L’aio senza imbarazzi

Filippo Crispolti ha della storia una concezione retorica molto pittoresca. Immagina le nazioni in guerra come i clienti della corsia di un ospedale sperduto in una foresta del Congo, i quali, poveretti, ignorano l’esistenza di un medico miracoloso, taumaturgico, che potrebbe ridare loro la salute. Il medico non può andar fino a loro perché vale per le visite mediche una regola che dice: medicus non accedat, nisi vocatus; gli ammalati ignorano la sua abilità, e non lo chiamano. Devono dunque morire per mancanza di respiro? Mai ciò fia! Un marchese di buoncuore si fa cozzone intermediario tra i due, e cosí acquista gloria in terra e beatitudine in cielo.

Con questo apologo da aio senza imbarazzi che a tutto trova risposta per soddisfare le nascenti curiosità dei suoi scolaretti, il Crispolti crede aver dimostrato la ridicolaggine del dilemma da noi postogli: o è vera la grande autorità morale del papa — e allora essa si imporrà da sé agli uomini di governo; o non è vera — allora non c’è ragione perché il papa venga invitato da essi al congresso della pace.

Il fatto stesso che il pio marchese abbia ridotto gli enormi fatti storici che si stanno svolgendo alla risibile parodia su riportata, dimostra come egli non abbia capito il valore del nostro dilemma che è tirato diritto diritto dal piú rigido realismo storico che abbia mai trovato la sua giustificazione nel piú recente idealismo filosofico di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile. Non capisce, il nuovo crociato dell’imperialismo spirituale latino-guelfo, che il papa quale egli se lo immagina è un’astrazione, non un dato storico: astrazione di una morale cristiana, o cattolica, o gesuitica, che aleggia su tutta l’umanità, senza che con esattezza possa dirsi in quali forze attive precisamente s’incarni, di quali mezzi efficaci possa servirsi per imporre e fare osservare i suoi comandamenti.

Unica base di questa autorità possono essere le coscienze individuali. E se esse non impongono con una voce sola, collettiva, enorme, irresistibile, ai governanti l’assunzione del papa a supremo arbitro della pace, ad unico genuino assertore delle loro aspirazioni, dei loro voti, vuol dire che questa tanto strombazzata autorità morale è un mito, è una favola illusoria e grottesca, di cui Filippo Crispolti s’è fatto il gratuito e ridicolo profeta. Perché egli, come ogni credente (facciamo l’ipotesi piú benevola) confonde il dover essere con l’essere. Misura l’intensità della fede in base alle statistiche dei censimenti; questi affermano che almeno la metà piú uno dei combattenti sono cristiani, quindi ispirantisi alla cattedra di S. Pietro; solo per questa ragione democratica del numero, amorfo, incosciente, inutile, il papa dovrebbe essere l’autorità massima, il giudice supremo.

Piú senza imbarazzi di cosí, l’aio Crispolti non potrebbe essere. In fondo egli è un pragmatista (sebbene ciò puzzi maledettamente d’eresia), un credente nella volontà di credere. «Vogliamo credere che il papa sia» ecc. ecc., e il papa immediatamente è ciò che noi vogliamo

Ma questo gioco si fa con i maori o gli ottentotti. Non non vogliamo credere. E riproponiamo il dilemma, per mettere in imbarazzo l’aio casista.

(18 maggio 1916).