«Umanitari»

Siamo in dovere di esprimere all’illustrissimo signor cav. Donvito, segretario del defunto questore Domenico Carmarino, le scuse piú sentite. Riconosciamo il nostro torto e ne facciamo onorevole ammenda. Qualche giorno fa siamo stati ingiusti con l’illustrissimo cavaliere, arco di volta del palazzo di piazza San Carlo: non abbiamo compreso il significato dell’epigrafe murata a perenne ricordo del questurino umanitario. Questa parola «umanitario» è stata sulle prime come una botta in pieno contro la nostra coscienza e il nostro giudizio. Ci sono voluti alcuni giorni di meditazione e lo stimolo di qualcuno degli ultimi avvenimenti cittadini, regolarmente censurato, per arrivare a capire ciò che il cav. Donvito intendeva dire.

Come sempre, quando si tratta di interpretare un’opera di pensiero, occorre calarsi nel mondo interiore del cavalier Donvito. Occorre comprendere il meccanismo interiore del raziocinio questurinesco, l’ambiente storico in cui il questurino esercita il suo compito, le condizioni generali dello spirito pubblico italiano. Il questurino è diventato il giudice supremo della vita pubblica italiana. Egli è la verità assoluta, egli è la giustizia assoluta, egli è l’onniscienza e l’onnipotenza assoluta. Non sbaglia mai, non giudica fallacemente, non ignora mai nulla. Egli, quando è in piazza e deve affrontare un assembramento di dimostranti, conosce uno per uno gli individui cui si trova di fronte, sa quali sono pregiudicati e quali «fedina pulita», quali sono teppisti, quali galantuomini. Giudica con lucidità meravigliosa quali di questi dimostranti sono degni dell’esecuzione sommaria, e senza processo, senza accordare alcuna circostanza attenuante, dà subito luogo al carnefice, si sdoppia da giudice in carnefice, ed esegue la sentenza capitale. Egli è infallibile: nessun ricorso in cassazione è possibile contro di lui. Non esiste alcun istituto di controllo superiore che vigili sull’operato del questurino, che dia torto al questurino per qualche operazione compiuta. Egli è l’unto del Signore, è il piccolo padre della vita pubblica italiana. È arbitro, incondizionatamente, della vita e della morte dei cittadini italiani.

Ora riflettete: cosa non potrebbe fare il questurino, che pure non fa? Le strade delle città italiane potrebbero trasformarsi in ruscelletti di sangue; ogni cantonata potrebbe quotidianamente adornarsi di quadri futuristi, naturalisti, con pennellate di materia cerebrale, con brandelli di carne, con vivacissimi colori sanguigni. I cittadini potrebbero essere costretti a passeggiare catafratti, con l’elmetto e la corazza, per evitare gli urti poco piacevoli con le pallottole errabonde. E tutto ciò, per dire il vero, non succede. E allora vuol dire che i questurini sanno porsi dei limiti, vuol dire che hanno una coscienza, vuol dire che pesano pure e dànno un certo valore alla vita umana. Vuol dire, in conclusione, che essi hanno il diritto di chiamarsi scambievolmente «umanitari».

Siamo noi che abbiamo torto a non voler concedere loro questo attributo. Siamo noi che abbiamo il torto di essere poco saggi. La saggezza italiana è tutta conchiusa nella esclamazione: «fortuna che non era forcelluto» di quel saggio che, caduto su uno stecco, si cavò un occhio. Se lo stecco fosse stato forcelluto, il saggio si sarebbe accecato del tutto: la fortuna sua perciò era di incommensurabile valore. Noi siamo troppo poco italianamente saggi. Non vogliamo comprendere quanto grande sia la nostra fortuna per il fatto che siamo ancora vivi, ciascuno di noi individualmente. Non vogliamo comprendere che il diritto alla vita è una chimera, che noi siamo ancora vivi perché i questurini sono umanitari. È malinconico, e profondamente malinconico, dover fare di queste constatazioni di inferiore elasticità mentale, cosí come è profondamente melanconico scrivere intorno ad esse, pur di scrivere qualche cosa, pur di poter dare una qualche voce all’enorme passione che si strozza la coscienza.

(27 marzo 1917).