Capitolo VIII

Istituti penali.—Carceri ecc.

Ma pur troppo, almeno nella razza latina, i mezzi preventivi sono un sogno d’idealista; questo mondo avvocatesco che ci regge e che dalla difesa o dalla punizione del reo cava i suoi più grassi onori e onorarii, ha altro a pensare che a prevenire e sostituire le pene: quindi per quanto esse siano inutili, dannose anzi quasi sempre, è su queste che dobbiamo fermarci—sopratutto sul carcere—che innanzi al volgo giuridico è più o meno ragghindato e raffazzonato, la sola difesa che si sappia apprestare contro il delitto.

Carceri cellulari.—Una volta che si debba infliggere il carcere dobbiamo evitare il più che si possa ogni contatto reciproco del reo; quindi si parrebbe a prima vista il vantaggio del carcere cellulare, il quale, certo, per sè non emenda il delinquente, ma non lo acuisce nel crimine, e toglie, almeno in gran parte, la possibilità delle associazioni malvagie, impedisce il formarsi di quella specie di opinione pubblica, propria dei centri carcerari, che obbliga il reo ad aggiungere ai propri i vizi dei compagni, e pare raggiungendo il massimo degli ideali per le indagini giudiziarie, per isolare dal mondo esterno, cioè, un individuo di cui si vogliano raccogliere gl’indizi di reità, come per punire i delinquenti non incorreggibili che errarono per una prima volta, e a cui la vergogna e il danno della mutua conoscenza toglierebbe, poi, ogni pudore, o, come accado nelle case così dette di riforma, moltiplicherebbe la prima e debole tendenza criminosa colla invecchiata tendenza degli altri e con quella terribile vanità del delitto, che quando s’inizia finisce collo spingere l’uomo ai più atroci misfatti, anche senz’altro scopo che il misfatto stesso: e perciò offre, qualche volta, certo sui criminaloidi una diminuzione di recidivi[1], senza dar luogo a gravi danni nemmeno per la salute dei ricoverati, essendosi verificato in larga scala, ora, dal Lecour, che, a pari condizioni, i condannati alle cellulari dànno una cifra di suicidi, di alienati e di morti, uguale o di poco inferiore a quella dei carcerati comuni; offrendo, al più, una maggiore facilità al compiere inosservati il suicidio, un maggior abbattimento intellettuale, quando il sequestro venga prolungato di troppo[2]; comechè la terribile noia della solitudine sia meno funesta delle perverse eccitazioni della società carceraria. Noi sappiamo, difatti, che nelle carceri in comune per il gioco, per gli amori infami, per le gelosie assolutamente eguali a quelle provocate dall’amor femminile, molti rei consumano, non solo il peculio, ma fin’anche il proprio cibo, e peggio il proprio organismo, onde le frequenti tubercolosi; e gli omicidi e suicidi vi spesseggiano per le notizie infauste che loro più facilmente giungono da fuori, pel dolore di veder immuni o non colpiti i complici (Ducpetieaux, Des progrès et de la Réform. pénitentiaire, 1838, p. 327).

Però il vantaggio del carcere cellulare è neutralizzato dalle grandi spese che ne rendono illusoria l’applicazione in quell’ampia scala, almeno, che richiederebbe il bisogno, anche negli stati più ricchi (in Francia su 396 carceri provinciali 74 non hanno separazioni cellulari, 166 le hanno incomplete) e ad ogni modo non può essere che negativo; se potrà impedire che il delinquente peggiori, non può, certo, far che migliori, e noi vidimo che anche alle recidive in alcuni paesi essi dàn quote fortissime (v. p. 145). Lo peggiora poi in quanto tende a farne un automa, che come bimbo non saprà più lottare colla vita; e perchè ne favorisce le tendenze all’inerzia.

«Nell’attuale organizzazione delle carceri, scriveva da un carcere il Gauthier, tutto è combinato per schiacciare l’individuo, annichilire il suo pensiero e minarne la volontà. L’uniformità del sistema che pretende foggiare tutti i «soggetti» nella stessa forma, il rigore calcolato, e la regolarità di una vita monastica ove nulla è lasciato all’impreveduto, l’interdizione di avere con estranei altra relazione che la banale lettera mensile; tutto, io dico, anche quelle tetre e bestiali passeggiate in fila indiana, è destinato a meccanizzare il carcerato di cui si sogna fare una specie d’automa incosciente.[3]

«Noi vogliamo farne dei cittadini utili e li costringiamo e quasi li educhiamo all’ozio; avere «il loro pane cotto», il vitto e l’alloggio assicurato, senza pensiero del domani, e non altra preoccupazione che obbedire alla consegna imposta, essere come il cane cui basta sollevare la zampa per muovere il tamburo del girarrosto, come il meccanismo incosciente di una macchina: non è questo forse l’ideale per la massa degl’incoscienti e dei codardi?[4]

«Il nirvana! l’automatismo; ma gli è il paradiso degli Indiani!!».

«Ed il carcere è, per soprappiù, un nirvana, «ove si è nutriti»; mal nutriti, è vero, ed anche un po’ umiliati e maltrattati… Ma per quanti galantuomini la lotta per l’esistenza è più aspra e con ben minor sicurezza! Allorquando si sono vinte le prime ripulsioni, alcuni—e sono forse la maggioranza—arrivano insensibilmente a «farsi in carcere un avvenire».

Egli conobbe un detenuto che copriva il posto di contabile nelle carceri di Clairvaux, ex-ufficiale dell’armata che, già condannato una prima volta per prevaricazione, scontava la quarta o quinta condanna, verso la fine del 1883 J… stava per essere liberato, e ciò gli spiaceva assai e si raccomandava perchè gli serbassero il posto per la sua prossima rientrata.

«Ricordisi questo ancora: Salvo onorevoli eccezioni troppo rare nell’alto personale penitenziario, per quasi tutti i direttori di carceri l’ideale del «buon detenuto» è il recidivo, il veterano, l’abbuonato, la cui educazione è già fatta e la docilità acquistata è una garanzia di tranquillità.

«Il guaio è che questo «buon detenuto» secondo la formula, non tarda molto, sotto questo regime, a divenire così incapace di resistere ai compagni, delinquenti-nati o malfattori di professione, ed ai sorveglianti, è così poco refrattario alle eccitazioni malsane, all’adescamento di un lucro illecito, all’attrazione dei cattivi esempi, alla disciplina, da essere peggiore dei «cattivi».

«La sola emulazione che gli resta è per il delitto e per la perversità, frutto della mutua speciale educazione alla quale si sottomette. Non è senza motivo che in gergo il carcere si chiama «il collegio».

«A ciò aggiungete la monomania della delazione, lo spirito litigioso e menzognero e tutti gli altri vizi speciali che si contraggono o si sviluppano in prigione.

«Infatti, è bene notare che non vi è una sola delle passioni dell’uomo, naturale o fittizia, dall’ubbriachezza all’amore, che non possa trovare anche sotto i chiavistelli almeno un sembiante di soddisfacimento.

«In presenza della solitudine e del gretto formalismo della prigione, scrive Prins, il direttore delle carceri belghe, noi dobbiamo domandarci se l’uomo delle classi inferiori può essere rigenerato unicamente colla solitudine e col formalismo.

«L’isolamento volontario ah! certamente esso eleva l’anima del poeta che, stanco delle volgarità mondane, si rifugia nelle regioni dell’ideale. Ma la solitudine imposta al criminale qual altro effetto può produrre se non di abbandonarlo alla nullità dei suoi pensieri, ai suoi istinti inferiori e di abbassare ognor più il suo livello morale?

«Ciò che mancò a molti vagabondi, agli sviati, ai corrotti che popolano le prigioni fu un ambiente, degli esempi, una protezione efficace e forse anche delle affezioni! E si soffoca in essi fino all’ultimo germe dell’istinto sociale e si crede sostituire e ambiente sociale e tutto quanto loro manca, con visite sommarie di sorveglianti usciti dalla infime classi della società.

«Ma s’insegna forse a camminare al bambino facendogli delle difficoltà od ispirandogli la paura di una caduta ed il bisogno di fidarsi d’altri?

«S’insegna forse la sociabilità all’uomo destinandolo unicamente alla cella, vale a dire al rovescio della vita sociale, togliendogli fino l’apparenza di una ginnastica morale, regolandone da mattina a sera i più piccoli dettagli della giornata, tutti i movimenti e financo i suoi pensieri?

«Non lo si colloca con ciò fuori delle condizioni dell’esistenza e non gli si fa così dimenticare quella libertà alla quale si pretende prepararlo?

«Come! sotto il pretesto di moralizzazione si mette fra le quattro mura di una cella un robusto contadino abituato all’aria dei campi ed ai pesanti lavori della campagna»—gli si dà un’occupazione qualsiasi che non richiede un sufficiente impiego di forza fisica,—lo si abbandona a guardiani che spesso gli sono socialmente inferiori, —lo si lascia in questo stato dei lunghi anni; e quando il corpo e l’intelligenza hanno perduto la loro elasticità gli si apre la porta del carcere per lanciarlo debole e disarmato nella lotta per l’esistenza!—Senza contare poi che a tutto ci si abitua, e che il giorno in cui il carcere è divenuto un’abitudine, non avrà più la benché minima azione benefica e positiva.

«Se si trattasse di farne buoni allievi, buoni operai e buoni soldati, accetteremmo noi il metodo dell’isolamento cellulare prolungato? Colui che è condannato dall’esperienza della vita ordinaria non può certo diventare utile il giorno in cui il tribunale ha pronunziato una condanna».

Chi volesse prove dirette degli enormi danni del carcere consulti i miei Palimsesti ove le sono a iosa. Per es., trovai scritto da un carcerato:

«Ho 18 anni; le sventure mi fecero colpevole più volte, e sempre fui rinchiuso in carcere. Ma qual correzione ebbi in carcere? Cosa imparai?—Mi perfezionai nella corruzione».—E più sotto:

«Hai ragione, Alfonso; cosa credono questi signori di ottenere da noi lasciandoci impoltrire per mesi ed anni in una cella nella stessa colpa per la quale ci arrestarono?».

«… Il voler correggere un ozioso e vagabondo, ed anche un ladro, sottoponendolo ad un rigorismo brutale di altrettanta oziosità, è un vero assurdo».

«…Il miglior modo per passare il tempo in cella si è dormendo e mangiando; così il tempo passa presto».

«…Poveri detenuti! Sono considerati come tante bestie; li tengono rinchiusi come tanti orsi bianchi e poi pretendono che si convertano!».

«…Nelle case di pena s’impara a odiare la società, non v’è alcuno che insegni di far d’un ladro un onesto; esse sono le università dei ladri ove i vecchi insegnano ai giovani il mestiere».

Il peggio è che i più trovano nel carcere una vera sorgente di godimento, precisamente l’opposto di quanto prevedevamo; così se qualcuno afferma «di diventar stupido, muto, e che le carceri sono il raffinamento della barbarie», subito dopo gli ripicca un compagno: «Non è vero ciò che dice quel detenuto in questo foglio; invece trattano troppo bene ed usano troppi riguardi ai detenuti». —Oppure:

«… Per venire in questo albergo non ci vogliono denari: tuttogratis, anche i camerieri. Per me ringrazio Dio, sono più beato di San Pietro. Qui nella cella son servito da lacchè. Che cuccagna! Si sta meglio qui che in campagna!».—Ed un altro: «Vittorio, arrestato per furto, di cui sono innocente. Addio, amici. Fatemi il piacere, per carità, non fuggite da queste carceri; qui si mangia, si beve, si dorme e non c’è bisogno di lavorare».

Parole ribadite dai canti criminali che ho pubblicato nel vol. I: aggiungo che ho sorpreso in un criptogramma un invito ad un amico a delinquere per potersi poi trovare in carcere. «Così, essendo in due, il tempo passa più presto, e quando saremo in galera ci conteremo la nostra vita».

Alcuni giungono a così grande indifferenza pel carcere, che danno il recapito nella loro cella, anche pel futuro.

Le Blanc, un famoso ladro, al prefetto di polizia Gisquet:

«Se siamo arrestati, finiamo per vivere a spese degli altri: ci vestono, ci mantengono, ci scaldano, e tutto alle spalle di quelli che abbiamo derubato!

«Dirò più ancora: durante la nostra detenzione in galera o in prigione, noi ci perfezioniamo e ci prepariamo dei nuovi mezzi di successo. Se io rammarico qualche cosa, è di essere condannato solo ad un anno. Se io lo fossi per cinque, mi avrebbero mandato in una prigione centrale. Là io avrei trovato dei vecchi assassini che mi avrebbero insegnato qualche buon colpo, e io sarei tornato a Parigi abbastanza abile per poter vivere senza lavorare. Ecco perchè avete tanti recidivi: vostra è la colpa. Siate maledetti.

«Nelle vostre case correzionali si poltrisce, là non vale il pentimento, là si viene incoraggiati al mal fare, perchè coloro ai quali voi affidate la cura dei ladri, sono più ladri dei ladri stessi, essi non badano che ad impinguare il loro borsellino».

Ed è notevole che invece dell’isolamento completo dal mondo esterno che si attribuisce teoricamente alle carceri cellulari si hanno informazioni e comunicazioni molteplici e tanto più dannose (specie per l’istruzione giudiziaria) perchè imprevedute.

«Le muraglie, scrive ancora Gauthier, offrono nel carcere sotto l’occhio paterno dei sorveglianti sempre un mondo d’informazioni e un meraviglioso strumento di corrispondenza.

«È così che io stesso, quand’ero a Châlon-sur-Saône, nella cella più segreta, seppi degli arresti fattisi a Lione, a Parigi, a Vienna, a Saint-Etienne, a Villafranca, in seguito e in occasione del mio, ciò che fu per me una notizia di grandissimo valore; così per la stessa via appresi l’orribile attentato del caffè Bellecour. V’è prima la funicella, tesa col peso d’una pallottola di mollica di pane che si giunge a lanciare fuori da una finestra all’altra, tenendosi sospesi ai ferri della finestra e che serve a stabilire un mezzo di comunicazione comodissimo: vi sono i libri della biblioteca che circolano di mano in mano coperti di criptogrammi: vi sono i tubi dell’acqua e le bocche del calorifero che costituiscono degli eccellenti portavoce.

«Un ultimo trucco che s’usava già, mi pare, al tempo di Silvio Pellico, ma che non può usarsi se non da persone un poco istrutte, è la timpanomania, cioè la conversazione a suono, che si fa battendo nel muro o col pugno, o con un cucchiaio, o con una scarpa, o con una pietra, o con qualunque altra cosa. Non c’è niente di più semplice e facile. L’a equivale ad un colpo, il b a 2, il p a 16, il z a 26.

«Ciascuna lettera è preceduta dal suono, colpo proprio della sua serie, così si riesce a parlare cinque o sei volte più in fretta. Non occorre per parlare così d’avere due celle contigue. Una volta io parlai ed ebbi dei dettagli per me preziosissimi da un mio compagno distante 40 o 50 metri».

Studiando, nel grande carcere cellulare di Torino, i graffiti, e gli scritti dei detenuti vi scopersi che mentre si crede d’impedire colla cella l’associazione, e sopratutto la triste camaraderie, lo spirito di corpo spesso invece vi si acuisce, quando forse prima loro mancava. Sorpresi negli scritti dei carcerati[5], come uno saluti affettuosamente i suoi ignoti successori, come un altro in un angolo, lasci un lapis ai suoi compagni perchè possano scrivere, ed un terzo consigli ai compagni pure ignoti di fare il pazzo per sfuggir la condanna.

E quanto alle comunicazioni: certo un ladruncolo minore, un mendicante isolato avrà poche comunicazioni nei giorni feriali; non le avrà che nei cortili di passeggio, dove le muraglie, continuamente rimbianchite, formano, come ho dimostrato, coi graffiti, una specie di giornale quotidiano, e nell’estate diurno, che si continua e moltiplica nelle arene, nei vetri appannati, e negli strati di neve dell’inverno; ma ad ogni modo ne ha, alla festa, sempre quando va alla messa e nei libri che giustamente gli si concedono.

Studiando in questi e nelle mura del carcere di Torino ne trovai 182 su 1000 che trattano dei compagni; e sarebbero stati 900 su 1000 coi saluti; 45 su 1000 sarebbero avvertimenti sul processo; 27 eccitamenti a nuovi delitti.

Ricordiamo questi pochi esempi trovati in libri del carcere:

«M… L… saluta P…—Mio caro P… fammi sapere il modo con cui dovrò fare riguardo al confronto».[6]

«Caro M… Fammi sapere se il S… è stato riconosciuto dagli stasi (vittime) crepati (imbrogliati) da S…».

Nulla è segreto nel carcere: anzi io potei verificare direttamente che vi si conoscono spesso fatti che sono ancora ignoti al di fuori.

Il trasloco d’un Procuratore generale mi venne annunciato nelle carceri parecchi giorni prima che avvenisse e quando nessuno in città lo sapeva e meno io di tutti.

Il detenuto Pascal, due giorni dopo entrato nel carcere cellulare, conoscevane i principali condetenuti; infatti un anno dopo declinò il nome di un tale con cui aveva parlato; eppure costui era uscito lo stesso giorno della sua entrata.

In un processo gravissimo, in cui l’istruttore fece il possibile per isolare i detenuti, risultò che il principale di questi scriveva settimanalmente su biglietti da carta da zigaro lettere il cui trasporto a domicilio, opera delle Guardie, costava 50 lire.

Nel processo Cerrato, una donna che comunicava nel carcere cellulare continuamente col suo complice e che sapeva tutti gli avvenimenti del di fuori, confessò alle Assise: «Noi tutte queste cose le sappiamo; gl’inservienti vi sono appunto per questo».

Studiando l’opera del Laurent troviamo che queste comunicazioni sono forse in Francia ancor maggiori che da noi. Vediamovi infatti uno che propone un piano di evasione ai compagni. Un altro così minaccia e sfida un collega: «Chi conosce il cattivo anus di M…, che pretende essere il terrore della via Davide, gli dica: che mi venga a trovare; io sono il vecchio M…».

L’istinto religioso, che domina già tutte le nostre istituzioni, fa insinuare il preconcetto che la religione sia una panacea delle tendenze criminali; quindi si spese molto per provvedervi, e vi sono carceri cellulari in cui la sola chiesa costò fino un mezzo milione onde ottenervi, conservando la forma cellulare, la perfetta segregazione dei detenuti che devono assistervi. Il male si è che, perchè questa si ottenga a dovere, occorrerebbero, col personale attuale del carcere, nientemeno che due settimane intere per l’andata e due pel ritorno.

Naturalmente fino a questo non giungendo la convinzione dei vantaggi rituali, la messa, che dovrebbe sanare questi animi pravi, contribuisce a favorirne le comunicazioni.

Ciò sia detto pei ladruncoli comuni. Ma l’aristocrazia del delitto, il ricco od influente criminale, non avrebbero nemmeno bisogno di questi espedienti: le guardie non hanno da perder nulla o quasi se favoriscono le loro comunicazioni col mondo esterno; e il sistema cellulare favorisce l’impunità di questi rapporti. Perchè chi può sapere quanto sia passato tra un individuo solo ed un altro in una cella isolata?

E vi è nelle carceri un ufficio, dipendente dall’amministrazione, quello detto di matricola (nel quale qualche scrivanello detenuto soggiorna sempre) che vede e nota ogni reo, quando entra e quando esce, ed è un nucleo centripeto e centrifugo, che raccoglie tutte le notizie e le diffonde per mezzo dei detenuti stessi nelle varie celle.—Vi è poi, il servizio dell’impresa, di questo tiranno nascosto che domina tutte le carceri, che non ha nessuna responsabilità nè ragioni del segreto, che ha bisogno di uomini, siano pur già condannati, che facciano il servizio di sarti, calzolai, lumai, materassai, muratori, falegnami e fabbri, e questi sono in contatto diretto cogli uomini liberi.

Pochi crederebbero che nei giorni di udienza cogli avvocati difensori o degli interrogatori presso il giudice istruttore, si trovino radunati nella medesima anticamera una diecina e più di detenuti. Per cui nel momento stesso dell’inquisizione del giudice, e quasi sotto gli occhi suoi stessi, si viene ad infrangere e precisamente pel detenuto sotto giudizio, che più interessa la sicurezza sociale, quella legge d’isolamento per applicare la quale si è spesa la enorme somma d’impianto delle carceri cellulari.

Non ho parlato dei laboratori. Nel carcere cellulare, appunto per impedire le comunicazioni, non si permettono che pochissimi lavori; e allora, oltre il danno materiale che ne viene allo Stato ed alla persona costretta all’ozio forzato, senz’altro sfogo che l’onanismo, ne viene il danno avvenire, perchè gli individui attivi si abituano all’ozio quando non ne muoiono, e gli oziosi vi trovano il loro pro’ e quando sono fuori delinquono per ritornarvi.

Che se il lavoro viene concesso, è impossibile, anche escludendo quelli coi condetenuti, che nuovi rapporti non si formino coi capi d’arte, liberi, cogli impresari, ecc.

Succede così sovente che l’istruttoria, segretissima pel pubblico, non ha più segreti per l’inquisito, il quale comunica poi coll’avvocato a mezzo di altro detenuto che ha il medesimo difensore.

S’aggiunga che nell’interno della cella il grande criminale ha più calma per raffinarsi nella ricerca degli alibi, delle scusanti, nello studio del processo, e non essendo in comunicazione cogli altri colleghi, non si tradisce, ma sa confermarsi nella negativa. Il fatto è che parecchie volte i giudici istruttori, se vollero trovare il bandolo di un reato, dovettero desiderare, e anche qualche volta ottenere, che l’individuo, ammalato o no, passasse nell’infermeria, onde, trovandosi con parecchi, vi si abbandonasse a quelle spontanee confessioni che sono nella tempra dei criminali e che menano anche i grandi delinquenti a scoprirsi.

È inutile il dimostrare la nessuna influenza emendatrice del carcere, anche per timore di crudeltà verso i buoni, si arriva pei cattivi alle esagerazioni d’una filantropia talvolta spinta all’assurdo.

«In Olanda, p. es., a Hoorn si procura ai detenuti dell’acqua calda e fredda per lavarsi, una sala di ricreazione, dei giuochi di domino; e quando ricorre la festa del Re si fanno fuochi d’artificio;—in America, ad Elmira, si procurano loro delle distrazioni musicali;—a Thomastown si accorda il permesso di organizzare un meeting contro la pena di morte;—nell’Illinois si dà loro del poudding, dei biscotti, delle focaccie di miele, e si è così lontani dalla vera giustizia quanto gli antichi partigiani della tortura» (Prins).

«La legge belga ammette, continua Prins (Les criminels en prison, 1893), l’isolamento cellulare. Il suo scopo è di rigenerare il colpevole sottraendolo alle influenze deleterie dei condetenuti, per non lasciar agire che la benefica influenza degli uomini onesti. Questa è in tutto il mondo la teoria. Ma vediamo anche il fatto. Dappertutto i pretesi riformatori, incaricati di rappresentare presso il condannato i buoni elementi della società, sono agenti devoti, ma reclutati nella sfera sociale alla quale appartengono i detenuti, talvolta degli spostati senza impiego, che in cambio di un salario derisorio insufficiente al mantenimento di una famiglia, devono press’a poco vivere come un carcerato; e poco numerosi (appena una guardia per 25 o 30 detenuti) devono naturalmente limitarsi a gettare uno sguardo rapido sulla cella e sul lavoro, ed a verificare se i regolamenti sono osservati.

«A ciò si riduce—con una visita molto rapida di un istitutore o d’un elemosiniere—lo sforzo di coloro che sono incaricati di trasformare e di emendare un colpevole!!

«L’ospedale per le malattie morali, lo stabilimento modello sognato forse da Howard e da Ducpétiaux è dunque ben lontano da noi.

«Da tutto ciò si vede quanto sia grande la necessità di cambiare le nostre idee sulla prigione, come sia necessario che i giuristi imparino per il contatto diretto coi delinquenti, le loro vere tendenze, prima di fissare le leggi».

Sistemi graduatorî.—Ed ora ognuno capisce perchè non avendo i penalisti alle mani che questo triste stromento tentassero modificarlo, perfezionarlo: e quindi i grandi plausi al sistema irlandese. Questo consiste nel passaggio del reo da un primo periodo di isolamento cellulare, con cibo solo vegetale e misero vestiario, occupazioni monotone, di sfilacciatura, che non sorpassa i nove mesi, riducibili ad otto, ad un secondo stadio di lavoro collettivo, diurno, rigidamente sorvegliato, che si divide in quattro categorie, le une più privilegiate ed avvantaggiate delle altre, cui esso progredisce, dopo ottenuto un certo numero di tessere di merito, che fan acquistare i lavori eseguiti, l’assiduo studio, i buoni portamenti e fanno perdere i cattivi. Stupendo modo, questo, di materializzare e render cara a quelle menti grosse la virtù. Nella prima categoria la porta della cella resta aperta di giorno, il lavoro non è pagato, ma si può premiare con un penny; dopo conseguite cinquantaquattro tessere, si passa alle altre in cui mano mano il carcerato riceve maggiore compenso, mutua istruzione ed è messo a contatto col pubblico, e così via via.

Trascorso questo stadio, s’inizia pei ricoverati quello della quasi completa indipendenza (prigioni intermediarie) nei campi; sono vestiti dei propri abiti con qualche stipendio, hanno permessi di assenza e contatti continui colla gente di fuori; e da questo stadio passano poi a quello della libertà provvisoria, sotto la sorveglianza fino al termine della pena, della polizia, che fa, loro, in casi di mancanza (e fra questi si calcolano l’ozio e la mala compagnia), riprendere la via del carcere. Prima di uscirne essi sono registrati e fotografati; avvertiti che ad ogni lieve fallo sarebber rivocati; appena giunti al distretto assegnato o prescelto si presentano alla questura e le si ripresentano ogni mese; questa li patrona, li aiuta a trovare un mestiere, li sostiene presso i nuovi padroni, che però sono avvisati dei loro antecedenti e quindi meglio li sorvegliano. Così il reo può ottenere un risparmio di pena[7], e lo Stato di denaro, che può salire da 16 ad 13; e siccome ogni mancanza porta un regresso ai primi stadî, la pena più temuta, non occorrono più in questi stadî intermedi le altre pene disciplinari. Stupendi furono, in apparenza almeno, in Irlanda i frutti di tale riforma; dal 1854, in cui venne introdotta, si ebbe una diminuzione notevole di reati:

Erano 3933 i carcerati, 710 gli entrati nel corso dell’anno
calarono nel 1857 a 2614 » 426 »
nel 1860 a 1631 » 331 »
nel 1869 a 1325 » 191 »
nel 1870 a 1236 » 245 »

E giovi notare che essa concilia l’economia, che vuol dire la possibile applicazione, alla psicologia criminale, perchè permette un passaggio graduato all’assoluta libertà e fa di questo sogno eterno del reo uno strumento di disciplina e di emenda, offre il modo di vincere la diffidenza del pubblico verso i liberati e fa nascere la confidenza di questi in se medesimi.

In Danimarca i giudicandi dimorano in celle notte e giorno e vi lavorano a proprio vantaggio.—I condannati incorreggibili oltre 6 anni, o i già recidivi fanno vita in comune, in carcere apposito, nè hanno altra ricompensa per la buona condotta che il poter lavorare ai campi che son attigui alle carceri.—I suscettibili di emenda, o perchè giovani o perchè condannati per la prima volta, per non grave delitto, da 3 mesi a 6 mesi al più, dimorano in carceri speciali cellulari. Sono divisi a seconda della loro condotta in vari stadi: nel 1º (di 3 a 6 mesi) assoluta reclusione, istruzione nella cella, lavoro gratuito, non possono scrivere che sulla lavagna; nel 2º (di 6 mesi) toccano 2 shilling al giorno pel lavoro, ricevono istruzioni nella scuola, ma segregati dai compagni, possono aver carta nei giorni festivi e libri ogni 15 giorni, e sulla metà del guadagno, oltre all’aumento del cibo, possono acquistarsi un lunario ed uno specchio e scrivere lettere e ricevere visite ogni due mesi; nel 3º stadio (che è di 12 mesi al minimo) ricevono 3 shilling ogni giorno, possono avere libri e carta ogni settimana, possono comperarsi parecchie altre cose utili e mandare danari alla famiglia, ricevere visite ogni mese e mezzo e possedere i ritratti della famiglia; nel 4º stadio hanno 4 shilling al giorno e oltre agli altri vantaggi che loro si largheggiano sempre più, possono uscire di cella, lavorare all’aria aperta, possedere fiori, uccelli. La loro pena è riducibile, secondo la condotta, da 8 mesi a 6, da 2 ad 1 anno e fino da 6 a 3-12. E così passano dall’assoluta solitudine a quella sola notturna, dall’assoluto silenzio, con o senza separazione visuale, fino al lavoro nei campi, con quasi completa libertà. Appena il 10% rimane nelle celle oltre 2 anni.[8]

Noi salutiamo come un grande progresso queste istituzioni, ma non dobbiamo illuderci; dobbiamo ricordare: che molti dei suoi pretesi vantaggi erano in Irlanda effetto dell’emigrazione, poichè i liberati, non trovando lavoro, andavano in America, ove popolavano i penitenziari di New York (R. di discipl. carc., 1877, p. 39): che si avevano recidive numerose anche con questo sistema (ved. s., Vol. I) in Danimarca e peggio ora in Inghilterra, ove a quanto pare codesti liberati non cangiano di abitudini, ma solo di residenza; recandosi essi malgrado la legge in siti ove sieno sconosciuti, e lì, non operando direttamente, ma istruendo e facendo operare altre birbe, in loro vece; quasi tutti i garottatori erano di quella genia, a detta del cappellano di Newgate, Davis (Cere, Les populations dang., 1872, pag. 103); si narra di uno scheriffo che ebbe a giudicare dei condannati liberati col ticket, ricondannati una 2ª volta, riliberati ancora con licenza, e colpiti da una 3ª condanna, il tutto prima che il termine della prima fosse spirato! uno in ispecie, di 36 anni, era stato condannato per più di 40 anni, ed era libero! Ecco perchè in Inghilterra dalla cifra di 2892 cui era salita la quota dei liberati provvisori nel 1856, scese subito a 922 nel 1857, a 912 nel 1858, a 252 nel 1859 e non si elevò mai più di 1400 al 1861-62-63 (Cere, op. cit., p. 100).—Anche in Germania il numero dei riliberati sotto condizione da 2141, ch’era nel 1871, calò a 733 nel 1872, a 421 nel 1874. Questo insuccesso si vuole si debba all’imprudenza con cui si concede il trasloco e il peculio intero ai detenuti; e all’abbondanza di certi patroni più interessati che filantropi, i quali, purchè ne traggan momentaneo profitto, non badano alla loro condotta, ed infine alla poca sorveglianza; ma è forse possibile ottenere una sorveglianza attiva e continua, quando si tratta di veri eserciti di liberati?

Oltre, ed insieme alle graduazioni dovrebbesi cercare di attuare quello che, barbaramente, chiamerò l’individualizzamento della pena; si devono, cioè applicare speciali metodi di repressione e di occupazione, a seconda dei singoli individui, come usa il medico, che prescrive speciali norme dietetiche e terapeutiche, secondo i vari malati.

Questo forma il segreto dei successi ottenuti in Sassonia (Zwickau), dove appunto si hanno carceri per vecchi, per giovani, per le pene gravi e per le leggiere, e dove, a seconda dei meriti di ogni singolo detenuto, si varia di vitto, di vestiario, di diminuzione nella pena. Ma ciò è attuabile pei soli criminaloidi in piccole carceri—e solo da direttori abilissimi; se no il premio della libertà è dato ai peggiori criminali che sono i migliori detenuti ossia i più ipocriti: non può lasciarsi nelle mani della miope burocrazia.

Peculio.—Un’ultima riforma moralizzatrice suggerirono De Metz e Olivecrona, per prevenire la recidiva dei liberati: riguarda il peculio, che se lasciato loro nelle carceri facilita l’orgia, dato all’uscita forma il capitale del crimine; essi consigliano di farne deposito, come garanzia della loro moralità, e come forzato mezzo di risparmio, in mano ai corpi morali, ai comuni, ai padroni, onde furono accolti, che loro ne devono consegnare solo i frutti, ritenendoli indefinitivamente in caso di recidiva. In Belgio ed Olanda si ritengono 710 del prodotto ai condannati ai lavori forzati, 610 a quelli della reclusione, 510 alle carceri semplici; il resto è diviso in 2 parti, di cui metà si fruisce in carcere, l’altra fuori. In Inghilterra ai liberati col ticket il peculio si restituisce nei primi giorni della liberazione, quando non ecceda le 5 lire sterline; nel qual caso vien rimesso in rate, dietro certificato di buona condotta.

Patronato.—Si consigliano da molti anche le istituzioni di patronato, ma oltrecchè hanno l’inconveniente di non potersi applicare in scala corrispondente al bisogno, l’esperienza dimostrò a chi studia quest’istituzione nel mondo e non nei libri, che, pegli adulti è affatto improficua; volgendosi, spesso anzi, a favorire la ingenita tendenza all’ozio e all’ignavia, e, quello che è peggio, riescendo pericolosa ai suoi stessi direttori presi subito di mira dalla rapacità e vendetta dei tristi protetti.

Soprattutto sono dannosi gli asili di patronato, comodo mezzo di ritrovo per essi e stimolo all’associazione malvagia. «Di un centinaio di liberati dai venti ai quarant’anni che si accolsero durante un biennio nel patronato di Milano (scrive Spagliardi), solo i più giovani, e ben pochi anche fra questi corrisposero, languidamente, agl’immensi sagrifici spesi per la loro riabilitazione. La tendenza all’ozio ed al libertinaggio, fatta forse più prepotente per le sofferte privazioni, vinceva in essi le attrattive della operosità; e il potere poi impunemente stare, andare, ribellarsi, come meglio loro talentava, li determinava infine dopo due o tre mesi, al più, di dimora, ad abbandonare l’ospizio, come non bisognevoli di quel soccorso, che avevano domandato liberamente. Nel loro Direttore essi non vedevano l’uomo sagrificatosi pel loro bene, ma solo un nemico, e quasi un tiranno inteso a vincolare la loro libertà. Da qui, contro di lui una sorda guerra d’insubordinazioni, di dispetti, di villanie e perfino di minaccie, se l’ordine e la disciplina venivano con fermezza mantenuti: e quest’avversione conservavano anche dopo abbandonato lo stabilimento, perchè furono questi beneficati che gli spogliarono la casa in una notte del 1847, e che nel 1848 compirono il saccheggio dell’ospizio appena incominciato dai Croati, nelle famose cinque giornate».

Ecco perchè le statistiche dei patronati sono così magre e così illusorie.

In Francia sono 160.000 gli esciti dal carcere; 363 i soccorsi!!

In Inghilterra 48 furono le società, che ne patronarono 12.000, ma con che esito il dimostrammo; e il provano gli asili industriali del patronato di Glasgow istituiti nel 1836: su 60 ammessivi 25 recidivarono; 4 emigrarono; 10 si arrolarono; 5 si perdettero di vista; 8 si condussero bene; 7 rimasero nello stabilimento; e per tutto ciò si spesero 431 sterline; si pensò di trasportarli in campagna: ma su 60 ammessi 46 recidivarono (1 fu rinviato per indisciplina): 5 emigrarono; 4 si condussero bene! 5 furono impiegati nello stabilimento.

Si pensò allora di trattare ciascun caso in particolare dopo fattane una scelta: ma anche qui su 363 così curati per due anni: 37 in 2 anni recidivarono; 5 emigrarono; 47 furono resi ai parenti; e 110 si sparsero per le varie regioni del regno e quindi sfuggirono alla vigilanza—e si spesero per essi 385 sterline. Frutti magri e sporadici, nè, come si vede, applicabili in larga scala.

In genere, poi, anche i fautori del patronato sconsigliano dal fondare stabilimenti di ricovero che non sieno affatto temporali, e di dar soccorso in denaro, ma solo in buoni sull’oste e sul panettiere, buoni che devono essere anticipazioni sul lavoro; le società devono abbandonare quelli che non lavorano e non si rendono al luogo loro indicato, informare le persone presso cui li raccomandano della loro vita antecedente, e perciò a nulla riescono senza un agente (possibilmente un ex-guardiano), che ne spii la condotta, che si occupi di collocarli opportunamente (V. Lamarque, La réhabilitation, etc. Paris, 1877, Brown, Suggested on the formation of discharged prisoners, 1870).

Maxime du Camp (Revue des Deux Mondes, 1889) pure conviene che il patronato è inutile pei rei-nati od abituali, ma non per quelli occasionali: «Fra i criminali (dice egli giustamente) vi hanno rei che s’annegano in un bicchier d’acqua, cassieri che sbaglian le cifre, commessi che confondono i prezzi e finiscono con irregolarità che sembrano indelicatezze e che li conducono al tribunale; quivi, imbrogliandosi sempre più, sono condannati. Costoro, una volta liberati, se trovano un impiego adattato alla loro poca intelligenza, non recidivano».—Per questi è utile, ne convengo, il patronato.

V’hanno poi quelli (delinquenti d’occasione), che peccarono p. es. in seguito a forte desiderio d’andare ad un ballo, ecc., e rubarono al loro padrone per la prima volta, presero qualche soldo di più del dovere, trovarono un padrone che li fece mettere in prigione, e il carcere li ha infettati: costoro se non sono soccorsi uscendo, vedono nella società una nemica; e chi sentiva rimorso per aver rubato 20 franchi e disperazione per aver subìto tre mesi di carcere, non si spaventerà all’effrazione ed all’assassinio.

La Società di Patronato fondata nel 1871 a Parigi si studiò di offrire il suo aiuto quando ne avessero bisogno, loro lasciandone solo l’indirizzo: se n’ebbero bei risultati. Un certo I., recidivo fin da giovane, autore di bancarotta fraudolenta e di furti, un giorno che un detenuto per 28 anni cercò di uccidere il direttore, si interpose a proprio rischio, ne restò ferito, ma lo salvò; alla sua volta lo si graziò, e non ricadde più: anzi, posto dalla società a guardiano di un passeggio pubblico, fu impeccabile nelle sue funzioni (però avvertiamo che la bancarotta non è propria dei delinquenti nati).

—In complesso, recidiva vi si calcola dall’8 al 10% (Du Camp, op. cit.).

Anche Spagliardi, che è certo l’autorità più sicura su questo argomento, dichiara nella sua Relazione, Se lo Stato debba accordare [467]sovvenzioni alle società di patronato, ed a quali condizioni, 1871, che queste istituzioni debbono, per approdar a qualcosa, essere un accessorio della legge penale. «L’autorità emana la legge, ne stabilisce le norme, veglia a che sia osservata, ed occorrendo interviene col suo braccio forte, e la beneficenza studia di rendere efficaci le misure dell’autorità, ed ha il vantaggio che essa non esercita che la parte benefica della istituzione… Infatti per quei condannati, che il carcere ha fatto ancora più tristi, che nè la severità nè l’amore hanno potuto piegare, tutt’altro che disposti alle cure pietose rivolte alla loro riabilitazione, anzi manifestamente pericolosi alla società, non giova che il patronato della deportazione. Per quelli i quali o vennero condannati per delitti che non portano infamia nè distruggono gli effetti di una buona educazione, ovvero colpiti da pena disonorante hanno però tutta la coscienza del male commesso e ne sono sinceramente pentiti, salvo qualche cura o sussidio ai poveri, pel tempo necessario a trovar qualche appoggio, non occorrerebbe un regolare patrocinio.

«Resta la terza categoria, la classe più numerosa, di quei liberandi, i quali, impotenti per povertà ed incapaci per ignoranza a bastare a se stessi, non darebbero criterî sufficienti per pronunciare un giustizio sicuro sul loro emendamento, ma anzi presenterebbero tutti gl’indizi di una guarigione incompleta. Ed è appunto per costoro che i rispettivi Direttori, in seguito ad un consiglio delle persone più competenti del penitenziario, dovrebbero proporre la misura del patronato obbligatorio, alla giudiziaria magistratura, misura, che ben più proficuamente terrebbe il luogo dell’attuale penalità della sorveglianza di polizia. Non v’ha dubbio poi, che tale provvedimento da applicarsi non a priori, ma conseguentemente alla condotta tenuta dal liberando, influirebbe anche sul miglior governo dei penitenziarî.—Ma chi non vede, come la classificazione di questi liberandi, e le relative proposte di patrocinio obbligatorio, a condizioni certo utilissime, ma onerose, non possa essere il còmpito della beneficenza? La quale anzi non potrebbe nemmeno accingersi alla parte che le spetta, nè condurla a buon esito, se non in seguito al verdetto dell’autorità, e confortata dal suo energico appoggio. A maggior tutela del liberato, io vorrei ch’egli avesse a subire il patrocinio fuori del proprio paese, e che durante il medesimo non fosse mai lasciato in possesso del proprio peculio o massa risparmiata nel carcere. L’avere danari a propria disposizione ed il poter ritornare ai luoghi che furono già il campo delle sue delittuose operazioni, è difatto la causa ordinaria delle così frequenti e facili ricadute.—Ma qui appunto necessita l’azione governativa.

«Alla Società di patrocinio dovrebbe incombere l’obbligo di procurare al liberato nel luogo di dimora fissatogli, l’alloggio, il lavoro, le sovvenzioni sul rispettivo peculio, i soccorsi straordinarî, al quale ufficio io vorrei aggiungere il diritto di proporre, secondo il caso, una diminuzione od un prolungamento del tempo di prova stabilito dall’autorità».

Deportazioni.—V’è una specie di partito scientifico in Italia, che fantastica di trovare la panacea del delitto nella deportazione[9], cominciando da quegli egregi statisti dei Garelli, Cerutti e Deforesta, che si armarono di un cumulo di documenti statistici e finendo col carissimo Dossi, che vi portò i più delicati fiori della sua poetica simpatica fantasia nella sua—Colonia felice. Non giova difendersi contro i poeti, che parlano col cuore e la fantasia, ben giova il dire agli altri, che i dati storici e statistici chiamati a favore di quella teoria le sono proprio contrari. Si diceva che una gran parte delle fiorenti colonie americane e la stessa Roma antica ebbero origine da una specie di emigrazione o di colonia penale. È un errore storico. Per Roma basta citare le eterne pagine di Virgilio; e quanto all’America, bisogna ricordare che se la terza spedizione di Colombo fu composta di malfattori, compresivi però molti eretici ed avventurieri, alla prima e alla seconda presero parte i primi gentiluomini, e sotto Carlo II e Giacomo II ogni deportazione vi fu proibita; che molti paesi dell’America del Nord ebbero origine da onestissimi cittadini, come la Pensilvania dai Quaccheri di Fox e Penn; che il primo grande stabilimento d’America, quello di Jamestown, fu fondato dal gentiluomo Fonwick. Quanto all’Australia, si deve escludere la Vittoria, l’Australia del sud, la Nuova Zelanda, e quanto alla Nuova Galles, ed alla Tasmania, se devono l’origine alla deportazione, è un grande errore il credere che le debbano la loro prosperità. Tanto è vero che contro quella protestarono, quasi subito, i grandi filantropi Howard e Bentham, e poco dopo gli stessi coloni, sicchè 41 anni dopo, nell’anno 1828, se ne votava dalla Camera l’abolizione. E la prosperità dell’Australia si deve alle feconde praterie e ai vantaggi portati dal commercio della lana, che vi fece affluire una gran quantità di uomini liberi. La ricchezza di Melburne e Sydney si iniziò, appunto, quando scemarono le spedizioni dei condannati.

Recentemente il vescovo di Tasmania con 260 e più notabili protestò contro la presenza dei condannati, dichiarando la colonia sarebbe emigrata se non si facevan partire; altrettanto fece la legislazione della Vittoria, la quale dichiarò che le spese per la polizia e le carceri, in causa della deportazione, eranle aumentate a più di 2 sterline a testa, per cui se altrettanto avesse dovuto pagare l’Inghilterra, avrebbe avuto una spesa di più di 1390 milioni di sterline.

La legislatura dell’Australia del Sud emise, nel 1857, un decreto, per cui ogni individuo già carcerato, ancorchè avesse scontata la pena, doveva subirvi un nuovo carcere di 3 anni.

Nella N. Galles la popolazione tra il 1810 e 1830, in cui si ebbe il maximum della deportazione, crebbe di soli 2000 all’anno: dal 1839 al 1848 in cui l’esportazione delle lane crebbe da 7 a 23 milioni, aumentò da 114,000 a 220.000; ma dal 1840 ivi era cessata la deportazione, e finchè essa sussisteva, il brigantaggio vi infierì in vasta scala; i deportati non lavoravano e quelli addetti alla costruzione delle strade, che erano parecchie migliaia, vivevano peggio di animali sotto la sorveglianza di guardie e di soldati che li facevano cacciare da cani feroci, e li assoggettavano alla catena o allo scudiscio senza pietà[10]; e i liberati stessi, o deboli o complici dei loro antichi compagni, ben più sovente si univano ad essi nelle ribalderie e nei delitti, barattavano i terreni che il governo aveva loro concesso, perchè ne traessero una vita laboriosa. Non è quindi da far le meraviglie se la mortalità della popolazione detenuta toccava alle proporzioni del 40%, mentre nella libera raggiungeva appena il 5; se la proporzione delle criminalità, che in Inghilterra si calcolava di 1 delinquente su 850 abitanti, saliva nella N. Galles ad 1 su 104, ed in Van-Diemen ad 1 su 84; e se i delitti commessi con violenza, che in Inghilterra stavano agli altri delitti come 1 ad 8, toccavano nella N. Galles la proporzione di 50%.

Ciò ci dimostra come scarso o nullo sia il vantaggio morale della deportazione, comechè i condannati non lavorano, quindi per vivere devono ricorrere ai delitti, che vi si raddoppiano di numero, mentre non scemano nel paese donde furono esportati, forse perchè furonvi, perciò, più oggetto di invidia che di terrore ai compagni.

Nel 1852 infatti furono 3000 in Francia i forzati che chiesero di esser deportati, e per ottenerlo molti commisero dei nuovi crimini (Stevens, Reg. des établiss., 1877).

Nel 1805-6 con deportazione media di 360 all’anno si ebbero 2649 condanne in Inghilterra, e nel 1853-6 colla media di deportati 4108 all’anno si ebbero 15.049 condannati.

E mentre la spesa pel mantenimento di un delinquente in Inghilterra è di lire sterline 10,13, nelle colonie salì a 26,14, a 35, a 40.

Le spese per lo stabilimento della N. Galles salirono a 200 milioni senza contare però la spesa annua di 15 milioni!

Nella Guiana si avrebbe avuto un guadagno di L. 1,510,83 colla deportazione, ma dividendo quel guadagno per le giornate occupate, esso si risolve a 54 centesimi nel 1865, anzi nel 1866 a 48 per testa; e si ebbero evasi un 5%, morti 40%. Ogni reo costa 1100 fr. l’anno, 3 volte più che non un condannato cellulare; le [471]spese di trasporto salirono a 400 (Bonneville de Marsangy, De l’amélioration des lois crimin., II, 95).

Il 30 maggio 1854 le Camere francesi promulgano una legge che stabilisce la deportazione; prescrive che i deportati sieno addetti ai lavori più penosi della colonia; e vuole nel tempo stesso che si faccia il possibile per migliorarli moralmente; loro si diedero, infatti, i mezzi di vivere onestamente: risorse insperate che sovente mancano alla gente onesta, si è istituita per essi una cassa (Legge 17 agosto 1878) di risparmio sovvenzionata dallo Stato; si cedono loro in concessione terreni di prima qualità spesso dissodati, di cui dopo 5 anni dalla liberazione diventano possessori. Ogni concessionario ha diritto al vitto, vestiario (Circ. minist. 6 gennaio 1882), alle cure d’ospedale ed agli strumenti agricoli; se ha moglie, questa gode i medesimi diritti, oltre 150 franchi all’atto del matrimonio ed un mobilio completo. Non è solamente, dunque, l’ambiente che è cambiato, ma tutte le occasioni di ricadere nel delitto furono accuratamente evitate. Ma noi sappiamo che se è possibile l’emendarsi in un nuovo ambiente pei delinquenti d’occasione, non lo è pei veri delinquenti-nati di cui si compone la maggior parte di questi miserabili. Ora, nelle relazioni non ufficiali,—avendo le ufficiali interesse a nasconderci la verità,—noi vediamo un rifiorirvi del delitto in pieno giorno, al punto che gli uomini onesti, ed i funzionari stessi, che mandano al Governo i menzogneri rapporti, sono spesso le vittime di queste pretese pecore rientrate all’ovile.

Vediamo, p. es., come ce li dipinge un imparziale straniero, Thomas (Cannibals and convicts, 1886), de visu:

«Non si può ideare a qual grado d’infamia essi siano giunti.

«Nel 1884 si vide uno di questi delinquenti tentare di tagliar la gola alla sposa dopo 48 ore di matrimonio. Sorpreso, fuggì fra i selvaggi che lo fucilarono: ma essi stessi sono sovente le vittime di quei miserabili. L’impunità, l’indulgenza diedero luogo ad una vera anarchia, ad un vero inferno in terra».

Secondo Mancelon (Les bagnes et la colonisation pénal, 1886) dei relegati condannati per ben tre volte a morte furono in seguito liberati. Una donna che aveva ucciso due bambini, e che fu in seguito graziata, più tardi ne uccise un altro.

Ecco come descriveva a Laurent un deportato uno di quei matrimoni che il governatore Pardon, nella relazione ufficiale (1891), ci dipinge con tanta ammirazione.

«All’isola Nou (Laurent, Les habitués des prisons, 1890) assistetti ad una cerimonia curiosa; allo sposalizio di uno dei miei condetenuti. Il pretendente era un individuo condannato a 5 anni di lavori forzati, per assassinio: lo si mandò a far la scelta della sposa al convento di Bourail al Padoc, scelse una vecchia prostituta condannata a 8 anni di lavori forzati, per aver aiutato a derubare ed assassinare un uomo in casa sua.

«Il matrimonio fu deciso. Dopo la messa, il prete parlò ai novelli sposi di perdono, di redenzione, dell’oblio delle offese, ma la sposa stizzita non cessava di ripetere in gergo: Ah! quanto ci annoia!

«Seguì un banchetto molto inaffiato. Il testimonio bevette tanto alcool, che dormendo si lasciò prendere il portamonete: il marito pure era altrettanto ubbriaco, ed il mattino si svegliò anch’egli senza portafogli, con un occhio ammaccato e senza notizie della sposa che s’era assentata con un altro liberato fino al mattino: ma e’ prese la cosa in buona parte e la trovò anzi naturale.

«Quantunque maritata, colei divenne la concubina dei liberati e e dei carcerati stessi. Un giorno attirò in un locale appartato un arabo liberato che sapeva ricco, e il marito lo svaligiò e uccise a colpi di ascia. Ma la donna impaurita denunziò l’omicida che venne condannato a morte. Così finì questa coppia fortunata».

Leggesi nel Néo-Calédonien del 26 gennaio 1884:

«Un rigenerato venne messo in concessione tempo fa, non si sa perchè, e fu autorizzato a sposare una giovane e bella donna la quale, da quanto pare, non fu abbastanza soddisfatta del nuovo sposo.

«Quarant’otto ore dopo gli sponsali, questi venne arrestato alle 2 pom. mentre disponevasi a segare tranquillamente la gola alla giovane metà. L’arrivo degli agenti impedì che il delitto fosse commesso. Egli non subì che qualche giorno di detenzione, perchè essendo stato sorpreso mentre stava per commettere il reato sulla porta della casa di un funzionario, dal quale sua moglie veniva; la cosa fu soffocata e la giovane coppia fu rappattumata per ordine superiore. Ma poco dopo la donna si salvò per non essere assassinata. Il marito si vendicò incendiando la casa, e fuggì. Per distrarsi egli ora incendia tutte le case dei concessionari.

Nella monografia, Travaux forcés fin de siècle, della Nouvelle Revue, 1890, si narra di «un Dévillepoix, condannato ai lavori forzati a vita per due stupri su minorenni seguiti da due omicidi e passato a seconde nozze con una infanticida. Dopo qualche tempo, per nulla, mise fuoco alle case dei vicini, incendiò la piantagione di M. e G., prostituì la moglie col primo capitato per vivere meglio e finalmente si fece condannare a morte. Ora i Dévillepoix concessionari, sono una legione nella Nuova Caledonia ed anche nella Guyana, dopo la concessione del 15 aprile 1887.

«Nell’anno 1883, un liberato s’innamorò della signora B., venditrice di liquori, e siccome ella non corrispose subito alla sua fiamma, egli le bruciò le cervella e si suicidò in presenza degli avventori.

«Nel 1881 il Ministro della Marina si lagnò che sopra 7000 persone, senza contare i liberati, 360 soltanto poterono essere impiegati nelle costruzioni di strade. Tutti gli altri vagano più o meno alla ventura, vivono a modo loro, a cavallo, in vettura, liberamente, sotto pretesto di lavoro in concessione, o d’impiego presso i particolari. Così non più disciplina, non più, si può dire, bagno.

«Nel 1880 non c’erano che da 640 a 700 evasi; nel 1889 la cifra permanente di 800 è raggiunta. Nè i rei più pericolosi non sono i più sorvegliati.

«Il famoso bandito Brideau, evaso altre volte, uccise una vecchia e le divorò il seno. Sotto il coltello della ghigliottina si rise della giustizia. «Tirate giù«, gridò con forza, quando era sotto la mannaia.

«Chi, d’altronde potrebbe frenare questi depravati, allorchè si sono accorti che il bagno—questo spauracchio dei codici—non è che una facezia?

«Il Consiglio di guerra si perde a condannare e ricondannare, e per l’eternità, dei miserabili già condannati a perpetuità. Si distribuiscono degli aumenti di 10, 20, 100 e 200 anni di bagno!

«Si vedono a Noumea individui condannati tre volte a morte e graziati, ed in seguito lasciati in libertà per le vie.

«Nel 1891 il Tribunale marittimo di Noumea condannò a morte un forzato chiamato Janicol, il quale, in seguito a condanne avute nella colonia, non sarebbe stato libero che l’anno 2036, vale a dire dopo 145 anni! La Macé, inviata alla Caledonia dopo aver uccisi i suoi due bimbi, si marita, ottiene una concessione di terreno ed uccide un nuovo fanciullo. Un antico fabbricante di stoviglie a Bourail, che fu condannato per stupro di una figlia maggiore, è raggiunto dalla moglie, dalla vittima e da un’altra figlia più giovane. Egli spinge la maggiore alla più bassa prostituzione, vi prepara l’altra minore, e continua il suo commercio florido di stovigliaio.

«Le vittime sono i poveri sorveglianti. Il martirologio è lungo. Fra tanti citiamo Olivieri, Lavergne crivellato da colpi di coltello da un condannato vagabondo, malgrado tre condanne successive a vita (la vita del Lavergne venne giuocata all’écarté!!); Antonmarchi fu scannato durante il sonno, Taillandier, Salvadori, Collin, Paggi, Guillemaille, pugnalati colla moglie e coi figli; Gerbi tagliato a pezzi».

Gli effetti di questo ordinamento della colonia sono evidenti.

È già trascorso un quarto di secolo dall’arrivo alla Nuova Caledonia del primo convoglio di condannati: eppure essa non ha strade; Noumea non ha fogne, nè terrazze, nè case, nè docks, nè bacini di carenaggio; in breve tutte le terre saranno in mano di incendiari e di assassini.

Si capisce ora quanto siano veritiere le relazioni degli Ispettori che sostengono che «i concessionari sono veri proprietari, ad alcuno dei quali si potrebbe con sicurezza ridare grazia e libertà»!!

Ho riprodotto con minutezza questi fatti perchè servano anche di controprova a quelli che seguitano a ripetere papagallescamente—Mutate l’ambiente, mutate il bouillon—e il reo sparirà.—Qui son mutati il clima, la razza (Caledonia), le condizioni—son sottratte tutte le cause dei delitti—ed il reo-nato delinque ancora—e l’onesto ne fa le spese!—Qual miglior prova della prepotenza dell’azione organica sull’ambiente!

E l’ho riprodotto per mostrare la lunga serie di inganni—per opera dei burocratici—che ci fan parer stupende delle riforme pessime: infatti il Governatore della Nuova Caledonia, Pardon (con rapporto 1891) magnificava questa riforma, dichiarava d’aver messo ai lavori delle strade 1200 condannati; a disposizione dei coloni ben 630, sorvegliati senza alcun pericolo (sic!) dai guardiani e con molta lode. I concessionari aumentavano continuamente fino a 123: le pene saranno rispettate, non sollevando nemmeno sentimenti di rivolta, l’industria prospera (Bullet. des Prisons).

Il vero è che anzi dovevano aggiungere che oltre alla spesa enorme per mantenere costoro, non meno di 900 fr. a testa, bisognava contare su la quota di rei che delinquono solo per andare a quest’eden.

Bosvat di 22 anni, p. es., stanco di 16 condanne per furto, sortito appena dal carcere feriva il primo Commissario di polizia che trovò; aveva detto agli amici che se non avesse trovato di costoro avrebbe ucciso qualcuno tanto per andare alla Colonia ( R. di Discipl. Carceraria, 1885).

Per comprendere il grande svantaggio economico delle colonie penali, conviene ricordare: che i delinquenti non campagnoli sorpassano di più che la metà la quota dei rei e non è a 25 o 30 anni che si apprende un mestiere nuovo; che la poca attività, la ripugnanza del lavoro forma uno dei caratteri dell’uomo criminale, carattere di cui certo non può spogliarlo (ma anzi deve aumentarlo) un clima più caldo che rende più inclini ad alcuni delitti, e la vicinanza di popolazioni selvaggie, più affini nell’indole a quella del delinquente; quindi è naturale cosa che si aumentino e non scemino quelle recidive che ormai riconoscemmo costituire la regola e non l’eccezione del criminale-nato.

Perciò le deportazioni non dovrebbero assegnarsi che ai rei per passione e d’occasione (Vedi Capp. XII e XIII).

Coatto.—Dicasi altrettanto del domicilio coatto che è la larva di una casa di pena per gl’incorreggibili, salva la minor continuità ed il peggiore pericolo e la minore spesa apparente, poichè il governo non vi spende che 60 centesimi al giorno, del che parecchie volte si rifa sul compenso di 40 ad 80 centesimi pel lavoro al giorno.

Se non che questo provvedimento, oltre esser provvisorio, è pochissimo giustificato: che se il vantaggio del loro allontanamento è certo grande per i cittadini onesti (non però pei poveri loro ospiti, che corrompono, derubano ed infamano)[11], ben è impossibile il credere che serva per loro, che possa essere uno stimolo al loro ravvedimento od al lavoro. Come si può immaginare che all’isola Ventottene, che ha solo 60 salme di terreno coltivabile e 1000 abitanti, possano trovar lavoro 400 coatti che vi si trovano? e con che ponno lavorare attualmente 424 nell’isola Pantelleria e 408 a Tremiti? (Nicotera).

Infatti, nel 1852 erano 488 e nel 1874 erano 1488 sopra 3602 i coatti che si potevano occupare.[12] Ma come immaginare che sapendo dover dimorare in un sito non più che da tre mesi ad un anno possano trovar gusto e modo ai lavori utili? E come credere che dopo un ozio completo passato in una specie d’impunità insieme ai più perversi, dopo un ozio favorito dalla magra pensione governativa, un uomo possa tornare più attivo in mezzo alla società donde fu espulso?

E però perchè restituirli? Se il loro primo invio non era giustificato che dal bisogno della sicurezza sociale, perchè non continuarlo? E se era ingiusto od inutile per sè, perchè decretarlo?

Ma quale miglioramento morale si può attendere da individui che sono raggruppati a centinaia sopra un piccolo spazio di terra e obbligati a convivere insieme oziando?

Il domicilio coatto diventa in questo modo l’occasione necessaria di future associazioni di malfattori, tanto più pericolose, in quanto che possono prendere forme di colleganze interprovinciali, rinsaldate dal comune vincolo degli odii, dei desiderii di vendetta, delle cupidigie, dei delitti.

Di che cosa infatti volete che ragionino, conversando tutto il giorno fra loro, codesti uomini, già abituati al mal fare, se non delle male imprese per lo addietro da ciascuno compiute e di quelle a cui, riavendo la libertà, potranno insieme dedicarsi?

Ed è tale e tanta e così radicata oramai questa convinzione, che allorquando è spirato il termine della condanna, e il Ministero interroga prefetti e questori sulla convenienza di restituire al rispettivo comune il coatto pel quale il termine è scaduto, prefetti e questori in generale rispondono negativamente.

«Quando io vidi (scrive un testimonio oculare) i coatti a Ventottene, coloro che erano in codesta condizione di flagrante illegalità costituivano, una terza parte del numero totale. Per alcuni la illegalità era stata sanata una prima volta mediante una rinnovazione di condanna; ma anche il nuovo periodo era stato scontato; e la situazione necessariamente era peggiorata.

«Ho visto le stesse faccie scialbe e sparute, stesso disordine delle vestimenta, lo stesso moversi incomposto, lo stesso vociare confuso; e la immobile stupidità degli uni e il perpetuo correre intorno degli altri; e questi starsene sdraiati al suolo sotto la sferza del sole e quelli sghignazzare giuocando ed altri ancora accalorarsi, bestemmiando, nelle condanne.

«Non ho bisogno di dirvi, come vi siano alcuni, i quali spendono tutti i cinquanta centesimi in solo pane; e poi trovano di non essere sazi abbastanza. Altri, li perdono cercando di sottrarsi all’ozio col giuoco.

«Per contrastare questi effetti ricorrono molti ad un rimedio che è peggiore del male e che una volta adottato non può da que’ disgraziati venire più smesso, quello dei liquori e delle bevande spiritose.

«Alcuni talvolta, non mai più d’un decimo, trovano accidentalmente un po’ di lavoro; ma è lavoro affatto temporaneo ed assai male retribuito.—E vi son quelli tra i coatti che, per non giuocare il pane, giuocano i vestiti e in breve si riducono ignudi; cosicchè li vedi ravvoltolati nella coperta da letto, oppure cacciati nel pagliericcio, tenendone fuori soltanto la testa.

«Il condannare un coatto alla cella di punizione è cosa che non dipende dal pretore, ma dal direttore della colonia, un semplice delegato di P. S., affrancato, per le condizioni stesse della sua residenza, dalla molestia di frequenti controllerie.

«Or siccome tutto ciò che sa di arbitrio fa ribellare anche la natura più perversa, così avviene che queste punizioni in generale inaspriscono l’animo dei coatti e li rendono vieppiù ribelli ad ogni idea di disciplina.

«Oltre a ciò, essendo conseguenza della detenzione in cella il ricevere pel mantenimento venticinque centesimi soltanto in luogo di cinquanta, è avvenuto che più d’un coatto abbia talvolta commesso un furto od altro reato, pel solo desiderio di essere tradotto alla prigione mandamentale e di ricevere colà il nutrimento sano e sufficiente del condannato».

Sorveglianza. Ammonizione.—Tutti coloro che hanno pratica dei delinquenti e della questura sanno che la così detta sorveglianza occupa una gran parte delle guardie di pubblica sicurezza[13], con una spesa di più di 4 milioni e tutto senza un vero vantaggio, poichè infine i delitti sono in gran parte commessi da questi sorvegliati od ammoniti, ma la sorveglianza è causa essa stessa di nuovi delitti e certo della miseria dei delinquenti, poichè denunciandoli colle visite personali, agli onesti impediscono dal trovare e mantenere l’impiego. Il delitto, dice bene Ortolan, dà luogo alla sorveglianza, questa all’impossibilità di trovare lavoro con un cerchio tanto più fatale che spesso si assegna loro un domicilio lontano dal paese nativo (Éléments du droit pénal, cap. 7, tit. V).

È una misura, dice Curcio, che spoglia d’ogni garanzia le persone colpite, che mentre non impedisce le tristi, paralizza le oneste, interdicendole moralmente e fisicamente; che fa perdere il lavoro a tanta gente, mentre la si vuol condannare principalmente per non essersi data a stabili occupazioni.

La pena, dice Fregier, della sorveglianza, dopo che fu introdotta, non giovò punto, non offerse alcuna garanzia, e mantenne intanto l’illusione di una sicurezza che non esisteva (Les classes dangereuses, 1868).

S’aggiunga l’enorme numero degli arresti, le perdite del Governo e dei privati, pelle spese di carcerazione e di giudizio, contro ai contravventori, e l’arbitrio enorme per cui la mancanza di un saluto alle guardie, oppure il saluto ad uno sospetto, il ritardo di un quarto d’ora nel rientrare in casa (alle 8-14 invece delle 8) possono essere causa d’arresto, sicchè gli infelici sono schiavi in mano alle guardie (Curcio).

Altrettanto e peggio si dica dell’ammonizione[14], che non ha almeno la speranza di limiti, di un fine, che ha pur la sorveglianza. Incredibile è la perdita di lavoro che questa produce, mentre essa è escogitata per ottenere il contrario.

«La sorveglianza (dice l’on. Gallo) e l’ammonizione lasciata esclusivamente all’arbitrio della P. S., fa che lo scopo manca pressochè sempre, anzi, quello che si ottiene è contrario affatto a quello che si è proposto. Essendo l’Autorità di P. S. quella che denuncia la persona da ammonirsi all’autorità giudiziaria, è pur dessa sempre quella che ne fornisce anche le informazioni o dove si appoggia l’ordinanza d’ammonizione. Questa pronunciata, non ammette appello, nè revoca, nè prescrizione; per il che la persona ammonita, incapace, o per la giovane età, o per ignoranza della stessa legge, di conoscerne tutta la gravità, si può dire che da quell’istante rimane priva della sua libertà, la quale poi perde per sempre, imperocchè all’ammonizione tiene subito dietro la contravvenzione, per la quasi impossibilità nell’ammonito di ottemperare alla prescrizione, di darsi a stabile lavoro nel termine prefisso or di cinque, or di dieci giorni al più, coll’obbligo di farne constare alla autorità politica; di qui la condanna certa per oziosità alla pena del carcere per tre mesi coll’aggiunta ancora della pena accessoria della sorveglianza speciale della P. S., non mai minore di sei mesi; pene queste, che precludono per sempre al condannato qualunque via al lavoro.

«E valga il vero: Sedeva un giorno sul banco degli imputati un giovane pieno di vita, di mente svegliata. Dovea rispondere di furto di oggetti esposti alla fede pubblica, e per la terza volta del reato di contravvenzione alla sorveglianza speciale.

«Interrogato quale fosse la causa per cui aveva contravvenuto alla sorveglianza, rispose, la causa è di chi mi ha condannato, e fattosi ad un tratto il volto suo cosperso di colore, proruppe con voce più franca e più sonora in queste precise parole: «Sì, meglio lo dirò e lo ripeterò sempre, la causa è di coloro che mi hanno condannato alla sorveglianza per la quale mi trovo nella disperazione. Maledico a coloro che mi lasciarono in questo mondo, meglio sarebbe stato per me se non fossi nato, perchè non mi sarebbe toccata la sorte crudele o di morir di fame o di marcire (furono le sue parole) in carcere. Ma, soggiunse ancora, quello che ho fatto sarà poco a fronte di quello che sarò costretto di fare per liberarmi dalla sorveglianza e per non aver più nulla da fare o dire cogli agenti della P. S. ed assicurarmi il pane per tutta la vita». Il pane, a cui alludeva, era il pane del condannato, perchè altro più onorato non poteva ripromettersi sebbene di buona volontà, perchè nissuno lo voleva per lavorare, da taluno non solo rifiutato, ma con sdegno respinto, appunto perchè sottoposto alla sorveglianza della Pubblica Sicurezza» (Gallo, op. cit.).

«A me non resta che mettermi una corda al collo! diceva innanzi al Tribunale di Firenze uno sciagurato sottoposto alla sorveglianza, che era stato arrestato tre volte di seguito, negli stessi giorni in cui avea finito di espiare la pena. Solo nel mondo, senza parenti e senza amici, non avendo trovato, appena uscito di carcere la prima volta, ove posare il suo capo disgraziato, si era messo a dormire sotto la statua di Cosimo il vecchio… Dopo un momento fu condotto in prigione e processato e condannato perchè trovato fuori del proprio domicilio un’ora dopo il suono dell’Avemaria. Finita la pena, appena uscito dalle carceri s’incontrò a caso con uno che in esse aveva conosciuto e si unì a lui per andare in cerca di lavoro; fu carcerato, processato e condannato per essersi trovato insieme ad un individuo sospetto. Finita anche questa volta la pena, s’incamminò fuori di porta romana, essendo stato assicurato che colà poteva trovar del lavoro, ma non conoscendo bene in qual punto preciso terminava il comune di Firenze, per ignoranza passò il Rubicone… e fu tratto a prigione, processato e condannato per avere oltrepassato la circoscrizione del territorio assegnatogli…» (Curcio, op. cit.).

Noi trovammo alle carceri di Torino un certo Biumi arrestato 11 volte in 6 mesi per mancanza alla sorveglianza che finse di rubare per potersi far condannare definitivamente e sottrarsi alle noie della sorveglianza, ecc., «e appena fuori, finito il mio tempo, o mi terranno qui o fingerò di nuovo, perchè io preferisco una dimora continua qui, che una a sbalzi».

«Che serietà vi presenta una legge che obbliga perfino a fingere di commettere reati, e che mette i funzionari di pubblica sicurezza in questa crudele posizione, che tante volte scongiurati da quei disgraziati pregiudicati, perchè li aiutino a trovare del lavoro, debbano denunziare la contravvenzione a carico di quelli stessi perchè poi non l’han trovato!» (Curcio).

«Che serietà vi presenta una legge la quale mette i funzionari di P. S. in condizioni di non poter dir nulla a cinquanta o sessanta individui se li trovano tutti a dormire nella stessa locanda, quando tutti hanno dichiarato regolarmente che era quello il loro domicilio; ed intanto, se ne trovano due insieme per la strada, in pieno meriggio, li debbono arrestare perchè le persone pregiudicate non possono unirsi tra di loro?» (Curcio).

In grazia del sistema vigente si toglie ogni sentimento di umanità, e si fa spreco di funzionarii e di quattrini per far entrare ed uscir di prigione le persone pregiudicate. Le quali perdono qualunque buona attitudine, la forza della rassegnazione, si demoralizzano affatto. Con questo sistema si lavora a demolire la serietà della giustizia che deve condannar persone che avessero anche fatti tutti i passi per procurarsi lavoro (Curcio, op. cit.).

L’ingiustizia delle ammonizioni è evidente in teorica, dipendendo dal solo arbitrio personale dei pretori, che pure sono considerati come i meno degni di sì alta responsabilità di tutto il corpo giudiziario; e che sia tale anche in pratica lo dimostra il largheggiare in alcune provincie, come Venezia che ne aveva 14.231 nel 77 (Rivista penale, 1878), senza che il crimine vi si notasse in numero straordinario, mentre Potenza ne aveva solo 1306 e Catanzaro 1183, e lo dimostra la sproporzione fra le revoche delle ammonizioni, 1 su 7 a Milano, 1 su 16 a Catanzaro ed infine i pareri diversi sulle revoche e sulle eleggibilità degli ammoniti non solo dei Procuratori del Re, ma delle varie Corti di Cassazione.

I nemici, come ben dice Machiavelli, si devono o vezzeggiare o spegnere, ma qui non si fa nè l’uno nè l’altro,—si irritano.


A questo, a un dipresso, si risolvono tutti gli istituti governativi per la repressione e prevenzione del crimine!


  1. In Svizzera: Basilea le carc. (Sist. Irl.) diedero 15 al 19% di recidivi S. Gallo collett. (Sistema Auburn) 19 » Lucerna collett. (Sistema Auburn) 45 » Argovia collett. donne (Sistema Auburn) 50 » Idem (Sistema Irlandese) 28 » Nel Baden (cellulari) 20 » In Svezia e Norvegia (cellulare) il 28 al 38%. (Vedi sopra al Vol. I per le altre cifre di recidivi nelle c. cellulari). Sui suicidi ho dei dubbî; ricordiamo il Cavaglia scrisse prima di uccidersi: 100 giorni di cella e 100 notti.
  2. Paesi Carceri Suicidi Morti, pazzi e suicidi su 1000 Francia collettive 0,1 a 0,10% 42 al 66 Id. Mazas cellulari 0,3 » 35 Id. Roquette riform. cellulari 0,09 » 25 Belgio (Lovanio) cellulari 0,20 » 19 Olanda. cellulari 0,17 » 12 Id. non cell. 0,0 » — Norvegia non cell. 0,08 » 18 Lecour, Du suicid. et de l'aliénat. dans les prisons. Paris, 1876; secondo lui, in America si ha: 1 morto su 49 carcerati nelle carceri comuni; invece in quelle a sistema Auburn 1 su 54.—In Francia 1 su 14 nelle cellulari. Secondo Alauzet, in 8 Case a sistema Auburn, in America, si avrebbe avuto una media di 1 su 50 con un minimo di 1 su 81. A Filadelfia il cellulare diede 1 su 33; in Francia si ha 1 morto su 20 nelle Case centrali, 1 su 21 a 27 nei bagni, nei liberi 1 su 39 (Essai sur les peines, 1863).
  3. Le monde des prisons. Paris, 1888.
  4. Le monde des prisons. Paris, 1888.
  5. Palimsesti del carcere. 1889, p. 21, 56.
  6. Gallo richiesto all'assise come essendo in cella avesse potuto comunicar coi complici: «Perchè non ci intendessimo, bisognerebbe collocarci uno in Francia e l'altro all'inferno» (Gazzetta dei Giuristi, 42).
  7. Vedi Holtzendorf, Das Irische Gefangensystem. Leipzig, 1859.—In., Bemerkungen über den gegenwartige Zustand der irische Gefange, 1862.—Crofton, A brief descript of the irische convict., 1863.—In Inghilterra, secondo Du Cane, An Account of the Manner, etc. London, 1872, dopo l'isolamento cellulare di un anno riducibile a 9 mesi, si hanno due soli stadî ciascuno almeno di un anno, che si sorpassano tutti dopo conseguito 6560 marche, e appreso a leggere e scrivere; ogni giorno non festivo può il reo conseguirsene 8 di queste marche coll'assiduo lavoro, ed alla domenica 6 con la condotta; nei due ultimi anni, il lavoro è pagato a 18 e 20 scellini.
  8. Pears, Prisons, ecc., 1872,—Beltrani-Scalia, op. cit.
  9. Vedansi i lavori bellissimi, in proposito, del Beltrani-Scalia (Rivista di discipline carcerarie, 1872-74), implacabile, ma sapiente oppositore dei colonisti penali e che va completamente d'accordo col Tissot, Introd ph. au droit pénal, 1874, p. 305.
  10. Nel 1865 sopra una popolazione di 23.000 ne furono dati più di 100.000 colpi.
  11. Ed infatti, osservava Nocito (tornata 1º giugno 1878) si rubano tra loro il pane, le vesti, persino le scarpe, e dei poveri abitanti nemmeno i chiodi sui muri sono sicuri; nemmeno le sementi che essi vanno a scavare dalle zolle, come provarono appositi processi.
  12. Relazione della Commissione Parlamentare sui provvedimenti di P. S., 1875.
  13. G. Curcio, Delle persone pregiudicate, nell'opera: Delle colonie e dell'emigrazione d'italiani all'estero di L. Carpi. Milano, 1874.
  14. Relazione statistica sui lavori compiuti nel circondario di Torino, del proc. cav. Gallo. Torino, 1878.