Capitolo IX

Le assurdità e contraddizioni giuridiche.

Nè meglio valgono gli organi e metodi giuridici che ponno in opera quegli istituti; e che rendono i giudizi criminali un gioco di sorte, in cui di accertato non v’è che la spesa inutile per i processi ed i dibattimenti, oltre lo scandalo centuplicato dalla pubblicità che spinge a nuove riproduzioni del reato.

Giurìa.—Quanto poco sia idoneo, p. es., fuori che per i reati politici, l’istituto della giurìa, lo dimostrano le varianti sproporzionate da anno ad anno, da paese in paese, nell’assoluzioni, per esempio: Cagliari che dà le assoluzioni del 50%, mentre l’Alta Italia dà il 23%.[1] Chi mi spiega, scrive Costa, perchè la giurìa a Genova assolva il 30% accusati, mentre Ancona 15, Milano 13? (Relazione statistica sui lavori ecc., Genova, 1879).

Nella stessa Venezia troviamo una differenza che va dal 9 al 51%, secondo che dalle piccole città di provincia c’avviciniamo alle più grandi ed alla capitale.

«Le classi colte civili, dice Taiani, parlando dei Calabresi (Rendic., p. 112), non sono mai rappresentate nel giurì»; infatti, una numerosa serie di casi ci prova sin troppo la completa ignoranza nei giurati.

Nel 77, nella causa di Sebastiano Raineri, il capo dei giurati dichiarò «a maggioranza di sette voti, no, con circostanze attenuanti«.

A Terni si assolse uno che si era reso confesso di aver ucciso nottetempo, con coltello appositamente preparato, il padre, e che era già stato condannato a morte.

In un altro processo fu posta la questione dell’eccesso di difesa, ed i giurati l’ammisero perchè, come disse il capo, l’avvocato aveva parlato più di due ore e quindi aveva ecceduto nella difesa.[2]

In una votazione per accusa di omicidio si trovò una scheda su cui si trovava scritto sì o no.—E passò a favor dell’imputato; il giurato richiesto del perchè di un voto così strano rispose: perchè stava scritto sulla scheda la formola: «il giurato doveva rispondere sì o no» (Eco giudiziario, 1876, pag. 7).

Un tal Pezza venne a Torino riconosciuto reo di truffa e di falso, ma nello stesso tempo si dichiarò che aveva agito in uno stato di semi-idiotismo (un reo di falso!).

Nessuna garanzia si ha sull’incorruttibilità del giurato che non avendo da rispondere ad alcuno e nulla da perdere nelle assoluzioni, spesso mette a baratto pubblicamente la giustizia, come mostrano le frequenti assoluzioni dei rei confessi di concussioni.

Il giurì, anzi, è per sè stesso una causa della corruzione popolare. Il prefetto Borghetti (Relazione della giunta per l’inchiesta sulle condizioni della Sicilia) nota come molti onesti campagnuoli si corrompano entrando fra i giurati; e il giurì, soggiunge, è l’arena ove la mafia ama dar le prove della sua bravura.

Nella Relazione Cantelli s. c. è riferito per bocca di un deputato, come un giurato si dolesse perchè un dato processo non avesse fruttato alcuna somma ai membri del giurì.

E l’ingiustizia verso i poveri che da questa corruzione deriva, offre una grande incentiva alla immoralità, poichè l’imputato povero, vedendo che la giustizia è tutt’altro che uguale per tutti, si crede quasi autorizzato a ricattarsi sulla società che lo condanna, e ritenerla ingiusta, anche quando, per istrano caso, nol sia.

A chi sostenesse i giurati per l’indipendenza dal Governo, noi ricorderemo averci gli esempi dell’Inghilterra mostrato che i giurati cambiarono parere spesso secondo la volontà del Governo: ma che ci avrebbe questo a fare quando non si tratti più di delitti politici, ma di delitti comuni?—E non è anzi vero che mentre il Governo può restare estraneo all’assoluzione o no di un delitto, non vi rimane l’opinione pubblica tante volte artatamente artificiata dagli offesi o dai difensori e alla quale i più onesti giurati sono schiavi involontari? E qual peggior tirannia del resto dell’ignoranza? Manfredi, procuratore di Cagliari, 1877, ci narra, come una delle cause delle assoluzioni meno giustificate dei giurati fosse che molti fra questi ponevano scheda bianca, credendo con ciò declinare ogni propria responsabilità così in favore che contro il reo: ed intanto senza saperlo assolvevano; altrettanto osservò Sighele per Milano e Vanzina per Vercelli.

Il giurì, scrive il Pironti, spesso assolse i ladri del pubblico denaro per fare una protesta contro il Governo (Resoc. di Pironti, 1862), od assolse il reo perchè era prode militare. Ed intanto, aggiungo io, coll’eccessiva mitezza verso i rei di sangue fomentò nuovi delitti; sicchè si comprende come in un ferimento a Domodossola un amico dicesse al feritore: Uccidilo, non ferirlo, perchè così andrai all’Assise; ferendolo andresti al Tribunale (Eco giudiziario, 1878, pag. 98).

Lasciare all’istinto popolare, al sentimento predominante del momento il decidere di un fatto in cui anzi tutto occorre spogliarsi del sentimento, non è egli agire in linea diametralmente opposta alla giustizia?

E che dire degli errori del giurì dipendenti perfino dal caso che nessuno potrebbe prevedere, come nel fatto accaduto del Galletti a Brescia (Rivista penale, 1874), in cui uno scarabocchio prodotto dall’inchiostro sopra il sì di un giurato fu causa dell’assoluzione completa di un uomo che doveva essere condannato a morte? Il semplice caso, oppure l’effetto diretto dell’ignoranza si sostituì ai pretesi criteri infallibili della giustizia.

Nè ci si opponga per giustificare il giurì le necessità di ammodernare, come tante altre istituzioni, anche quella della giustizia; il giurì, che era rudimentalmente adottato ai tempi delle XII tavole[3] e delle gerichte germaniche, è tanto moderno quanto lo sono le cremazioni, [486]pretese innovazioni dei pseudoigienisti moderni—e che erano già vecchie ai tempi di Omero!—Ed è altrettanto opportuno in pratica.

Come! dirò col Mangano e col Vanzina: Credete non essere abbastanza garantiti, nelle trattazioni degli affari civili al disopra di 1500 lire, dai pretori, i quali sono sottoposti a tante altre giurisdizioni, che hanno fatto studi speciali, che devono dare un resoconto, una giustificazione della loro sentenza, che sono in somma specialisti e responsabili, e poi vi fidate del primo droghiere che in grazia del suo censo diventa giurato malgrado che voi ne ridereste se pretendesse ad essere vice-pretore!—Noi ci affaticammo tanto, appena fatti liberi, perchè i magistrati dovessero giustificare le loro sentenze ed in disteso e non darle come oracoli, o ciò malgrado che fino ad un certo punto ne li potesse giustificare il loro passato, i loro studi speciali, la loro competenza, l’appellabilità delle loro sentenze, e poi noi stessi crediamo di aver scoperto una nuova fonte di libertà e di giustizia permettendo che alcuni cittadini non esperti nè responsabili possano sentenziare con un semplice  o no, a a guisa dei bimbi e dei despoti, senza rendere la più lieve ragione del loro operato, ordinando, per peggiore danno nostro, che questa inconsulta affermazione diventi irrevocabile e sacra quando si tratti del benessere de’ rei, e solo appuntabile quando si tratti della loro pena. Ogni magistrato deve dar ragione dell’assolutoria o condanna per ingiuria, furto, ferita. La magistratura popolare dichiara senz’altra garanzia, senz’altra ragione che il suo  o no, se un tale commise grassazione, omicidio, ecc. (Eco giudiziario, 1875): anzi, aggiungerò, può dichiararlo ancor più impunemente, col tacere, colla scheda bianca, che è, sia pure, davanti alla legge scritta, un’affermazione, ma, davanti alla coscienza del giurato ignorante e incline alle restrizioni mentali, è un mezzo termine tra la verità e l’ingiustizia. E fossero almeno osservate le precauzioni formulate dalla legge per impedire gl’inconvenienti della giurìa! Noi sappiamo, p. es., che una delle più importanti è quella che i giurati «non comunichino con chicchessia relativamente alle accuse fatte ad un individuo fino dopo la propria dichiarazione». Quest’obbligo essi anzi lo giurano; ma il fatto è (e tutti lo sanno) che non lo pratican mai e che essi comunicano perfino e pubblicamente col difensore del reo. E perchè lasciare il diritto di esclusione, non motivato, alla difesa, cosicchè sempre escludonsi i giurati migliori, quelli che per censo, per onoratezza e per ingegno più possono resistere alle seduzioni ed alla rettorica? Come credere che uno zotico qualunque possa tener dietro a quei processi, come accadde ad Ancona, in cui s’interrogarono 747 testimoni e si richiesero ai giurati 5000 quesiti? Come credere che meglio possano resistere alla minaccia della vita essi che non hanno nulla da perdere in una assoluzione, quando fino i giudici veri e responsabili si lasciano intimorire? Come credere che se dei veri giudici, che se un’assemblea di periti a stento s’illuminarono sulla realtà di alcuni malefici la cui cognizione esige studi speciali di tossicologia, di chirurgia o di psichiatria, lo possano individui non solo non specialisti, ma estranei ad ogni scienza e privi d’ogni coltura, e ciò in un’epoca in cui per bisogni assai men gravi si esige la suddivisione del lavoro?

Sarà vero che qualche rara volta si ebbero pure dei buoni giudizi; ma possono essi stare al confronto dei cattivi? E non è ad ogni modo lasciare al caso quello che dovrebbe provvedersi con stretto rigore di regola?

Si dice: ma le medie delle assoluzioni dei giurati si avvicinano a quelle dei tribunali ordinari. Lasciamo pure che il fatto non è punto esatto, chè la media in alcune regioni è perfino raddoppiata; ma fosse anche, e chi non vede la enorme differenza, mentre innanzi ai giurati passano cause che hanno percorso una lunga fila di criteri e di giudizi, quali il pretore ed il giudice istruttore, procuratore del Re, sezione d’accusa, preside della corte e procuratore generale, ecc., periti, dopo i quali è difficile non sia venuta in chiaro, prima, l’innocenza dell’imputato?

Se non che non è tanto pel numero che le assoluzioni peccano quanto per la qualità; largheggiandosene, per una malintesa generosità, coi ferimenti, omicidii, ribelli, causa forse questa del continuo loro accrescersi e per una triste corruzione coi falsari ed abusatori del pubblico denaro.

Nè vale il dire che in Inghilterra ed America sono adottati i giurì come da noi e senza inconvenienti. Nella razza anglo-sassone il senso del giusto e del dovere non viene meno così spesso purtroppo come da noi; oltrecciò, innanzi alle Assise, non compaiono mai i rei confessi che pare sommano alla metà de’ rei e che danno luogo agli scandali più vergognosi nei voti dei giurati, donde il numero più scarso di rei portati alle Assise in Inghilterra—1 ogni 132.790 abit.,—che non da noi—1 ogni 81,31 abit.,—differenza enorme che la maggiore criminalità nostra non può bastare a spiegare.

D’altronde in molti casi capitali, ribellioni, o specialissimi come nelle bancherotte, li sono ammessi i giurati speciali. Ed in Inghilterra l’habeas corpus non impedisce, come da molti si crede, l’arresto preventivo in flagrante per opera della polizia (che ha luogo più di frequente che fra noi), ma solo dà il diritto al reo processato, di provocare, entro 24 ore, l’intervento del magistrato (alta Corte di Londra o Tribunale di Contea nelle provincie) per decidere sulla conferma o revoca dell’arresto. Ed il Coroner in tutti i casi gravi si circonda di un vero giurì di specialisti medici o chimici, come assessori giudiziali; ed in Inghilterra si vincolano i giurati alle informazioni del Giudice sul diritto, col giuramento, la cui forza è molto maggiore che da noi pel rispetto tradizionale verso il giudice e la legge; poichè il sentimento pubblico inglese si rivolterebbe contro un verdetto spergiuro in cui i giurati rispondessero sulle quistioni di diritto allontanandosi dall’istruzione del giudice; di più, se il verdetto appaiavi errato, il giudice può ommettere di dare esecuzione alla sentenza od almeno differirla fino a che non abbia ottenuto il voto dei colleghi (Glaser, Schwurgerichtliche Erörterungen, Vienna, 1876).

In Inghilterra i giurati non possono uscire dal palazzo fino a sentenza emanata, il che impedisce certo molti modi di corruzioni e di influenze.

Del resto in Inghilterra ed in America non va tutto così a seconda come da molti si crede; il biasimo contro il giurì, fino dai tempi di Elisabetta, giunse a ricordare il motto famoso da Cicerone scagliato contro a quei magistrati popolari corrotti: Quos famis magis quam fama commoverit. Ed ancora nel 1824 la Rivista di Westminster imprecava furiosamente al modo con cui la funzione si andava esercitando colà, e fino a qualificarla bugiardo fantasma di giustizia.[4]

E Robinson, nel 1650, nell’operetta Certain consideration in order to a more speedy, cheap, and equale distribuiton of justice throughout the nation, most humbly presented to the high-court of Parliament of England ne propone la soppressione, mostrando: «che nelle piccole contee non si trova un numero sufficiente di cittadini intelligenti da servire da giurati: che troppo spesso il giurì si lascia dominare da quello dei suoi membri d’ingegno più vivace e più fermo; la legge vuole un assurdo con l’esigere che tutti si riuniscano in uno stesso verdetto, anche quando internamente siano di parere diverso; ne resulta che, se vi sono delle decisioni erronee o parziali, in buona fede non si può infliggere alcuna penalità ai giurati. Questi avran sempre in fatto il diritto di dire che sono dispiacenti di aver fatto male, se lo han fatto, ma che sono stati costretti a giudicare in qualche modo pur che fosse; l’uso di non accordare al giurì nè fuoco, nè lume, nè nutrimenti, nè bevande deve aver per effetto di obbligare la maggioranza ad accettare il verdetto della minoranza. Finalmente, in un processo chiaro come la luce del giorno, questo rigore permette ad ogni uomo di carattere fermo e di costituzione robusta, furbo od imbecille, di costringere tutti gli altri, se non vogliano morire di fame, ad accettare la sua opinione».

«William Palley che, come conviene ad un inglese, loda quell’istituzione, nello stesso tempo confessa che soventi volte anche il giurì del suo paese non si conforma alle regole della giustizia. «Questa imperfezione, osserva, si nota principalmente nelle dispute nelle quali si mescola qualche passione, o pregiudizio popolare, ed ove gli animi sono accesi da dissentimenti politici o da odii religiosi» (Pizzamiglio, Dei giurati in Italia, 1872).

Appello.—Chi ricorda il detto di Bacone: Iniustitia reddit iudicium amarum, mora acidum, comprende come fra noi la giustizia sia irrisoria poichè la pena non è più nè pronta, nè certa, nè seria, grazie agli appelli; la sentenza dal tribunale è infatti preceduta da regolare e completo dibattimento, mentre quello della Corte si fonda sopra un verbale il più delle volte redatto in modo irregolare ed incompleto; sommati i voti dei due giudizi e dato che nel primo l’unanimità di tre giudici condanni, nel secondo si abbia parità di voti fra i quattro consiglieri, ne viene che cinque voti per la condanna, fra cui due possono essere dei presidenti, devono cedere a due voti per la soluzione.

Una prova dell’esorbitanza assurda di questo abuso da noi la può dare il confronto colla Francia; mentre in Francia erano 417 le cause dei pretori trattate in appello nel 1871, in Italia nel 1874 erano 14.882, circa 35 volte di più!—e mentre erano là 7745 solo le cause dei tribunali correzionali decise in appello, da noi salivano a più del doppio, 16.149! senza contare il decuplo delle cause di cassazione, di cui toccheremo più sotto.—Eppure si tratta di un paese analogo al nostro, che si trovava allora allora escito dal flagello doppio di una guerra e di due rivoluzioni politiche e sociali.

Questo fatale edifizio si coronò col più ampio diritto di cassazione, il quale non si basa, come sarebbe giustissimo e come si pratica in America, in Inghilterra e perfino in Francia, sopra errori sostanziali e di fatto, ma quasi sempre su questioni di forma, che ci riconducono ai tempi bizantini o alle stramberie di alcune razze mongoliche, per cui una causa costosissima può venire cassata per una semplice sgrammaticatura di un povero cancelliere che si può, per caso e pur troppo anche ad arte, facilmente ottenere o dalla dimenticanza spesso con mille artifici favorita e provocata di un presidente. Si narra che la causa di Agnoletti costasse più di dieci mila lire all’erario e che venisse cassata per essersi dimenticato un cancelliere di porre una fede di nascita fra le carte.

Grazie a questi ricorsi la esecuzione della sentenza definitiva si ritarda enormemente e l’Annuario statistico già notava come pel 47% dei condannati nel 1871-75 era trascorso più di un anno prima della sentenza definitiva:

  • per 13 da 9 mesi a 1 anno.
  • per 16 da 6 mesi a 9 mesi
  • per 16 da 3 mesi a 6 mesi
  • per 7 soli 3 mesi.

Per suggellare poi sempre più nelle menti che la giustizia deve propendere più in favore dei rei che degli onesti, più in favore dei carnefici che delle vittime, si aggiugne l’assurdo paragrafo, per il quale il nuovo giudizio può ben portare mitigazione ma non aumento alla condanna, quasichè il vero non potesse risultare mai in favore della società, ma sempre in favore del reo, circostanza quest’ultima che spiega l’enorme quantità dei ricorsi ormai generalizzati in tutte le condanne e la proporzionata quantità degli annullamenti, il tutto con perdita non solo di danaro e di sicurezza, ma, che è peggio, di quel tempo che in questi casi è tanto più prezioso perchè in esso è quasi tutto il prestigio della giustizia repressiva.

Grazie.—Ma come se tutto ciò non bastasse ai nostri danni, vi si è aggiunto e applicato con profusione il diritto di grazia che non può concepirsi, riunito in un sol uomo, se non come una negazione di quella giustizia, dei cui portati uni ed eterni ed imprescrittibili van blaterando precisamente i nostri avversari.

Questo diritto di grazia è profuso in tal modo da superare 100 e più volte quanto si fa nella vicina Francia (Relaz. del Minist. di grazia e giustizia, 1875).

È un fatto che tutti gli anni si ha una media di 20 mila proposte per la grazia e che di queste almen 3000 sono esaudite.[5] Come ciò può conciliarsi col fatto che ogni giorno più si mostra provato dalla scarsezza dei ravvedimenti? E chi non sa come perfino [492]quelli che sortono dopo prove ben più serie che non siano quelle di pochi anni di carcere, vale a dice gli assoggettati al metodo graduatorio penale e fino all’individualizzante, hanno fatto pessima prova?

Come? Si ardisce affermare che la giustizia è uguale per tutti, che essa è destinata ad equilibrare l’ordine giuridico turbato, che parte da norme fisse, incrollabili, libere da ogni personalità, quasi quasi emanazioni celesti, e poi tutto ciò si mette in non cale, di un tratto, tutto ciò distruggesi come un fastello di carte, mediante la firma, spesso involontaria, d’un uomo il quale sarà il più onesto del nostro paese, ma pure è un uomo. E pazienza fosse egli; ma chi non sa come egli, non vi può proprio nulla, e che tutto dipende da un ministro il quale può esservi tratto dalle teorie più balzane, e se fosse anche il più accorto degli uomini, deve porsi spesso al rimorchio uomini politici, e dei direttori delle carceri, i quali, non rispondendo quasi mai dei dannosi effetti dei loro giudizii, vi si lasciano trascinare, oltre che dalle simpatie personali, anche dall’osservazione sbagliata della maggiore docilità nella disciplina che è spesso in linea inversa del ravvedimento.

Il diritto di grazia, e sopratutto, come assai bene lo dimostrarono Mattirolo (Filosofia del diritto, 1871) ed Hello, quello dell’amnistia, che cancella ogni azione penale, che cioè ammette come non avvenuto l’avvenuto, sono un droit du cachet alla rovescia.

Il diritto di grazia è una delle molte contraddizioni del diritto criminale, moderno.

Un tale, dichiarato colpevole dalla legge, viene ad essere graziato da un’altra autorità estranea alla legge. Grazia vuol dire pietà, misericordia; ma come potete usarne voi con chi credete essenzialmente cattivo?

Essa è tutta poggiata alla supposizione che il diritto di punire stia tutto nella volontà di un reggente.—»Ma noi l’usiamo per temperare la giustizia, dice Friedreich, quando è troppo severa!» Ebbene, quando è tale non è veramente giusta e dovete cercare di mutarne i metodi.

Su 189 condanne capitali in Prussia, solo 6 furono eseguite. Non diventa in tal modo la grazia piuttosto la regola che l’eccezione? Non era meglio abolire la pena che lasciarla nel codice e poi non porla in pratica?

Ed invero, v’hanno casi nella vita giuridica, in cui la grazia è quasi un complemento della giustizia, e viene a correggere il rigore e l’inflessibilità di questa. Un individuo di vita proba e intemerata, il quale per uno strano accozzo di circostanze sia trascinato a commettere un reato, non è certamente da paragonare al volgare assassino, spinto al delitto dalla brama di ricchezze.

Mundorf, uomo onestissimo, uccise la moglie in un impeto di gelosia; si pentì subito: tentò uccidersi e confessò tutto; il giurì lo condannò a morte, ma chiese la grazia sovrana. Ebbene se egli era un reo d’impeto, non abitualmente dedito al male, non dovea condannarsi a tal pena.

Beccaria scrisse «che il far vedere agli uomini che si possano perdonare i delitti, o che la pena non ne è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le condanne non perdonate sieno piuttosto violenze della forza, che emanazioni della giustizia…. Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari, ma sia dolce, indulgente, umano, il legislatore.[6]

«Se il principe, continua egli, deve perdonare e la legge deve condannare, le leggi invece d’essere l’ostacolo innalzato dalla forza pubblica contro le violenze private, saranno dunque i lacci tesi dal tiranno contro quella porzione degli individui della società che non han saputo procurarsi il suo favore».

E Filangeri: «Noi diremo… che ogni grazia conceduta ad un delinquente è una derogazione della legge, che se la grazia è equa, la legge è cattiva, e se la legge è buona, la grazia è un attentato contro la legge; nella prima ipotesi bisogna abolire la legge e nella seconda la grazia».[7]

Noi aggiungeremo come ultima considerazione essere la grazia contraria allo spirito di eguaglianza che anima la società moderna; poichè quando essa, come è pur troppo spesso il caso, favorisce i ricchi, fa sospettare ai poveri che per essi non esista giustizia, e li spinge per reazione a nuovi reati, e così riesce una provocazione della pubblica morale e insieme una negazione dell’eguaglianza.

Ricordiamo in proposito le parole di Giangiacomo Rousseau: «Les fréquentes graces annoncent que bientôt les forfaits n’en auront plus besoin, et chacun voit ou cela mène».

Cicerone aveva detto «benefacta male locata, male facta arbitror» (De Off., lib. I). La grazia, infatti, è una speranza aperta all’impunità, e quindi causa di nuovi delitti.

Il commendatore Ratti, procuratore generale, nel 1873 faceva rilevare che su 100 individui dichiarati rei di omicidi volontari (nel corso dell’ultimo decennio) «12 soltanto avevano subìta la pena sentenziata di 20 anni di lavori forzati; per tutti gli altri la pena era stata mitigata e per 23 era stata ridotta a quella del carcere. Da quell’epoca la più alta delinquenza andò crescendo, e le circostanze attenuanti continuarono ad essere accordate sempre con frequenza».

Pregiudizi criminali.—E tuttavia non sarebbe nulla se nella pratica giudiziale non si fosse infiltrata una serie di pregiudizi che ne rendono vuoto od inutile ogni giudizio.

Noi deploriamo, per es., che siasi stabilito che nel dubbio sull’intenzione si debba presumere il reo volere il male minore; che quando non sia provato a quale fra gli effetti punibili mirasse l’accusato di un reato, si presuma sempre sieno diretti al reato meno grave e all’effetto meno dannoso. Ora è il contrario questo che accade nei delinquenti nati.

E la legge fa qui un’ipotesi che, essendo all’inverso del fatto mette a pericolo la sicurezza sociale.

Peggio poi, quando, in coro a tanti altri codici, alleggerisce la mano nei tentativi; quando nega l’intenzione nei reati anche quando venga manifestata dal reo con minaccia di uccidere; «chi si associa ad altri per delinquere, chi dà il mandato ad altri di commettere un delitto, non comincia ancora l’esecuzione del reato». Ma questo è piuttosto un difendere i rei dalle vittime, che questa dai rei; è un volere che le vittime sian morte, e ben morte, prima di prenderne la difesa; è un privarsi spontaneamente, per amore di teoriche astratte, di un concreto e pratico modo di protezione, tanto più quando si conosca quella speciale tempra del delinquente-nato a propalare i reati prima di commetterli. Così chi propina una sostanza che crede veleno, mentre poi non lo è, pel più semplice buon senso che non badi alle formole magiche di vecchi giuristi, è colpevole perchè altrettanto pericoloso di chi ha dato vero veleno, tanto più quando si sappia la tenacia degli avvelenatori che riproducono con strana insistenza e in vasta scala i loro reati; mentre pel Progetto lo è pochissimo; eppure, colpendoli fortemente, possiamo salvare qualche vittima, mentre col solito sistema di interpretazione erroneamente mite, per salvare le formole, si prepara la morte di un innocente.

Si oppone il pericolo che si correrebbe altrimenti nei giudizi dei giurati; e lo credo io pure che i giurati giudicano male in questo e in altro; ma, in nome del cielo, questo non prova altro se non la necessità di sopprimerli questi giurati, che non solamente in questo sono giudici ingiusti.

Quanto s’è detto pel tentativo, si dica pel delitto mancato: io vorrei sapere perchè si debba diminuirne la pena; è forse che dopo quanto vedemmo sulla quasi irresistibilità degli atti del reo-nato il pericolo del rinnovarsi del reato è diminuito?

E assurda è la mitezza dei nostri codici pei recidivi non specifici quando cioè non ricadano nella stessa specie di reato, perchè ciò solo «li renderebbe più pericolosi, e meritevoli quindi d’una più intensa pena». Ora dir ciò non lo può che uno che non abbia nemmeno la più lontana idea di cosa sia il delinquente abituale, che opera precisamente all’opposto.

La statistica inglese ha mostrato che il delinquente contro le persone, recidivando, commette più specialmente reati contro la proprietà, truffe e furti, per sfuggire all’arresto.

Il reo che recidiva sempre nello stesso reato è, quasi sempre, un semi-imbecille, meno pericoloso, e che ha quindi meno bisogno di essere tolto di mira dall’aggravamento della pena; viceversa, colui che a poca distanza di tempo commette diverse forme di reato, indica avere una maggior intelligenza e versatilità al delitto; citiamo pure per modello Lacenaire, Gasparoni, Desrues, che sanno unire insieme il furto, la truffa, il falso e l’assassinio. E sono i più pericolosi ed i meno facilmente riconosciuti e più raramente arrestati, sfuggendo ai casellari e ai metodi fotografici.

Ed erronea è pure l’importanza data al dibattimento orale.

La discussione orale non è in gran parte che una ripetizione inutile, e a volte anche dannosa della istruttoria scritta, poichè i testimoni non fan che ripetere a viva voce ciò che avevano già dichiarato antecedentemente. Ora è difficile che i ricordi non si confondano davanti all’imponenza del pubblico, del tribunale, degli avvocati che fanno delle domande all’imprevista, che minacciano magari mentre è molto più facile ricordare e raccontare esattamente un fatto in una piccola camera davanti a 2 o 3 persone (Ferrero, o. c.).

Lo stesso si dica delle perizie di difesa e di accusa, e ciò tanto più quando si pensi che lo scritto permane, e lo scritto è un progresso enorme sulla parola, e che la memoria delle parole è di molto inferiore a quella delle lette e viste.[8]

Kirkpatrick da ripetuto esperienze sul grado della memoria delle parole udite, lette e viste, ha concluso che la memoria delle cose vedute è sette volte più forte delle cose lette od udite.[9]

Munsterberg e Bigham da esperienze sull’influenza che esercita nella memoria la natura dell’organo sensorio che percepisce la impressione, conclusero che: la media degli errori è più forte per la serie auditiva che per la visuale: 31,6% nella prima e 20,5 nella seconda. La famosa oralità dunque è completamente contraria al progresso moderno, eppure si dà per uno dei cardini della giustizia.[10]

Non approviamo nemmeno l’idea di non ammettere per recidivo chi abbia commesso un nuovo reato di sangue, quando questo non siasi verificato quasi notabilmente, o quando sia stato commesso solo nella giovinezza: si tratta di constatare se vi è una maggiore o minore temibilità in certi individui che pure si devono rendere innocui; una volta che il legislatore non si sogna nemmeno che i caratteri antropologici e psicologici possano giovare in questo, che almeno tenga egli conto dei fatti constatati, e non ne faccia un inutile getto per obbedire a un principio teorico.

Teorie sbagliate.—E non pochi giuristi, teorici, onesti tutti e certamente fra i più illuminati ed elevati negli studi scientifici, appunto per essere a giorno del movimento scientifico che si fa intorno all’argomento dell’uomo delinquente, senza averne potuto, però, per la mancanza di nozioni fisiologiche o di contatti diretti, andar fino al fondo, credendo di seguire l’andazzo moderno, hanno reputato che le novazioni antropologiche che dimostravano la maggior frequenza dei pazzi o dei deboli di mente, negl’imputati, la meno assoluta responsabilità di tutti, portasse per conseguenza la mitigazione nelle pene. Essi non compresero che le nuove nozioni antropologiche portanci, è vero, a scemare l’infamia nei rei-nati, ma in fondo, a perpetuarne la pena, sia poi essa presa sotto un nome più che un altro, inquantochè quanto meno sono essi responsabili, tanto più sono temibili, come facili alla recidiva, inquantochè in essi la tendenza al crimine, innata perchè atavistica, non è neutralizzata se non dalla elezione e dal sequestro: è un’onda sempre incalzante che si reprime e contorce in se stessa quando trova delle altissime dighe e che irrompe o dilaga se non le trova, oppure le trova sfasciate. Essi, invece, Olandesi a rovescio, credettero contenere di più l’onda quanto più calavano o rompevano le dighe, quindi le noiose nenie sulla pena di morte, quindi sempre più aumentate le garanzie per le difese dei rei e facilitate le grazie, mentre poi nulla fecero per aumentare la sicurezza e la repressione.

Se un generale, fidando nella grande potenza della filosofia lasciasse da banda per un giorno solo la strategia e la balistica e si lasciasse guidare dalla filosofia, anzi anche solo da una strategica astratta, fondata, per es., sulla storia delle battaglie, non condurrebbe certo a perdizione i suoi poveri soldati? Ebbene, il funzionamento delle cose penali esige per lo meno tante conoscenze pratiche quanto la strategia militare, e meno forse che più le può soccorrere la filosofia; eppure esse dipesero spesso dai cenni di persone venerande, ma che sostituirono la metafisica alla strategia, e sognando ad occhi aperti sopra un libero arbitrio che non esisteva, sopra una libertà indipendente dalla materia, sopra un diritto di punire fondato non sulla stringente necessità sociale, ma sopra astratte violazioni dell’ordine giuridico, non solo non pensarono a levare o scemare le vere cause del delitto (alcool, associazioni infantili, ecc.); ma mentre a precipizio introdussero tutte le affermazioni che escogitava il mondo civile in favore dei rei, dimenticavano le cautele, le norme con cui questo ne temperava i possibili danni (stabilimenti intermedi per la liberazione condizionale, annullamenti per la giurìa, probation, ecc.) e dimenticarono tutti o quasi tutti i mezzi nuovi escogitati alla difesa sociale, e quindi ritennero inutili i manicomii criminali, le case di pena pegli incorreggibili, inutile lo scemare i rinvii, le grazie, il tassar gli alcoolici, ridicola la giurìa tecnica, ridicolo lo studiar il reo quanto il reato.

Peggio è poi quando sentenziarono che la cosa più sacra, più importante pei sacerdoti della giustizia fosse il rispetto per le forme procedurali che preferivano alla difesa della società, che pure per ciò solo li eleggeva; tanto da lasciar passare in adagio che le forme della procedura (non la sostanza) sono la suprema garanzia delle parti, e che: Forma dat esse rei, quattro parole che sono la più grande dimostrazione della cecità umana nelle cose giuridiche.

Cause di questo stato.—La ragione di questo fatale regresso della giustizia e nelle teorie e nella pratica sta prima d’ogni altra cosa in quella legge d’inerzia, di misoneismo, per cui l’uomo quando non sia trascinato da speciali circostanze o da giganteschi e fortunati ribelli, guarda con ribrezzo, con terrore, ogni cambiamento per quanto semplice e logico appaia: e se in alcuni casi vi si assoggetta per quanto riluttante è perchè la novità è così maturata e la sua evidenza così spiccata che gli s’impone e lo trascina come una valanga in tal modo da forzarlo ad accettarla.

Ma qui l’evidenza è stata sempre nascosta, come spesso nella religione e nella filosofia, da formule che sotto mistiche, grandiose, apparenze ne velavano completamente l’inanità.

Chiunque educato a idee religiose oda per la prima volta rabbini o brahmini pronunciare misteriosamente delle preci ebraiche o sanscrite, vi annette una meravigliosa efficacia, un significato profondo, mentre invece tradotte con un buon dizionario esse gli appaiono delle povere giaculatorie, come un castello di carte che al primo urto colla realtà della vita cade e si sfascia: ma questo dizionario il pubblico non l’ha: e trova più profondo il giurista che meno capisce e spesso altrettanto i giuristi fanno tra di loro tanto più rispettandosi quanto più si raggrovigliano nei loro geroglifici[11]: dopo ciò si capisce che ed essi affermino ed il pubblico accetti, p. es., come cosa giusta che il dare un mandato non sia incominciare l’esecuzione d’un reato e che la recidiva impropria non sia vera recidiva.

Il Ferrero dà nel suo bellissimo libro, così poco capito dagli italiani «Les lois psychologiques du symbolisme« un’altra ragione di questi errori—nell’arresto ideo-emotivo, nella tendenza dell’umana mente a ridurre al minimum il numero delle associazioni mentali richieste dal proprio ufficio, per cui l’interpretazione letterale della legge prevale in pratica su ogni concetto di vera giustizia.

«È il caso dei burocratici nelle grandi amministrazioni dello Stato e dei Comuni. È noto come uno dei vizi capitali di questa peste delle società invecchiate sia l’applicazione bestialmente letterale dei regolamenti che sono dati loro per guida: la lettera del regolamento, non dovrebbe essere se non il segno approssimativo della volontà del legislatore, che non può dare che una norma generica, essendogli impossibile tutto prevedere, e sulla cui traccia l’impiegato dovrebbe sbrigar giudiziosamente gli affari, mettendoci del suo pensiero quanto basta per interpretare questa volontà in rapporto ai casi speciali: la lettera, invece, del regolamento diventa la regola, la verità, l’assennatezza stessa».

«Perchè?—Per applicare intelligentemente una disposizione generale di legge a dei casi particolari, è necessario un lavoro mentale abbastanza complesso: bisogna rappresentarsi lo scopo ultimo delle disposizioni, i casi più frequenti per cui è stata redatta, le contraddizioni con lo scopo, a cui si giungerebbe applicandola letteralmente al caso particolare, i temperamenti e le modificazioni da apportarsi nell’applicazione. All’idea del fatto speciale bisogna adunque associarne molte altre, per cavarne la conclusione, che regolerà la condotta dell’impiegato. Tutte queste associazioni di idee, sempre rinnovate a ogni nuovo caso, costano fatica: quale interesse ha l’impiegato di una grande amministrazione di compierla? A poco a poco l’individuo si avvezza al processo mentale più rapido dell’applicazione letterale, perchè è quello che implica minor numero di altre associazioni mentali concomitanti: e dopo un po’ di tempo questo processo è diventato così abituale, che l’impiegato è assolutamente incapace di mutarlo, ha perduto la nozione dello scopo a cui deve tendere l’opera sua; non sente più l’ingiustizia e la mostruosità dei suoi errori; la sua intelligenza e i suoi sentimenti di soddisfazione e di dovere compiuto si arrestano alla letterale applicazione della legge, esclusa ogni idea di scopi più vasti e ogni sentimento di più alto dovere.

«Non così accade dell’impiegato dipendente da un privato, perchè in lui il pungolo dell’interesse tien vive e deste in maggior numero che sia possibile quelle concomitanti associazioni mentali, per cui la lettera di un ordine non s’innalza dal grado di segno approssimativo, al grado di verità e convenienza assoluta, al grado cioè di simbolo mistico» (Ferrero).

Ora cosa avviene per le leggi codificate che non dovrebbero essere che una guida generica e approssimativa per dedurne le applicazioni nei casi particolari, diventano in mano del magistrato la giustizia stessa applicata alla lettera. Per giudicare coscienziosamente dovrebbe il giudice farsi un criterio personale del caso speciale che ha sott’occhio e giudicarlo secondo lo spirito generale che emana dalle leggi scritte.

Noi troviamo infatti che anche i giureconsulti romani tenevano continuamente presente che il diritto scritto doveva essere integrato da quello che essi chiamavano il diritto naturale e che non era se non l’espressione di quel sentimento di giustizia che si ribellava contro l’applicazione di regole generali a casi particolari, che non quadravano perfettamente.

Ma ciò comporta uno sforzo intellettuale intenso, un lavoro faticoso, tormentoso pei dubbi e la responsabilità che ne deriva.

Molto più facile e comodo riesce invece l’applicare le disposizioni generali deducendone le conseguenze logiche. Ma per poco che lo spirito prenda l’abitudine di questo ragionamento si produce un arresto ideo-emotivo professionale per cui il giudice giunge a considerare come suo dovere rigoroso l’applicazione letterale della legge.

Di questo passo si viene a escludere ogni idea collaterale che possa condurre a una soluzione della questione: il caso particolare viene assorbito dalla teoria generale. Il complesso sentimento della giustizia è ridotto all’applicazione di principî generali. Le nozioni del danno sofferto dalla vittima e le cause che determinarono il delitto non sono in alcun modo computate (Ferrero).

In breve, per un’incoerenza facile in questo genere di ufficio l’osservazione del fatto particolare scompare sotto la tesi psicologica, giuridica o filosofica che è caratteristica dei primitivi periodi della scienza e dei periodi di decadenza.

Ma indipendentemente dai vizi dell’applicazione, una causa che ha deviato il diritto dall’esame della natura umana, è il fatto costante che le scienze, nel periodo d’infanzia e nel periodo di decadenza, abusano del metodo deduttivo sino all’assurdo. Come ha notato Lange, anche le scuole materialiste, che per la qualità degli studi erano più vicine alla natura, hanno cominciato con la deduzione: la fisica e la chimica consistevano, in principio, in una serie di deduzioni tratte a forza di logica da un principio stabilito con i processi intellettuali più diversi; e solamente più tardi si è capito che, per conoscere le leggi della natura, bisognava ragionar meno ed osservar più. Il ragionamento logico puro fu preferito, in principio, all’osservazione e all’esperienza, perchè è un processo psicologico meno faticoso, per il quale era necessaria la presenza nello spirito di un numero di elementi intellettuali più piccolo. Infatti, per dedurre una legge dall’osservazione di un gran numero di fatti, bisogna tener presente allo spirito questi fatti; trovarne le simiglianze e discernerne le differenze; mentre che per dedurre una conclusione da una premessa, basta un sillogismo, in cui è implicato un numero di stati di coscienza ben minore.[12]

«L’impiego quindi della logica pura è l’effetto di un arresto ideo-emozionale; che come è proprio dell’infanzia, ritorna nei periodi di vecchiaia della scienza, per la nota legge della degenerazione e dell’atavismo. Che cosa è difatto la scienza medievale se non una invasione della sottigliezza greca nei campi che il pensiero antico aveva saputo mettere sotto il metodo dell’osservazione? Così l’assolutismo del metodo deduttivo nella scienza giuridica è un segno di vecchiaia; e la legge dell’arresto ideo-emotivo ci spiega perchè così spesso il diritto dei popoli barbari, o molto rozzi, si distingue per un certo realismo pieno di buon senso, in confronto alle sottigliezze logiche, meravigliose ma assurde, del diritto dei popoli più civili»[13]; e perchè, quindi, le scoperte dell’antropologia criminale si trovino più spesso d’accordo colle loro istituzioni ed intuizioni, per es. nell’importanza data alla fisionomia dei criminali per decidere sulla loro perversità che non con quelle dei più civili.


  1. Lavini, Del modo con cui è amministrata la giustizia. Venezia, 1875.
  2. Lombroso, Sull'incremento al delitto in Italia, 2ª ed. Torino, Bocca, 1879.
  3. Scupfer, Ub. Schwurgerich. Mannhein, 1873.
  4. Chiaves, Giudice mal giudicato. Torino, Bocca, 1878.
  5. Nel 1874 si fecero 3363 grazie Nel 1875 si fecero 3488 grazie Nel 1876 si fecero 3374 grazie
  6. Beccaria, Dei delitti e delle pene, XX.
  7. La scienza della legislazione, libro III, parte IV, cap. 57.
  8. Pugliese, Sull'oralità dei dibattimenti, 1896.
  9. Pugliese, Sull'oralità dei dibattimenti, 1896.
  10. Pugliese, Sull'oralità dei dibattimenti, 1896.
  11. Chi dice invariabile seguenza di tutti i susseguenti come causata da antecedenti i quali perpetuamente si succedono cade nell'assurdo di uno infinito non ancora tale (Brusa, Sul nuovo positivismo, Torino, 1889).—E Brusa è certo uno dei migliori anzi certo il migliore della vecchia scuola penale italiana.
  12. Vedi Ferrero, Les lois psychologiques du simbolisme. Paris, Alcan, 1894.
  13. Vedi Ferrero, Les lois psychologiques du simbolisme. Paris, Alcan, 1894.