La scuola all’officina

L’officina fa scrivere dei ditirambi. L’officina, si legge, trasformerà la scuola, ridarà sangue e spirito giovanile alla scuola. I giovanetti che andranno in mezzo agli operai, che saranno posti a contatto con una vita meno artificiosa, meno mollemente smidollatrice di quella loro solita di famiglia, si trasformeranno, e ne verrà fuori la generazione che si aspetta per rinnovare la vita italiana, per rendere piú realisticamente succosa la vita italiana. È l’Inghilterra che dà il modello per le ipotesi. È una generazione all’inglese che si vuol preparare. Il nuovo ministro dell’istruzione pubblica dà il suo placet. Lascia circolare una infinità di voci. Esenzione dalle tasse, facilitazioni degli esami, riduzioni dei programmi scolastici. E i professori, per non sembrare antipatriotti, dovranno chinare il capo. E i padri di famiglia, per non sembrare sabotatori della guerra, dovranno lasciare che i loro figliuoli non studino per lavorare alle munizioni, e nello stesso tempo non si specializzino nel lavoro, non esagerino nel diventare troppo operai, perché dovranno diventare qualcosa con la scuola e non con l’officina. La solita retorica verbosa sta costruendo la maglia di pregiudizi, di convenienze in cui sarà strozzata la scuola, e sarà strozzata una certa quantità di giovani. Si innalza l’officina e si deprime la scuola, a parole, per imitare l’Inghilterra, dove invece sono tenute alte tanto la scuola che l’officina. Dove la scuola non è pagata dallo Stato e non serve a creare degli impiegati, ma è pagata dai frequentatori che vogliono andarci, perché credono di essere piú utili studiando che lavorando manualmente. Dove una immigrazione di giovani dalla scuola all’officina non rappresenta un fenomeno notevole, perché non esistendo dei titoli d’esame riconosciuti e garantiti dallo Stato, non è possibile avvenga che un Tizio abbia diritto ad entrare nel liceo o nell’università solo perché è stato per un anno in quinta ginnasiale o in terza liceale, e anche se invece di andare a scuola sia andato al caffè o all’officina. Perché in Inghilterra, non essendoci un protezionismo di Stato sui titoli di studio, gli impieghi e le cariche si dànno solo a chi veramente sa e non a chi è stato per un certo tempo nei ruoli dei provveditorati.

Si dice che in Italia, e l’abbiamo detto anche noi, si è data troppa importanza alla scuola del sapere disinteressato, mentre si è trascurata la scuola del lavoro. Ma il ministro Ruffini mostra di non dare importanza né all’una né all’altra. Crede infatti che la qualità della scuola possa mutare perché gli studenti vanno all’officina. Ma la scuola, se è fatta seriamente, non lascia tempo per l’officina e, viceversa, chi lavora sul serio solo con un grandissimo sforzo di volontà può istruirsi. Innestarle una con l’altra, cosí come si sta facendo, è una delle tante aberrazioni pedagogiche che hanno impedito sempre alla scuola in Italia di essere una cosa seria. Fate che a scuola vada solo chi ha l’attitudine, l’intelligenza e la volontà necessaria, e che la scuola non sia un privilegio di chi può spendere; liberate la scuola dagli intrusi, dai futuri spostati, e obbligate questi a lavorare nel modo che li renda piú utili. Fate sí che la scuola sia veramente scuola, e l’officina non sia un ergastolo, e avrete allora solamente una generazione di uomini utili; utili, perché faranno opera proficua nelle arti liberali, e perché daranno all’officina ciò che le manca: la dignità, il riconoscimento della sua funzione indispensabile, l’equiparamento dell’operaio a qualunque altro professionista.

(8 settembre 1916).