Proposta ai capocomici

I capocomici delle compagnie nazionali e dialettali che agiscono nei teatri cittadini dovrebbero ritornare ai costumi del buon tempo antico e completare gli spettacoli con una farsa. La pace è ritornata, l’influenza decresce, il «popolo» ha riacquistato il diritto di divertirsi, di spianare le facce immusonite per il cumulo di tanti mali.

Consigliamo ai capocomici una farsa: l’Epidemia, di Ottavio Mirbeau. È una farsa, ma è anche una moralità. È scritta da un antiborghese, ma appunto perciò può essere molto proficua alla borghesia. In questo momento essa è ritornata di attualità. Non perché un’epidemia di tifo minacci di far strage, brillante seconda dell’epidemia spagnola, ma perché la buona borghesia torinese ragiona in confronto di avvenimenti recenti, presenti e che possono diventare endemici nel futuro prossimo, proprio come i buoni borghesi della farsa di Ottavio Mirbeau.

Un grasso e pacifico droghiere descrive un episodio cui ha assistito in via Roma; la sua faccia cicciosa irradia gioia tripudiante. Conclude: «Non mi son mai divertito tanto in vita mia!» Questo cittadino torinese pareva proprio scaturito vivo, parlante, trasudante, dalle pagine del Mirbeau.

Nell’Epidemia si assiste ad una seduta del consiglio comunale di una città marittima francese. Nell’arsenale si è sviluppata la febbre tifoidea: i soldati muoiono; il prefetto marittimo protesta presso il municipio che non sa mai decidersi a risanare le caserme e costruirvi delle buone condutture d’acqua potabile. L’autorità giudiziaria ha tratto in arresto un macellaio, consigliere comunale, debitamente repubblicano, democratico e patriota, perché ha venduto carne guasta ai soldati. Il consiglio rumoreggia, protesta. Il medico consulente, simbolo della scienza e della logica asservite agli interessi di classe, sostiene che l’igiene è una invenzione reazionaria, che la carne corrotta ha virtú stomatiche di prim’ordine, che la febbre tifoidea sa rispettare le gerarchie, cosa per cui colpisce i soldati, ma non gli ufficiali, la plebe, la poveraglia pezzente, ma non il popolo borghese. I consiglieri si entusiasmano alle parole della scienza, e l’entusiasmo arriva al delirio patriottico quando viene ricordata la missione eroica dell’epidemia, che abitua i soldati all’idea della morte per la nazione e per l’ideale.

Quand’ecco che s’avanza un messo di sventura: la febbre tifoidea ha ucciso un borghese, un borghese «piccoletto e rotondetto, dalle gracili gambe, dalla pancetta ben tesa nel panciotto». Succede uno scompiglio. Le piú legittime ed autorevoli opinioni sono state rovesciate. E allora: si riabilita l’igiene, si minaccia la lanterna al collega macellaio, si votano milioni e milioni per l’acquedotto, per il risanamento delle caserme, per tutti quei provvedimenti che assicurino l’integrità fisica dei borghesi, insidiata, minacciata da tanti mali crudeli.

La farsa sarebbe d’occasione, potrebbe dare qualche utile insegnamento ai buoni borghesi di Torino, i quali, una volta tanto, uscirebbero di teatro soddisfatti e non rimpiangenti la spesa fatta. I buoni borghesi di Torino gioiscono per certi avvenimenti e si lisciano la pancia rotondetta. Attenti, signori!

Voi credete che in certi pugni e in certi lucenti arnesi sia simbolizzata un’idea, la vostra idea-interesse. Attenti, signori! Voi siete uomini-portafoglio, le idee finiscono col nauseare certa gente, e i vostri portafogli sono miele molto appetitoso per le vespe. Ci par già di sentire i vostri osanna alla giustizia punitrice, tutelatrice sovrana della libertà e della sicurezza personale.

(19 novembre 1918).