Storia d’un uomo che ha battuto il naso contro un lampione

Serata di nebbia. È mezzanotte, un’ora nella quale non possono capitare che grandi delitti e strabilianti avventure. L’uomo cammina tutto solo, in mezzo alla via, cautamente. Scoccano lentamente le ore. Ogni ora due passi. Dodici ore ventiquattro passi, un urto. L’uomo si ferma; si palpa la faccia, la sente umidiccia. Asciuga il sangue che scorre dalle narici e riflette. Sente che è scoccata l’ora topica della sua vita: sente di essere a posto con la tradizione che vuole sia la mezzanotte l’ora dei grandi delitti e delle strabilianti avventure. L’uomo continua a forbirsi con tranquillità. La sua avventura va di là da un banale urto del naso, da una banale emorragia. È tutta la sua persona che ha urtato contro il lampione della piazza in incognito, che ha urtato con tutta la terra, con tutti quelli che sulla terra abitano, almeno su quel frammento di terra che l’uomo era riuscito fin allora solo a distinguere, con la Patria, per intendersi, o se si vuole meglio, con l’Intesa, che in questo momento è la patria piú grande.

L’urto ha suscitato scintille, e le scintille hanno dato fuoco al mucchio di sensazioni indistinte, di sentimenti vaghi che l’uomo aveva accumulato da tre anni. Esse si sono fuse in un blocco. L’uomo non aveva mai pensato tanto in tre anni, se è vero che pensare vuol dire connettere, generalizzare, universalizzare. L’uomo aveva vissuto, solamente. Aveva ristretto la sua vita, senza accorgersi che essa si allargava, si tipizzava, perché di giorno in giorno era diventata uguale alla vita degli altri.

Alzarsi al mattino a un’ora determinata. Ecco tre anni fa ciò che rendeva simile l’uomo a una certa quantità di altri uomini. Poi venne il resto. Mangiare solo ciò che gli altri mangiano, leggere solo ciò che gli altri leggono, andare solo dove gli altri vanno; gli altri stringevano l’uomo da presso, gli tagliavano la strada, gli misuravano la vivanda, gli misuravano i passi, gli misuravano se non il pensiero, almeno gli stimoli al pensiero che quotidianamente il giornale gli offriva.

L’uomo non s’era accorto del cambiamento che era avvenuto nei rapporti tra la sua persona e gli altri. Non se n’era accorto distintamente. L’urto del naso nel lampione lo pose a contatto con gli altri: egli sente ora la collettività. Gli hanno misurato la luce, gli hanno dato una luce di un certo colore. La luce è ciò che piú di tutto lo unisce agli altri: la luce dei lampioni che gli uomini hanno inventato per distinguersi meglio dalle fiere, per non urtarsi fra loro, rendere meno probabili gli urti volontari fra gli uomini-fiere e gli uomini-agnelli.

L’uomo sente la collettività. La sente tutta in sé, la misura tutta sulla sua persona, sulla sua vita. Ora sa chi sono gli altri, perché sa come mangiano e quanto mangiano, come vestono, come calzano, o come pensano, ciò che sanno, ciò che devono ignorare. Pensa che il collettivismo sia una cosa ben esecrabile, se fa urtare il naso nei lampioni, se riduce le vite degli uomini a meccanismi tipici, a serie.

L’uomo pensa. In fondo, riflette, non è la collettività che ama battere il naso. La collettività c’entra poco in tutte queste diavolerie. La collettività non conosce l’Imperio, conosce la Libertà. Il collettivismo della luce bleu è il collettivismo di una minoranza, non di una maggioranza: è il collettivismo per decreto luogotenenziale; non è il comporsi armonico di tutte le volontà in una volontà, di tutti i bisogni in un utile universale. Il collettivismo della luce bleu è la caserma che veniva levata come spauracchio dinanzi alle fantasie pavide ieri, quando l’altro collettivismo faceva paura. È collettivismo della sofferenza, ma non della felicità.

L’uomo pensa sotto il lampione, e continua a forbirsi la faccia. Pensa che non troverà una fontanella per lavarsi e che il sangue manda nella sua gola un tanfo acre e dolciastro, insopportabile.

(27 novembre 1917).