L’uomo che aspetta qualcosa

Conosco un uomo che ho casellato in una rubrica speciale, della mia memoria: l’uomo che aspetta qualcosa.

Mi trovo volentieri, discorro volentieri con lui. È un osservatore imparziale della storia che gli si svolge intorno. Non è un uomo d’azione, perché non ha dato la sua adesione a nessun programma concreto. Non è un temperamento critico, perché per criticare bisogna distinguere, per distinguere bisogna avere un criterio, una idea generale, un apriorismo polemico, ed egli non ha avuto tempo di formarsi un criterio, di pensare un’idea, di smaltirla, assimilarla, confonderla talmente con la coscienza viva fino a farla diventare un apriorismo logico. Egli aspetta semplicemente, e questa eterna battuta di aspetto della sua vita è diventata una cosa morbosa, un sentimento acuto di nostalgia che lo fa risvegliare durante il sonno con le orecchie tese per cercare di percepire un ronzio di folla nelle strade, il trotto serrato della cavalleria punitrice, il cadenzato ritmo dei fanti territoriali che legheranno coi loro cordoni la belva infuriata della rivoluzione. La sua ansia è talmente esasperata che qualche mattina lo costringe ad uscire ai primi rumori cittadini e gli fa aprire con mano tremante i giornali, nei quali una piccola notizia, un bianco sintomatico, un ordine del giorno gli dànno un tuffo al cuore, gli sbiancano le gote, lo fanno rimanere pensieroso per tutta la giornata.

Cominciò a soffrire di questo orgasmo qualche anno fa; si rassodò nel 1914. Cominciò a cercare degli amici fra i sovversivi; voleva ambientarsi, voleva assottigliare il suo sesto senso, voleva essere in grado di aspettar meglio, percependo meglio i sintomi della qualcosa che si andava preparando. Arrivò fino al punto di dar maggiore importanza alla vittoria del deputato Bevione che all’uccisione di Francesco Ferdinando, annunziata dai giornali nello stesso giorno, nella stessa edizione. La guerra europea pertanto lo sorprese, lo turbò ancor di piú con la sua parvenza di miracolo. Aspettò, l’uomo senza idee generali, l’uomo che non sente la civiltà e la barbarie, il diritto e la prepotenza, ma vuole il fatto, il fatto nuovo, definitivo, che lo guarisca dalla sua morbosa passione, che sia come un cancello nel divenire, che fermi la storia. Non l’avevo piú visto, quasi due anni che mi sfuggiva, perché lo avevo ingannato, perché avevo contribuito a dare un indirizzo falso alla sua aspettativa.

Mi ricerca di nuovo; sente che non può aspettare niente dall’altra parte; è dimagrato, i suoi nervi sono ancora piú sottili, percepiscono tutto, sono la sua disperazione. Non può dimenticare nulla, gli stimoli sono troppi, e lo distruggono. È a un bivio; la sua passione si rivolge di nuovo all’interno; la notte si desta di nuovo per sentire il ronzio della folla tumultuante, il galoppo serrato della cavalleria. Io ne sono impressionato. Non è igienico per la società l’uomo che aspetta qualcosa. La censura dovrebbe cancellarlo dal marciapiede, dal tavolino da caffè. Mi pare che aspettare qualcosa porta a desiderare qualcosa, ad attuare qualcosa. La censura, la questura bisogna che provvedano.

(7 novembre 1916).