che siete passati nella sala sfarzosa, dove sulla tela le mobili figure tessevano il dramma atroce, e non avete invocata la censura giustiziera perché venisse, colle forbici venerate, contro la tela sacrilega! E che? Neppure un fischio avete lanciato a rompere l’armonia lene dei violini ed a spezzare l’incanto dell’azione travolgente! Non è dunque vero che voi amate la patria piú d’ogni cosa e ch’essa è bella d’ogni virtú, difesa del debole scudo del buono, invitta assertrice del giusto? E ciononostante, immersi solo nel beato godimento della vista e del buio, propizio alle audaci imprese, lasciate insozzare e diffamare il grande nome, mescolandolo, mezzano ignobile e scusa d’omertà, agli isterici amori di un uomo casto e d’una donna corrotta ed al delitto pazzesco d’un amante deriso? E non protestate contro chi fa della patria il comodo paravento di cento sozzure?

Perché, per chi non lo sapesse, Tokeramo, il professore giapponese in missione a Londra, che non aveva mai degnato di uno sguardo le piccole e dolci donne del suo paese, perde la testa per la prima sgualdrinella in costume tailleur che gli ronza intorno, attratta dai baffi spioventi, dagli occhi a mandorla e dal colorito giallognolo; ed avviene che il suddito del Mikado, per qualche misterioso contraccolpo psichico, rompe la vita alla donnina goduta. E qui entra in scena la grande donna ideale, armata di spada e bilancia. Che accadrebbe mai se il signor Tokeramo, rappresentante del Mikado, dovesse venire arrestato, condannato? Il costume del recluso sul factotum di un re? Pericolo di guerra!… Ed allora non c’è che da fare una cosa: accusare un innocente e mandare in galera il segretario del reo, che ha l’unica colpa di non essere anch’egli mandarino e quindi degno dell’impunità. In nome della patria, Tokeramo dopo un mese, roso dal rimorso, muore; ma se egli riscatta cosí in parte la sua colpa, non riscatta per nulla l’altra grande colpevole dell’ingiustizia: la patria giapponese.

[Venticinque righe censurate].

(16 luglio 1916).