L’avvocato

Domanda la parola il consigliere Cattaneo. Chi parla? L’ex assessore, il membro del comitato esecutivo dell’Esposizione, il difensore, l’accusato, l’accusatore, il consigliere comunale, e l’aspirante al sindacato e quindi al laticlavio? No, parla semplicemente l’avvocato, il prezioso del suo mestiere, il prof. R. G. Cattaneo, docente di diritto alla R. Università. Egli fa dell’arte per l’arte, vuol vincere la sua causa perché un grande avvocato come lui deve vincerle le cause.

Ciò è profondamente ripugnante e disonesto. Si può giustificare l’avvocato di mestiere che, pagato, difende chiunque domanda il suo patrocinio. Si è bensí sentito schifo qualche volta vedendo degli avvocati ridere e mostrarsi dei biglietti di banca, frutto della rapina dei loro clienti, difesi poco prima con le lacrime agli occhi precisamente dell’accusa di quel furto del quale l’avvocato era diventato in parte ricettatore. Ma c’è il sacro diritto della difesa e bisogna rispettarlo, anche se per esso l’untorello che ha per leggerezza o per necessità commesso un fallo debba accontentarsi di un avvocatuzzo d’ufficio, e si permette che dei ladri in grande col frutto del mestiere assoldino legulei di grido che sappiano a dovere muovere gli affetti.

Ma che il rappresentante di un corpo elettorale, il mandatario degli interessi pubblici, ricorra ai sistemi curialeschi anche fuori delle sedi competenti, e abusando della sua forza dialettica (ohibò! quanta esagerazione in fondo), cerchi di ridurre a vana schermaglia di parole vuote di significato una quistione che involge un principio di rettitudine amministrativa e di scrupolosità civica, è demagogico, è abietto. Imbonire i giurati è un dovere dell’avvocato, secondo la morale corrente; ma cercare di imbonire i colleghi del consiglio con l’agilità da saltimbanco della logica formale, se la sentenza non deve essere data subito, è anche discretamente idiota. L’avvocato cerca di ipnotizzare il pubblico insistendo su due o tre motivi: «L’importante è che la nazione colmi il deficit». «L’Esposizione aveva fini nazionali quindi è dovere dello Stato intervenire». Ed in fondo è anche stato di una inconsciamente schietta brutalità quando ha detto: «Se riconoscete necessario che lo Stato paghi, non dovete domandare che i conti siano presentati prima di questo fatto, perché probabilmente, se i conti vengono pubblicati prima, lo Stato non paga». Ma è questa necessità, imprescindibile secondo il grande avvocato, che noi appunto neghiamo. Lo Stato deve intervenire solo nel caso che sia esaurientemente accertato che il passivo era inevitabile per il fatto che si volle dare all’Esposizione un carattere nazionale. Perciò, del suo intervento non si deve fare una pregiudiziale; anzi, il grande avvocato, impostando in tal modo la sua causa, la rovina, perché il gioco luminoso delle belle parole o ha l’effetto di determinare immediatamente la sentenza in un certo senso, oppure mostra subito la corda. Perché, signori miei, risponde l’opinione pubblica, se avete tanta paura che il governo, conosciuti i conti, non voglia piú pagare, vuol dire che sotto ci deve essere qualcosa che a noi piace recisamente sia ben messa in chiaro.

E lo scandalo del Palazzo di Giustizia insegna qualche cosa perché non si lasci ancora tempo al tempo e una proscrizione ponga tutto in tacere.

(3 marzo 1916).