Si esagera

Il signor Censore fa dei brutti sogni. Raschiare, raschiare, aguzzare il cervello per poter raschiare, leggere per raschiare, ingegno alacre e sempre all’erta perché niente sfugga al raschiamento universale. Il signor Censore fa dei brutti sogni: giornali senza un bianco, articoli incolonnati in corpo 12 dove legge tutto ciò che ha raschiato in due anni e mezzo, frase dietro frase, sulle quali è incanutito in profonda riflessione psicologica: deprimerà o non deprimerà? disfattismo o cosa lecita? Il signor Censore fa brutti sogni. Si sveglia depresso: tutto ciò che avrebbe potuto deprimere trentasei milioni di abitanti si è immagazzinato nel suo cervello, ronza nelle sue circonvoluzioni cerebrali. Il signor Censore è depresso: da un anno non si ricorda neppure piú dei suoi doveri coniugali: i suoi nervi sono spezzati; egli non resiste piú alla minima tensione. Si avvia all’ufficio aguzzando gli sguardi sui manifesti murali, insinuandoli nelle vetrine: ovunque il piú abbietto e scellerato disfattismo può aver sparso i suoi germi venefici. Si ferma ad una vetrina della «Buona Stampa», occhieggia un’immagine: Maria, pallida e sottile, china la testa piena di grazia con adorabile compunzione: [una riga censurata]. Il signor Censore allibisce, rabbrividendo. Tabú, orrore. Scrive sul taccuino: annota, numero e via, insegna, e angolo di vetrina. Svolta in via Alfieri, imbocca la porticina, sale qualche gradino. Orrore, orrore: al primo piano, sul muro bianco sporco, color ricotta, caffè e cannella, una mano furtiva ha tracciato in stampatello con le ombre un gigantesco: Viva [parola censurata]. Orrore orrore. Il signor Censore fa quattro gradini per volta, rovescia un usciere, magro allampanato anche lui per la depressione intensiva cui deve sottostare tutto l’ufficio di censura, chiama, scampanella: un bacile, dell’acqua, una spugna; censura sui muri delle scale. Egli stesso si rimbocca, inzuppa la spugna e soffrega rabbioso: censura sui muri dell’Ufficio di censura, quattro carabinieri per le scale degli uffici di censura a tutelare il candore dei muri, candore di ricotta, cannella e caffè. E poi al telefono: Questura centrale; comunicazione con segretario, capo di gabinetto; una guardia, due guardie, con un brigadiere, via tale, numero tale, una vetrina, cartoline deprimenti, bisogna provvedere. — Va bene, le manderò il brigadiere [parola censurata] della squadra politica.

Il signor Censore barcolla, come colpito da una mazzata: la febbre, il delirio, è una persecuzione dei disfattisti. Lo trovano tremante, attaccato al telefono, che balbetta: Abbasso il brigadiere! Il suo cervello è sconvolto: vede scritto dappertutto, sui muri, sui giornali, sulle cartoline: Evviva! Evviva il brigadiere! e non può, non può censurare, raschiare, lavare: bacili, spugne, matite, raschini di acciaio, tutto finisce, si logora.

Una barella, quattro militi della Croce Verde: una vittima del dovere, un fatto diverso, una nota di cronaca. Qui giace, qui giace il signor Censore, vittima del disfattismo.

(13 marzo 1918).