In un paese dell’Ungheria. Max Nordau entra in una botteguccia del quartiere ebreo. Domanda un francobollo. Una donna, rivolta a uno che sta nel retrobottega, domanda nel gergo spagnolo degli ebrei balcanici: «Dove sono i francobolli?» Max Nordau domanda: «Parlate dunque spagnolo?» «No — risponde la donna — io parlo giudeo». Leggendo l’ultima lettera aperta di Stenterello Cesare Foà ai giornali, abbiamo capito l’intimo significato dell’aneddoto e della campagna che l’egregio avvocato Cesare Foà (via S. Massimo 44, cioè quartiere del ghetto, di felice memoria) conduce con furore rabbioso contro i tedeschi e contro l’imbastardimento della lingua di Dante.
Abbiamo pubblicato un documento della prosa dantesca dell’avvocato italico; abbiamo ammirato la copiosa messe di solecismi, di idiotismi, di ellissi di soggetto, di verbo, di senso comune, che l’egregio riscosso italico (via S. Massimo 44) era riuscito a cogliere in appena quattro righe di cartolina illustrata. Ora comprendiamo. Se qualcuno si permetterà di domandare all’avvocato riscosso: «Dunque ella scrive italiano?», siamo sicuri che egli risponderà: «Italiano? Ma no, io scrivo la lingua di Dante». Strano destino quello dei figli d’Israele. Nella penisola balcanica non sanno di parlar spagnolo, ma conservando un briciolo almeno della loro dignità di stirpe, chiamano il loro gergo spagnolesco «giudeo». In Italia, essendosi italicizzati («noi latini, noi civili latini») e avendo trovato nell’antitedeschismo la bigoncia per le loro profezie («chi è stato austriaco lo sarà per omnia saecula saeculorum»), chiamano il loro gergo «lingua di Dante», con evidente confusione di Dante col Burchiello.
La cultura di Stenterello Cesare Foà è tutta piena di queste confusioni. La cultura non può essere Kultur, già, si capisce, ed essa, come non bada, nello scrivere, ai solecismi, agli idiotismi e alle minori sgrammaticature, cosí non bada, nella storia, agli anacronismi e alla sostituzione di persona. Tutto diventa burchiellesco negli scritti stenterelleschi.
Arrigo VII diventa figlio di Federico Barbarossa, per esempio, e le sue reliquie estreme vengono fatte riposare a Palermo in luogo sicuro da «quegli Unni vigliacchi». Ciò dimostra la profonda conoscenza che Cesare Foà ha degli scritti di Dante, e come egli abbia letto la Divina Commedia e le Epistole, in cui Arrigo VII viene chiamato «agnello di Dio», e vien detto come Dante gli abbia baciato i piedi (orrore, Dante che bacia i piedi di un imperatore tedesco e ne invoca la discesa in Italia, e venuto lo chiama «agnello di Dio»), e come Cesare Foà, il rivendicatore della cultura italica, conosca la cronologia della storia italiana, per far nascere Arrigo VII, contemporaneo di Dante, da Federico Barbarossa vissuto circa duecento anni prima, e per farlo morire in Sicilia, quando al dominio svevo in Sicilia era già succeduto il dominio angioino, e dopo ancora quello aragonese, e nell’impero germanico stesso la casa Sveva si era spenta e l’imperatore era non svevo, ma lussemburghese.
Cosí Stenterello alla Kultur sostituisce la cultura; cosí Stenterello alla lingua italiana, cosmopolita, sostituisce la lingua di Dante, trasformata in gergo giudeo; cosí Stenterello Cesare Foà, facendo italico il ghetto, sostituisce alla concreta e perspicua cultura italiana la biblica confusione di Babele, per dare il colpo di grazia al germanesimo, che ha oscurato, con le oscurità del pensiero nibelungico, la sana tradizione italica di Pitagora e di Ezechiele.
(17 aprile 1917).