L’amuleto

C’è nella commedia popolare italiana una maschera (Arlecchino o Brighella, o un altro qualsiasi della bella schiera) che ottiene uno strepitoso successo ogni volta che ripete la sua particina cristallizzata nella formula: «Lo sai che mi sono fidanzato con la figlia del re del Perú? E il matrimonio è per metà concluso; capirai, manca l’assenso della ragazza, ma c’è già il mio…»

Francesco Campora è, fra i sessantaquattro maggioritari del Palazzo di Città, quella maschera. E recita per benino la sua particina ogni volta che se ne offre il destro. Piccoletto, faccia di buon uomo dalle tranquille digestioni, se la gode di rappresentare tra i sessantaquattro qualcosa che non sia la troppo vaga cittadinanza; lascia a Teofilo Rossi l’alto onore di essere il sicuro interprete dell’anima di tutta Torino; per reggere a tanta mole di magnanimi affetti ci vuole una mente universale, uno spirito tutto porte e finestre come quello del futuro ambasciatore, che non «muove collo né piega sua costa» sotto il destino che lo ha come pupillo.

Francesco Campora parla solo a nome della classe operaia e ne ha abbastanza, il buon uomo, di questo auto-mandato. Egli è il refrigerante della maggioranza. Permette tutte le allusioni, permette ai sessantaquattro di sogghignare delle proteste della sinistra, tranquillizza colla sua presenza le coscienze timorate ed inquiete. Chi ha compilata la lista clerico… liberale per l’elezione del 1914 ha avuto senza dubbio la mano felice.

Il fidanzato del Perú, la maschera che ripete la formuletta cristallizzata, ha la importantissima funzione dell’amuleto. Anche la superstizione è una forza sociale. Il bandito, che deve essere un uomo forte se ha avuto il coraggio di mettersi contro tutta la società, non può fare a meno di certi gingilli che lo assicurino, contro le minacce indefinibili e perciò piú paurose, della protezione di altrettanti numi indefinibili e perciò piú rassicuranti. La classe operaia è per i sessantaquattro una minaccia indefinibile. Avulsi dalla realtà, sommersi in un oceano di parole e di formule, non capiscono — questi ossessionati della paura socialista — in che veramente siano minacciati. Abituati a parlare in nome di qualcheduno, convinti di essere veramente i mandatari di qualcheduno, si sentono allargare il petto dalla soddisfazione quando la maschera pronuncia il sacramentale: «a nome della classe operaia!»

Se lo dice, lo è, come lo sono i sessantaquattro; dunque la minoranza a che fa le parole grosse? Già, illusi, montatori di cervelli riscaldati, sobillatori; ma la vera, la sana classe operaia non è con Campora. La superstizione, che non è che volontà di credere, è una forza molto piú grande, molto piú diffusa di quanto non si creda comunemente.

Pertanto, non sentiamo collera contro Campora. Quando egli parla, abbiamo un blando sorriso per la senilità di cui è esponente. La volontà di credersi sicuri, se è forza per poter vivere, è debolezza nelle lotte senza quartiere. Campora un giorno lo faremo imbalsamare perché continui a farci sorridere con i ricordi; è troppo buon uomo, è troppo amuleto, perché possa meritarsi dagli avversari un trattamento da individuo. Gli austriaci non lo avrebbero certamente impiccato.

(28 luglio 1916).