Capitolo XVII

Cause del delitto associato.

L’eziologia del delitto associato che è il più importante come il più dannoso merita un apposito studio.

Una prima causa ne è la tradizione.—La maggior persistenza, infatti, tenacia di alcune associazioni malvagie come la mafia, la camorra e il brigantaggio, parmi dipendere, in primo luogo, dall’antichità della loro esistenza, poichè la lunga ripetizione trasforma i nostri atti in abitudine, e quindi in leggi: e la storia ci addita come tutti i fenomeni etnici che ebbero una lunga durata difficilmente spariscono tutto ad un tratto.

Fino dal 1568 esisteva in Napoli la camorra, conoscendosi delle Prammatiche del 1568, del 1572, del 1597, e del 1610, in cui i vicerè spagnuoli, conte di Miranda, duca d’Alcalà, ecc., cercavano di punire «con pene straordinarie, colla galera, il giuocatore e tenitore di case da giuoco, o meglio di baratteria, che cavava illecite esazioni su dette case, ed i carcerati, che, ora sotto colore di devozione a sacre imagini, ora per altra diversa figurata causa, imponevano pagamento agli altri, in poca o molta quantità, commettendo per tal modo crudeli estorsioni».[1]

Certo il Gueltrini trovò la parola camorra, in riguardo alle minute contrattazioni sui mercati, usata in un sonetto del 1712.

Il Monnier osserva, assai bene, che l’etimologia della camorra dimostra la sua origine dalla Spagna e forse dagli Arabi. Camorra in spagnuolo equivale a querela, rissa o disputa; e camorrista a cattivo soggetto; in arabo kumar significa giuoco d’azzardo. Una novella del Cervantes ci mostra aver esistito in Siviglia, fin da quei tempi,una setta affatto simile ai camorristi. Anch’essi prelevavano su ogni furto un’elemosina per la lampada di una santa imagine da loro venerata; anch’essi davano alla polizia una parte dei prodotti; s’incaricavano delle vendette private, non escluso lo sfregio col rasoio; anche fra essi vi erano i novizi, che si chiamavano fratelli minori, e dovevano pagare una mezza annata sul primo loro furto, portare ambasciate ai fratelli maggiori, sia nelle prigioni, sia nelle carceri, ed adempiere agli altri uffici subalterni. I fratelli maggiori avevano un soprannome, e si dividevano, in giusta quota, le somme che gli applicati versavano alla massa comune.

Anche i ladri del Marocco (Arabi e Betari) prelevavano un tanto sulle prostitute.

Associazioni affatto simili alla camorra ed al brigantaggio esistettero in tutti i tempi poco civili; così nel medio-evo, nei Regolamenti delle Stinche ed in quello delle carceri di Parma, B. Scalia trovò accennato a soprusi simili a quelli dei camorristi, specialmente in occasione dei giuochi, e vi si legge come ogni camerata di prigionieri aveva un suo capo, che si faceva chiamare capitaneo o podestà, precisamente come dai moderni camorristi priore; e tanto in queste come nelle carceri di Venezia esisteva l’uso di tassare i nuovi entrati.[2]

Il Don Chisciotte ci dipinge alcuni oziosi che esigono una gratificazione dai giuocatori fortunati, per aver presenziato ai cattivi e ai buoni colpi.—È la missione comune del moderno camorrista.—Ed è curioso il notare che quella mancia viene chiamata barato, precisamente come intitolano le loro equivoche imposte i camorristi.

Anche il brigantaggio, che pure persiste tanto nelle provincie del sud, ha una probabile causa nella tradizione storica, essendosi esso radicato fino da’ tempi antichissimi nell’Italia media e del sud.

Gabriele Rosa l’attribuisce all’antica guerra sociale, che costrinse i nostri agricoltori a farsi pastori nomadi (Su Ascoli Piceno. Brescia, 1869). Nel 1108 in Roma si contavano ogni giorno a centinaia i furti e gli omicidi, nel 1137 delle città intere erano preda di assassini, p. es. Palestrina.

«Banditi nel Napoletano ci furono sempre, scrive Giannone(Lib. IV, cap. 10), in coda agl’invasori greci, longobardi, svevi, saraceni, angioini, albanesi, ladroni gli uni degli altri, crudeli e rapaci del pari».

Nel 1458, i mercenari stranieri espulsi da Giovanna I divennero briganti, rubando e penetrando fino in Melfi; di poi si posero al servizio dei Baroni del Regno, che se ne servirono come di ordinaria milizia.

Religione, morale, politica.—Dove la civiltà non ha ancora ben penetrato, anche le idee di giustizia e di morale non sono abbastanza chiare; quindi si vede la religione farsi alle volte partecipe, istigatrice al delitto (Vedi Cap. X).

Abbiam veduto che, in grazia di una bolla antica, or è pochi anni, il clero di Sicilia componeva a denaro i delitti. Quindi, all’inverso di quanto accade ordinariamente, i preti sonvi spesso complici di delinquenti.—L’avv. Locatelli, in Sicilia, deplora d’avervi veduto, in due anni, ben 8 preti condannati per assassinio: due preti, p. es., uccisero un servo perchè denunziava al vescovo le loro oscenità.

Il Pugliese fu condotto da un prete al saccheggio di S. Giovanni.

A Bari veniva, a spese del brigante Pasquale, celebrata ogni giorno regolarmente la messa dei briganti.

Noi siamo (ripetevano costoro ad un amico di Pitrè) benedetti da Dio: lo dicono li Vangelii de la Missa (Fiabe, III, 1875, p. 50).—Per altri esempi si vedano le pag. 172 e segg.

La morale tien bordone ad una simile religione.

Nella Basilicata, Pani Rossi (op. cit.) sentì spesso chiamare brigantiello dalle madri il loro figliuolo; Crocco era il loro Carminuccio; i ricchi soprannominavano re della campagna Ninco-Nanche.

«La parola malandrino perdè in Sicilia perfino il suo significato, ed invece di un appellativo d’infamia, divenne pel popolo uno di lode, del quale molti onesti popolani menano vanto. Io sono malandrino significa infatti, per loro, essere un uomo che non ha paura di nulla, e specialmente della giustizia, la quale nella loro mente si confonde col governo, o meglio colla polizia» (Tommasi-Crudeli).

Mancando il concetto vero della morale, ed essendo scemata e quasi tolta la distanza fra lo strato equivoco e lo strato onesto, è cosa naturale che il malandrino trovi un complice nel colono ed anche nei proprietari in mezzo a cui vive, e che riguardano il delitto come una nuova specie di speculazione. E questo, secondo le relazioni dei Prefetti, è il guaio massimo della Sicilia, dove i veri briganti che battono la campagna sono pochi, ma si centuplicano, in date circostanze, coi colleghi avventizii, dove perfino i grossi proprietari si vedono usufruire dei briganti per imporre ricatti, far cassare testamenti, acquistare predominio sui loro concittadini.

Da ciò viene anche la mancata denuncia, parendo questa più immorale che non l’omicidio; sicchè si sono veduti moribondi dissimulare, fino all’ultimo momento, il nome del feritore. Non è l’omicidio che desta ribrezzo, bensì la giustizia. Onde è che anche quando il delitto, per raro caso, è denunciato, non è punito; così su 150 briganti del Napolitano, presi coll’arme indosso, 107 furono prosciolti dal giurì e 7 soli condannati (S. Jorioz).

Così a Trapani si lamenta ancora la solenne assoluzione dei 40 malfattori messinesi; e nel 1874 si assolsero gli uccisori dell’ispettore finanziario Manfroni, malgrado le testimonianze di molti e la confessione degli stessi rei.

«Nel 1877, a Napoli, un Esposito, che, dopo aver assassinato per ordine del capo un ex-camorrista, si consegnò e denunciò alla giustizia (onde stornare dal capo l’accusa), fu accompagnato alle carceri dai battimani della folla che lo coperse di fiori come un eroe. Oso supporre che gli applaudenti fossero commossi tutti, per lo meno la plebe camorrista» (Onofrio).

Riuscendo la giustizia impotente, l’offeso ricorreva necessariamente alla forza del proprio braccio o a quella dei compagni, alla vendetta, quando era questione di onore; o ad una composizione propria, come nelle epoche medio-evali, quando si trattava di oggetti rubati. In Sicilia si paga un tanto, come si vede nel processo del Lombardo, per riavere il cavallo o la pecora rubata; o viceversa, il ladro paga un tanto alla vittima, perchè si accontenti, o non si vendichi, o non reclami il furto; il che dà proprio l’immagine della giustizia primitiva.[3]

Una causa principalissima, che nei popoli poco civili favorisce le associazioni malvagie, è lo straordinario prestigio che ispira ai deboli la forza brutale.

Chi ha veduto una volta un vero camorrista dai muscoli di ferro, dal cipiglio più che marziale, dalla pronuncia con rr raddoppiate, in mezzo alle popolazioni dalle molli carni, dalla pronuncia vocalizzata, dall’indole mite, comprende subito, come se anche non fosse stato importato, qualche morbo simile alla camorra avrebbe dovuto sorgere dalla troppa sproporzione fra quelle individualità energiche, robustissime, e le moltitudini docili e molli. Lo stesso camorrista, involontariamente, cede a questa legge; figlio della forza e della prepotenza, si inchina davanti ad una forza maggiore della sua. Una prova curiosissima di questa influenza si ha in un fatto raccolto dal Monnier. Un prete calabrese, cacciato in prigione per avventure galanti, fu richiesto al suo ingresso della solita tassa dal camorrista; rifiutò, ed alle minaccie del settario rispose che, se avesse un’arme in mano, niuno avrebbe avuto il coraggio di minacciarlo a quel modo. «Non c’è difficoltà, rispose il camorrista», e in un batter d’occhio gli offerse due coltelli: ma dopo pochi colpi egli era freddato: alla sera, il quasi involontario uccisore, che tremava della vendetta settaria più assai che della giustizia borbonica, con sua grande sorpresa si trovò in vece offerto il barattolo della camorra. Era, senza volerlo, stato ammesso fra i camorristi. E così accadde ad un Calabrese che si rifiutò di pagare la tassa, e minacciò di coltello il camorrista (Monnier, pag. 28).

Onofrio: «In Sicilia, scrive, si dice mafioso chi ha del coraggio«.

La camorra è dunque l’espressione della naturale prepotenza di chi si sente forte in mezzo a moltissimi che si sentono deboli.

Ma non è solo la forza dei pochi che la mantiene, è sopra tutto la paura dei molti. Il brigante Lombardo propalava, come i più caldi partigiani delle sue imprese fossero gli onesti proprietari, che per paura di averselo nemico, gli additavano le case dei vicini da derubare: «e non pensavano, continuava egli, che essi alla lor volta sarebbero stati additati da altri; sicchè in complesso ci rimettevano molto di più che se si fossero associati tutti insieme contro di me». Un solo camorrista inerme si presenta, scrive Monnier, in mezzo ad una folla di parecchie migliaia di individui ad esigere il suo barattolo, ed è docilmente ubbidito, più che se fosse un regolare agente delle tasse.—Lo spirito della camorra, scrive Mordini (op. cit.), persiste in Napoli; persiste cioè l’intimidazione davanti ai più sfacciati od ai più procaccianti.

Monnier spiega la grande tenacità della camorra e del brigantaggio nell’Italia meridionale pel predominio della paura; la religione, inspirata dai preti, null’altro era che la paura del diavolo; la politica, null’altro che la paura del re, il quale teneva la borghesia oppressa colla minaccia dei lazzaroni, e gli uni e gli altri, colla paura di una polizia e di una soldataglia spietata. La paura teneva il luogo della coscienza e dell’amore al dovere; si otteneva l’ordine, non rialzando l’uomo, ma deprimendolo. Che ne avvenne?—La paura fu industriosamente usata dai violenti.

Barbarie.—Vi sono poi molte altre piccole circostanze, le quali tutte mettono capo allo stato poco civile degli abitanti, che possono influire di molto sul malandrinaggio, perchè offrono maggiori facilità agli agguati ed ai ricoveri; tale è, per es., l’abbondanza delle foreste: così le foreste di Sora, Pizzuto, S. Elia, della Faiola, della Sila, furono sempre il centro del brigantaggio, come in Francia quelle d’Osgier, Rouvray, ecc. Per ragioni, press’a poco analoghe, le località deserte di abitanti e non rannodate tra loro da buona viabilità, vi influiscono assai. Nella nostra Italia vediamo il brigantaggio sfuggire innanzi alle ferrovie, e non aver mai perdurato dove sono molte e buone strade, e dove spesseggino le borgate; per es., la provincia di Siracusa, che è la più ricca di strade della Sicilia, non ha malandrini; la Basilicata, che ha la peggiore viabilità del Napoletano, dove 91 Comuni su 124 erano privi di strade, nel 1870, era la più infestata dai briganti (V. Pani Rossi, op. cit).

Cattivi governi, ecc. Anche nel Veneto, fino ai tempi napoleonici braveggiavano i così detti buli, che disponevano a loro grado della volontà degli altri, pel solo terrore che sapevano diffondere fra i più.

Nel Messico pochi anni fa i figli di famiglie nobili non credevano derogare facendosi aggressori di strada, come nel 1400 in Parigi e nel 1600 nel Veneto.

Negli ultimi anni del papato di Clemente XIV si registrarono 12.000 omicidi di cui 4000 nella capitale.

Per conoscere a quali tristi condizioni fosse scesa la società di questi tempi, basterà notare come i più gloriosi nomi della Repubblica Veneta fossero pubblicamente banditi, per colpe ignominiose. Ne citerò solo alcuni. Morosini, Corner, Falier, Mocenigo.[4]

«In un reclamo all’imperatore delle comunità di Castiglione, Medole e Solferino contro Ferdinando II Gonzaga, si prova con testimonianze come i sicari del principe assassinassero poveri contadini, ne spiccassero la testa dal busto, esponendola in una gabbia di ferro sulle mura di Castiglione; come gli arcieri gonzagheschi appiccassero il fuoco alle cascine ed ai fienili, saccheggiassero case, derubassero denari, animali, masserizie, tagliassero e sbarbicassero filari di viti, gelsi e altre piante.

«Nella stessa Repubblica di San Marco, che, pur senilmente infiacchita, conservava riputazione di severità, erano frequenti le iniquità dei banditi e, specie nei due ultimi secoli, riuscivano molte volte vani i provvedimenti, le leggi, le minaccie, i gastighi. Nella città, ove risiedeva il governo, le violenze poteano reprimersi con sufficiente energia, ma in terraferma la vigilanza dei Rettori era meno efficace, e l’impunità avea radici, che i decreti, per quanto severi, del governo non poteano estirpare.

«Nel Veneto se un nobile commetteva qualche delitto, la giustizia, chiamiamola pure così, mandava subito fuori bandi contro i riottosi, che turbavano la quiete della città, ma il popolo, eludendo le leggi, teneva i banditi in conto e li proteggeva, e il nobile soverchiatore trovava un rifugio sicuro nel suo castello, ridendosi della forza pubblica, dileggiando, tra il clamor delle orgie, ordini e magistrati. I quali magistrati poi, nobili quasi tutti, dopo aver snocciolato decreti e sentenze contro una sequela di delitti, dopo un gran fracasso di minaccie, mettevano ogni cosa nel dimenticatoio, giacchè la stessa forza legale finiva col riconoscere le impunità, gli asili, i privilegi di alcune classi. Non avea forse affermato colle armi il diritto di asilo, lo stesso Residente della Repubblica veneta a Milano? Difatti una mattina il bargello di Milano co’ suoi sbirri era passato dinanzi alla casa del Residente veneto, il quale, per punire tanto ardimento, fece scaricar fucilate, da cui parecchi sbirri rimasero feriti o uccisi».[5]

Finalmente, qualche cosa di affatto simile, se non alla camorra, certo alla mafia siciliana, esisteva pochi secoli sono, al tempo di Cartouche, a Parigi. I ladri vi si erano organizzati in bande, che avevano dei centri d’azione nelle stesse guardie di polizia; contavano i loro pseudo-uscieri, le loro spie; si erano affigliati tutta una popolazione di osti, facchini, orologiai, sarti, armaiuoli, perfino di medici.

Nel 1500 in Francia, i mazzuolatori, i Borgognoni, gli Zingari, erano delle vere sêtte brigantesche, composte di antichi soldati di ventura, di vagabondi, i quali, a mano a mano che la società si raffinava, che le strade si aprivano nei centri grossi di Parigi, si ritiravano ai boschi di Rouvray, Estrellère, ove i fuggiaschi alla guerra civile andavano ad ingrossarli (Vedi Vol. II, pag. 494).

Ma perchè, qualcuno chiederà: «Se in tempi antichi queste associazioni criminose esistevano dappertutto, perchè la pratica loro si conservò solo in alcuni paesi (Napoli), e si spense negli altri?». La risposta è trovata pensando alle condizioni poco civili del popolo e del governo sopratutto, che manteneva e faceva ripullulare quella barbarie, che è prima e perenne sorgente delle malvagie associazioni.

«Finchè i governi si ordinano a sêtte, sentenzia assai bene d’Azeglio, le sêtte si ordinano a governi». Quando la posta regia frodava sulle lettere; quando la polizia pensava ad arrestare gli onesti patriotti, e trafficando coi ladri, lasciava libertà ad ogni eccesso nei postriboli e nell’interno delle carceri la necessità delle cose contribuiva a proteggere nel camorrista chi poteva mandarvi un plico sicuro, salvarvi da una pugnalata nel carcere, o riscattarvi a buon prezzo un oggetto rubato, od emettervi, in piccole questioni, dei giudizi forse altrettanto equi e certo meno costosi e meno ritardati di quelli che potevano offrire i tribunali.

Era la camorra una specie di adattamento naturale alle condizioni infelici di un popolo reso barbaro dal suo governo.

Anche il brigantaggio era spesso una specie di selvaggia giustizia contro gli oppressori. Al tempo della servitù in Russia, i moujik, indifferenti alla vita, provocati da sofferenze continue di cui niuno si preoccupava, eran pronti a vendicarsi coll’omicidio, come ben ci mostrò già il canto rivelatoci da Dunon. Non v’è (dice il noto autore dello studio sulle prigioni in Europa) famiglia grande di Russia che non abbia un massacro dei suoi nella sua storia di famiglia.

La mancanza di circolazione dei capitali, e l’avarizia, spingevano i ricchi dell’Italia meridionale ad usure e malversazioni contro i poveri di campagna, che non sembrano credibili. A Fondi, scrive il Jorioz, molti divennero briganti in grazia delle angherie del sindaco Amante.—Coppa, Masini, Tortora furono spinti al brigantaggio dai maltrattamenti impuniti dei loro paesani.—I caffoni (diceva alla Commissione d’inchiesta il Govone) veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge.—Il sindaco di Traetto, che si spacciava per liberale, bastonava per istrada i suoi avversari, e non permetteva loro di uscire alla sera.—Le questioni che nascevano fra i ricchi e i poveri, per la divisione di alcune terre appartenenti ad antichi baroni, il cui possesso era dubbio ed era stato promesso a tutti, ed in ispecie ai poveri coloni, gli odi che dividevano i pochi signorotti dei comuni dell’Italia meridionale, e le vendette esercitate contro i clienti degli uni e degli altri, furono cause precipue del brigantaggio. Sopra 124 comuni della Basilicata, 44 soli non diedero alcun brigante; erano i soli comuni, dove l’amministrazione era ben diretta da sindaci onesti.—Dei due comuni, Bomba e Montazzoli, vicini a Chieti, il primo, ove i poveri erano ben trattati, non diede briganti; mentre il secondo, ove erano malmenati, ne fornì moltissimi.—Nelle piccole terre dell’Italia meridionale, osserva assai bene Villari, vi ha il medio-evo in mezzo alla civiltà moderna; solo che invece del barone despotizza il borghese.—A Partinico, città di 20,000 anime, si vive in pieno medio-evo, perchè i signorotti tengono aperta una partita di vendetta che dura da secoli.—a San Flavio due famiglie si distrussero a vicenda per vendicare l’onore.

«Abbiamo sempre in Sicilia, scrive il Franchetti, una classe di contadini quasi servi della gleba, una categoria di persone che si ritiene superiore alla legge, un’altra, e questa è la più numerosa, che ritiene la legge inefficace ed ha innalzato a dogma la consuetudine di farsi giustizia da sè. E dove la maestà della legge non è conosciuta nè rispettata, saranno rispettati i rappresentanti di essa? Il pubblico impiegato in Sicilia è blandito, accarezzato finchè gli autori dei soprusi e delle prepotenze sperano di averlo connivente, o almeno muto spettatore delle loro gesta; è insidiato, avversato, assalito, combattuto con tutte le armi, non appena si riconosce in lui un uomo fedele al proprio dovere.

«Dopo l’abolizione della feudalità, continua altrove il Franchetti, se non era mutata la sostanza delle relazioni sociali, ne era bensì mutata la forma esterna. Avevano cessato di essere istituzioni di diritto la prepotenza dei grandi ed i mezzi di sancirla; le giurisdizioni e gli armigeri baronali. L’istrumento che conveniva adesso di adoperare per i soprusi era in molti casi l’impiegato governativo o il magistrato. E ad assicurarsi la loro connivenza non bastava la corruzione, conveniva inoltre adoperare una certa arte. La stessa doveva adoperarsi per acquistare o conservare l’influenza su tutti coloro, che la loro condizione economica non rendeva addirittura schiavi. La violenza brutale dovette in parte cedere il posto all’abilità e all’astuzia.

«… Ma non perciò era esclusa la violenza almeno nella maggior parte dell’isola; nulla era venuto ad interrompere le antiche tradizioni, e rimanevano sempre gl’istrumenti per porla in opera.

«Rimanevano gli antichi armigeri baronali mandati a spasso, oltre a tutti gli uomini che avevano già commesso reati, od eran pronti a commetterne, e che non potevano non essere numerosissimi in un paese dove era tradizionale la facilità ai delitti di sangue, e la inefficacia della loro repressione. Se non che adesso, i primi come i secondi, esercitavano il mestiere per proprio conto, e chi avesse bisogno dell’opera loro, doveva con loro trattar volta per volta e da pari a pari» (Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Firenze, tip. di G. Barbèra).

Armi.—Un’altra circostanza è la facilità di portare e maneggiare armi. I gladiatori, sotto i Romani, furono i più terribili capi briganti; giunsero a convertire le masnade in vere armate. È da notare che «in tutto il mezzogiorno d’Italia, dice Tommasi-Crudeli (pag. 73), cominciando dalla campagna di Roma, il coltello, piuttosto che un’arma proditoria, è la spada del popolo. Quasi sempre, infatti, l’uso del coltello è preceduto da una sfida formale. L’abitudine di questi duelli è così radicata, che durante il rigorosissimo disarmo della popolazione siciliana, operato dal Maniscalco, in ogni quartiere di Palermo v’erano dei ripostigli praticati nei muri e conosciuti da tutti i popolani del quartiere, nei quali erano nascosti due coltelli, a cui si andava a dar piglio in occasione di rissa. Veramente il coltello non viene adoperato in Sicilia per ferimenti proditori; ordinariamente per questi vengono riserbati i rasoi e le armi da fuoco».

Ozio.—E, figli più spesso della barbarie, vi possono molto l’ozio e la miseria, che sono pure le cause di tanti crimini comuni. Tutti convengono, che l’infierire della mafia in Sicilia, sia dovuto, specialmente, all’influenza dei conventi, che distribuendo le zuppe, favorivano il pullulare dell’ozio. Cessate le zuppe, i neghittosi divennero mafiosi. La mafia, dicono tutti i prefetti, è un prodotto dell’ozio; dove si trovano oziosi, che vogliono vivere senza lavorare, ivi è la mafia. A Palermo non esisteva pochi anni fa alcun opificio, tranne la fonderia Orotea e la fabbrica di tabacchi. I ricchi non mettono in circolazione i loro capitali; il popolo non trova da impiegarsi, e quando è arrivato a prendere un piccolo posto, ne è geloso, per tema che qualcuno gli venga a prendere lo panuzzo (Locatelli, op. cit.).

Certo in grazia dell’ozio, preti e frati entrano sempre come parte e causa di malandrinaggio; il Napoletano, nel XVIII secolo, contava, su 4 milioni d’abitanti, 115,000 ecclesiastici, di cui quasi la metà frati; ogni villaggio di 3000 abitanti avea almeno 50 preti. Noto che nel gergo dei camorristi l’ordine era detto ubbidienza, proprio come nel gergo dei conventi. I preti faceano dell’accattonaggio un mestiere, spesso un’opera meritoria.

Una delle cause maggiori del brigantaggio e della camorra, dice assai bene Monnier, era l’abitudine diffusa fra i popolani di Napoli di far crescere i figli fino dal terzo anno in mezzo alle vie, accattonando e giurando per tutti i santi di esser orfani e di morire di fame: il mendicante si trasformava presto in borsaiuolo; cacciato in prigione, se vile, diventava una vittima; se forte, un affigliato della camorra.

E certo complice dell’ozio era il dolce e fecondo clima di Napoli, e più, di Palermo, istigatore alla quiete ed alla dimora sulle vie, che fornendo a poco prezzo i viveri (anche ora a Palermo con pochi centesimi si hanno tanti fichi d’India da saziare la fame di un adulto), con faceva sentire il bisogno e il dovere di lavorare.

Ed ecco una delle ragioni perchè nelle capitali tutte, e più in quelle dei paesi meridionali, vediamo più frequenti le associazioni malvagie, senza dire che in queste le passioni più violente vi rendono, come altrove vedemmo, più frequente una data serie di crimini.[6]

Ricordiamo ancora, quanto a proposito delle ambizioni ignobili, dell’avidità poltrone, favorite dal clima, ci additava Rocco De Zerbi.

«La debolezza dell’Italia è alle ginocchia, è alle gambe, ai piedi; il male, il male vero e profondo è qui. L’idealismo ha poca presa dove fioriscono gli aranci; e non dobbiamo dimenticare che in questo paese degli aranci non è mai nato alcun poeta (il Tasso avea sangue bergamasco). L’idealismo rimane sulle onde e sotto il zeffiro del firmamento, in queste provincie di pseudometafisici, dove ciascuno, appena si è infarinato di quattro vecchie e astruse formule Vichiane, corre di galoppo verso la laurea o l’impiego. L’idealismo non ha presa in questo paese di avvocati, dove s’apprende fin dalle scuole a riscaldarsi a freddo ed a rendere gli argomenti e la splendida intelligenza così elastici da poterli far servire a ogni tesi. L’idealismo, contrariamente al pregiudizio comune, è vasto patrimonio dei forti popoli settentrionali, che si strema e si rimpicciolisce a misura che s’avvicina al dilettuoso suolo del dattero e del banano.

«La tendenza nostra ereditaria non è già l’entusiasmo per un principio, per un programma, per un’idea, per un’opera d’ingegno; no; la tendenza nostra ereditaria è il materialismo politico. E non un materialismo politico grande, magnifico, che mostri la forza di chi lo concepì, nelle sue proporzioni; non il tammany-ring, non il mob, non la vasta e tempestosa corruzione americana; non il Rio grande non il Mississipi, non il Savannah, non James, non il Potomak, non il Delaware…, no—il nostro materialismo è un Sabato; il nostro materialismo è il voler pagare dieci lire di meno l’anno all’agente delle tasse, o avere un posto nei R. Lotti, o una tabaccheria, o un impiego al Banco di Napoli, o una croce di cavaliere della Corona d’Italia, o qualche migliaio di lire con nessun rischio o poca fatica, e, pei più rispettabili e delicati, il non aver fastidi e l’essere riveriti e rispettati da tutti. Non siamo di altro capaci che di piccoli guadagni, di meschini desideri, di ridicole vanità. La nostra è la corruzione per cinque lire o per la croce di cavaliere che valgono lo stesso,—in mezzo ad una mollezza generale e ad un’assenza completa d’attenzione e di precisione.

«Questo è pur troppo l’ambiente: cuore senza calore, cuore di lucertola; popolo senza tribuni, popolo mussulmano; aristocrazia senza superbia, senza forza—ed ora senza danaro—aristocrazia dell’ebetismo; uomini che fanno il mestiere d’aver ingegno; pianeta spento che percorre la sua orbita per forza d’inerzia;—siamo, in una parola, oves-gregge».

«Oves: è un male; ma non è il peggio; e potrebb’essere un bene. Il vero e il più grande male è: essere oves non habentes pastorem.

Queste medesime greggi apparvero Titani, appena pochi uomini le spinsero innanzi e fecero la rivoluzione del 1860.

Le moltitudini sono eserciti di zeri; nulla, se manca l’unità—l’uomo o la classe dirigente degna di governare—»l’uomo nel Cesarismo, la classe nel governo libero».

Una prova, pur troppo evidente, che la formazione delle associazioni malvagie dipende dall’adattamento all’indole od alle condizioni di un paese, l’abbiamo nel vedere ripullulare spontanea la mafia e la camorra, anche dopo la distruzione od il sequestro dei suoi membri.

Nel 1860-61 a Napoli si inviarono a domicilio coatto molti camorristi; malgrado ciò, la camorra, per un momento domata, ripullula, ora, più fiera che prima, minaccia i consigli elettorali, l’arbor vitæ del nostro paese.

La mafia annientata nel 1860 in Palermo, nel 1866 ritornò armata e potente.—La camorra annientata nel 1874 dal Mordini, ritornò nel 1877 sotto il regime di Nicotera, e forse si installava negli uffici più elevati della città—certo ne fu la grande elettrice.

V’ha di più; a Messina nel 1866 la camorra fu distrutta letteralmente, coll’uccisione di ciascuno de’ suoi membri, non meno di 29; ma gli uccisori stessi, dopo quell’eccidio, entrati in fama di forti, se ne prevalsero per camorreggiare peggio dei primi, arrolando fra le proprie schiere i pochi sfuggiti alla morte.

Miseria.—Si è parlato molto dell’influenza della miseria. Le dipinture, che ci ha dato il Villari sulle miserie del nostro popolo del sud, sono tali da farci terrore.

«In Sicilia, scrive egli, altra relazione tra i contadini e i loro padroni non v’è che quella dell’usura e della spogliazione, di oppressi ed oppressori. Se viene l’annata cattiva, il contadino torna dall’aia piangendo, colla sola vanga sulle spalle. E quando l’annata è buona, gli usurai suppliscono alla grandine, alle cavallette, alle tempeste, agli uragani. I contadini sono un esercito di barbari nel cuore dell’isola, e più che contro il governo, insorgono sempre per vendicarsi di tutte le soperchierie e le usure che soffrono, ed odiano ogni governo, perchè credono che ogni governo puntelli i loro oppressori.

Negli Abruzzi vi è il sistema di mezzeria, ma nei tempi di cattivo raccolto, il contadino si sottomette all’usura del 12%. S. Jorioz racconta di una donna che pagava al suo padrone per ogni scudo imprestato 5 grani, ossia il 240%.

«Nelle Puglie i contadini stanno quasi tutto l’anno nei campi, venendo chi ogni quindici, chi ogni ventidue giorni a rivedere in città la moglie. In campagna vivono in cameroni a terreno, dormendo in nicchie scavate nel muro intorno intorno, sopra un sacco di paglia. Li comanda un massaro, che somministra ogni giorno a ciascuno un pane nerastro, del peso di un chilogramma, che si chiama panrozzo. Questo contadino lavora dall’alba fino al tramonto; alle 10 del mattino riposa mezz’ora e mangia un po’ del suo pane. Alla sera, cessato il lavoro, il massaro mette sopra un gran fuoco, che è in fondo al camerone, una gran caldaia, in cui fa bollire dell’acqua con pochissimo sale. In questo mezzo i contadini si dispongono in fila, affettano il pane, che mettono in scodelle di legno, in cui il massaro versa un po’ dell’acqua salata con qualche goccia d’olio. Questa è la zuppa di tutto l’anno, che chiamano acqua-sale. Nè altro cibo hanno mai, salvo nel tempo della mietitura, quando s’aggiungono da uno a due litri e mezzo di vinello, per metterli in grado di sostenere le più dure fatiche. E questi contadini serbano ogni giorno un pezzo del loro chilogramma di panrozzo, che vendono [276]o portano a casa per mantenere la famiglia, insieme con lo stipendio di circa 132 lire all’anno, con di più un mezzo tomolo di grano e mezzo tomolo di fave, che loro spetta, secondo il raccolto. Questi sono i contadini che più facilmente si danno al furto ed alle grassazioni» (Villari).

Che, tuttavia, la miseria non abbia tutte quella importanza che vi volle attribuire il Villari (molta ne ha certo), spicca subito, dal pensare che il circondario di Palermo, di Monreale è certo uno dei meno poveri della Sicilia; che ivi, anzi, i mafiosi più colpevoli spesseggiano fra le persone benestanti[7]; che Napoli, ove ha sede esclusiva la camorra, non è certo in peggiori condizioni della Calabria, della Capitanata. Ed Artena è uno dei paesi poveri della provincia di Roma.—Quanta miseria non domina nelle infelicissime campagne della Lombardia, dove il pane del campagnuolo non è solamente acre, come quello di Foggia, ma putrefatto, e contiene un veleno peggiore forse della segale cornuta; e, pure, è spesso il suo solo compenso che, anzi, gli è tolto il giorno in cui cada ammalato?[8] D’altronde la camorra, come sopra vedemmo, coglie più vittime che complici fra i poveri di Napoli, e la miseria a pari condizione deve essere ben minore, dove l’uomo è vestito, si può dire, e nutrito di sole, che non laddove alle necessità del cibo s’aggiungono quelle del riparato abituro e del vestiario.

Ibridismi sociali.—Ma più ancora che la scarsa civiltà di un paese, vi influisce, sinistramente il cozzo contraddittorio, le mescolanze della poca o della troppa civiltà; come, p. es., in alcune regioni d’Italia ed in molte dell’America, dove si vedono popoli tutt’altro che appieno inciviliti, sotto un reggimento, il cui modello è preso a prestito dai popoli più civili. Da questa assurda mescolanza, proprio come da quella delle acque dolci colle salse, sorge un gravissimo danno, in ispecie quanto alla criminalità, poichè, al pari che nell’esempio citato, mentre mancano i vantaggi delle due condizioni, se ne hanno i danni moltiplicati. Così i grandi agglomeri, le maggiori ricchezze, l’alimentazione più lauta aumentano i vagabondaggi, gli stupri ed i furti, e ne rendono men facile la rivelazione; mentre la giurìa, il rispetto alla libertà personale, la facilità delle grazie rendono, spesse volte, quasi impunito il delitto; e le leggi elettorali, in ispecie, quando, come in America si estendono fino all’ordine giudiziario, gli offrono un nuovo strumento di potenza e di disonesti guadagni. Così si è veduto, ora, la camorra estendere le sue fila sulla stampa, sulle elezioni dei consiglieri provinciali, forse anche dei deputati, ed in America dei giudici; col che i tristi ottenevano, pur troppo, un doppio vantaggio, l’immediato guadagno prima, e l’affidamento della propria immunità dopo.

Guerre.—Vi hanno causa grandissima i perturbamenti politici, le guerre e le sedizioni. In queste circostanze, gli agglomeri aumentati, le passioni eccitate, la facilità di avere armi, la minor vigilanza od energia del governo, sono cause naturali alle associazioni del mal fare, le quali si ingrossano o diventano audaci a tal punto da convertirsi in veri avvenimenti politici; come sono le stragi di Alcolea e delle Comuni di Parigi, quelle attuali del Messico, o della Nuova Orleans, di S. Miguel, e, fra noi, gli eccidi di Pontelandolfo e di Palermo. Questi avvenimenti, diventati ora straordinari, erano i fatti più comuni dell’epoca antica.

Nel medioevo le oppressioni dei baroni avevano dato al brigantaggio il colore di istituzione sociale, in una difesa o vendetta dei vassalli contro i padroni, i quali alla loro volta riguardavano la rapina un nobile mestiere.

Il decennio dopo la restaurazione di Silla fu l’età d’oro dei ladri e dei pirati in Italia (Mommsen, R. Geschichte, 3-53).

Nel 1793, a Parigi in occasione della distribuzione gratuita di pane, s’agglomerarono tanti vagabondi e malfattori, che si dovette pubblicare un avviso ai forastieri, perchè non uscissero di notte, se non volevano essere derubati. I ladri giungevano all’audacia di asserragliare le strade maestre con corde. Carlo di Rouge era capo di una banda che saccheggiava le grandi cascine presentandosi come commissario della repubblica e vestito del suo uniforme.

Durante la guerra napoleonica, vicino ai paesi invasi, eravi un’armata brigantesca, l’armata della luna, composta di falsi soldati e falsi ufficiali, che saccheggiavano i vinti e i vincitori (Vidocq). Altrettanto avvenne, qui, al tempo delle invasioni degli Unni, dei Goti e dei Vandali. Recentemente, quando il Borbone ritiravasi a Roma, il brigantaggio infierì negli Abruzzi; come quando esso erasi rintanato in Sicilia, nel 1806, infierì nelle Calabrie; e quando, sotto Murat, il mestiere del brigante era divenuto pericoloso, i Borboni sbarcarono nelle Calabrie i galeotti di Sicilia. Chi più rubava era il più ben accolto dal re. «Gli atti nefandi, scrive il Colletta, perdendo così la loro natura, e il delitto divenendo una sorgente d’industria, se ne infestò tutto il reame». Anche nell’alta Italia, molte erano le bande sorto sotto il dominio di Napoleone, in parte per causa delle leve.

E ciò non parrà strano a chi sappia l’indole immorale della guerra.

Non so quale stupida leggenda fa credere anche ai più o meno serii pensatori che la guerra sia moralizzatrice, e ve n’hanno molti che nel vedere la corrente di corruzione che va innalzandosi ogni giorno più, fino ad affogarci, invocano la guerra a suprema moralizzatrice come un uragano che spazzerà il sudiciume morale che ci inquina, ma essa appunto come l’uragano sarà ben facile che esso ci faccia del male, ma non è possibile che ci faccia del bene.

Lo Spencer in quel bellissimo studio sulla Morale in cui tanti dei portati della nuova scuola sono intravveduti, mostra che i popoli bellicosi furono e sono i più immorali.

«I Carens (pag. 121), egli scrive, popolo in perpetuo antagonismo con tutte le altre tribù sono crudelissimi». Gli Afridi, altra razza Indou guerriera di cui si dice: «Un Afrido è di solito in lite coi nove decimi dei suoi parenti», ha mancanza assoluta di senso morale. [279]I furti vigliacchi, gli omicidi commessi a tradimento e a sangue freddo, sono per lui il sale della vita.

Fra i Fidii, dice Williams[9], se si dà un rimedio a un indigeno malato, egli si crede in diritto di reclamare dei viveri, e se gli si dànno i viveri di reclamare dei vestiti, e così tutto quello che a lui viene in mente; e se non gli si concede qualcosa si crede in diritto di ingiuriarie e far violenza: è un popolo guerriero.

Ecco gli effetti della guerra per quanto riguarda l’umanità. Vediamo ora quella sulla generosità.

«I Fidii, dicono i viaggiatori, non conoscono che la generosità ispirata dalla vanità».

I Dacota sono interessati, avari, non dànno niente se non sanno di ricavarne il doppio.

I Nagua, poi, non hanno una scintilla di generosità, sono vili, traditori, assassini—e son tutti popoli guerrieri.

I popoli pacifici invece sono ospitali, dolci. Passando dagli Annamiti cristiani e guerrieri, alle tribù pacifiche della montagna[10], ci sentiamo riconfortati: lo straniero è sicuro di trovarvi larga ospitalità; subito ammazzano in suo onore un porco e gli presentano la coppa dell’amicizia. La stessa differenza trovò fra i Malesi e i Fakun.

Quanto alla giustizia è naturale che debba scarseggiare in costoro, in cui tutto sta nella forza del pugno, e il duello al più era il miglior giudice.

Dai primordi della civiltà, è solo man mano che il regime militare ha cessato di predominare, che i rapporti fra i cittadini sono andati conformandosi all’equità e alla giustizia: i popoli guerrieri, i Fidii, i Dacota, i Negritos, non ne hanno idea; questi ultimi, se è loro ammazzato un uomo, ne uccidono un altro di una tribù vicina, anche se non ha niente a che fare coll’omicida. I Todas, invece, gli Has, tribù ancora allo stato primitivo, ma pacifiche e laboriose, sono [280]piene di rispetto per le donne, onesti, veritieri. Un Wedda (tribù pacifica dell’India) non sa neanche concepire che un uomo si impadronisca di qualcosa che sia d’altri.

Fra gli Hos e i Lethos l’individuo provato reo di furto, si uccide da sè.

«Di tutti i flagelli, scriveva Erasmo, la guerra è il peggiore, perchè ha sui costumi degli uomini un’influenza più dannosa che sulle loro persone ed averi».

«La guerra, scrive Franklin, riunisce le più grandi truffe nelle forniture, le gesta più triste dei briganti, col furto, collo stupro, colla devastazione e l’incendio. Salvo gli antichi Romani, nessun popolo s’arricchì colla guerra. Nelle guerre tutte, principiando da Troia, il furto è il grande scopo. Gli orrori più grandi vi si commettono senza rimorsi; niuno arrossisce di commettere i più comuni delitti: si gioca, infatti, a chi più brucia ed uccide».

È dunque provato che la crudeltà, la ingiustizia, la mancanza di senso morale, la tendenza al furto vanno per lo più (vi è qualche eccezione, gli Spartani, p. es., i Germani antichi) incontrandosi nei popoli più dediti alla guerra, mentre le migliori virtù, la giustizia e la moralità, s’incontrano, fino dai tempi antichi, fino tra i selvaggi, nelle tribù pacifiche.

Ciò è naturale perchè gli istinti messi in giuoco dalla guerra non sono che quelli della prepotenza, della cupidigia, della ferocia. Sono tutti gli istinti più egoistici e più bestiali, e guerre infatti si dànno, non solo nei popoli primitivi, ma più nelle bestie. Ora, come possono le risultanze e gli sfoghi cumulati degli istinti più tristi, dare risultanze morali? Sarebbe come dire che a furia di fare il brigante l’uomo divenisse morale, più morale del pacifico lavoratore, o meglio ancora di colui che consuma parte del proprio a pro degli infelici.

La storia naturale ci insegna che anche sugli infimi strati zoologici ove si andarono formando le istituzioni militari, si andò comprendendo il danno immenso di queste caste immobilizzate, a non altro pronte che a ferire: nelle termiti, il nostro Grassi, un geniale zoologo, ha osservato che esse hanno bene una casta di soldati, i quali non hanno altra occupazione che di proteggere colla forza gli operai della tribù, ma, prima di tutto, questi li mantengono assai male, colle loro feci (e a simile prezzo manterrei io pure 20 corpi d’armata): ma non contenti di ciò, quando essi sorpassano un certo numero determinato, 1 soldato su 14 operai, poco fraternamente li uccidono nella notte, non conservando che quegli indispensabili alla difesa.

Non sarebbe il caso che le razze europee andassero a scuola dalle termiti?

Partiti e dissenzioni civili.—E naturalmente più sinistramente influiscono quelle vere guerre intestine che provocano le lotte troppo vive di classe, o di partiti.

Lo spirito settario, benchè animato dalle più pure intenzioni, converte spesso in nucleo malvagio l’associazione; lo vedemmo pei frati in genere, lo vedemmo testè in Ravenna, e più ancora, assai addietro nel Napoletano, dove la camorra certo ha preso piede anche in grazia della diffusione straordinaria che v’ebbero sul principio del secolo le sêtte dei Carbonari e dei Calderai in cui eran divise quasi tutte le classi colte; e ciò direttamente, quando armavano la mano (come nel 1828 a Salerno) di sicari comuni per iscopi politici, e più, indirettamente, promovendo l’andazzo ad associazioni segrete.

Recentemente, in Sicilia, la reazione borbonica si serviva della mafia, come i rivoluzionari tentarono servirsi della camorra.

«In tutte le rivoluzioni di Palermo, scrive Tommasi-Crudeli, una parte rilevante è stata rappresentata dalla gente manesca e facinorosa, spintavi dall’odio ai dominanti, ma più ancora dai suoi istinti anarchici, e dall’idea che libertà significasse cessazione dell’impero della legge.

«Nè il loro concorso era rifiutato dagli onesti, tanto più che l’entusiasmo generale conteneva i pravi istinti di quella gente ed eccitava i più nobili, che, in uomini d’una razza così fiera come la siciliana, non periscono mai. Ma poi la bestia si mostrava. Aprivano le prigioni, e coi carcerati si ingrossavano le squadre, si imponevano al governo, facendo più o meno prevalere una bestiale anarchia, di cui approfittava il Borbone, come avvenne nel 1820, nel 1849. Nel 1860 avvenne pure egualmente, e la mafia, sollevatasi con Garibaldi, formò squadre, aprì le prigioni, passeggiò armata, e compì efferate vendette per entro Palermo. Ma il prestigio di Garibaldi fu più forte di essa, e furono disciolti. Tentava poco dopo, gittarsi al partito d’azione, ma ne venne respinta, e nel 1866 essa compare armata, e domina per sette giorni in Palermo, come reazionaria, in occasione dell’abolizione delle corporazioni religiose» (Op. cit.).

I camorristi nel 1860 salvarono Napoli dal saccheggio; impedirono, quando furono trasformati da Liborio in poliziotti, i piccoli delitti, assai più che l’antica sbirraglia borbonica; ma a poco a poco divennero alla lor volta i soli malfattori; organizzarono il contrabbando per terra e per mare, sotto apposito capo; con un tributo ai camorristi, i carrettieri non pagavano più nulla ai gabellieri. Fuvvi un giorno, in cui le gabelle delle porte di Napoli non produssero al municipio che 25 soldi. E quando e’ si videro spodestati e decimati da Spaventa, si diedero all’opposizione, minacciarono rivoluzioni in Napoli, iniziarono (1862) aggressioni, rivolte audacissime nelle città.

Emigrazione. E non poco sfavorevolmente vi influisce L’emigrazione che abbiamo visto causa sì grave della criminalità sporadica. L’emigrante rappresenta quella specie di agglomero umano che ha la massima facilità ed incentivo al delitto associato: maggiori bisogni, minore sorveglianza, minore vergogna; maggior agio di sfuggire alla giustizia, uso del gergo; ed i ladri sono quasi sempre nomadi. A Nuova-York il contingente massimo della delinquenza è dato dall’emigrazione, e l’Italia non vi fa la migliore figura.[11] Gli emigranti abbruzzesi formarono il maggior contingente della banda Mancini (Jorioz).—La banda di Fiordispine era in origine composta tutta di stagnai, cerretani, mietitori, merciai ambulanti, i quali, già del resto, si segnalano, pur troppo, anche nel delitto sporadico.

Anche quegli emigranti che più dovrebbero rifuggire dal delitto, come coloro che pellegrinano, solo, per principio religioso, offersero una cifra notevole alla criminalità associata. Il vocabolo di mariuolo par certo derivasse da quei pellegrini di Loreto o di Assisi, che usavano gridare in coro: Viva Maria, commettendo nel medesimo tempo stupri e ladronecci che credevano espiare col pellegrinaggio (Lozzi, Dell’ozio in Italia. Firenze, 1870), il quale riesciva per loro, così, un comodo mezzo al delitto e un altro ancor più comodo per la penitenza, una specie di quella famosa lancia che feriva, ma subito dopo guariva le ferite. Una prova sicura di ciò ho rinvenuta testè in un curioso decreto del Re di Francia datato dal settembre 1732, che richiama altri decreti del 1671 e 1686, emanati appunto per impedire i pellegrinaggi, i quali sono dichiarati causa frequente di gravi delitti.[12]

Forse per ciò i paesi dove hannovi santuari celebri sono in genere, più malfamati, come osservava D’Azeglio ne’ suoi Ricordi.

Capi.—Il trovarsi, in un dato momento e paese dove abbondino gli elementi del delitto, un malfattore di genio, o di grande audacia, oppure di influente posizione sociale, è una delle cause più favorevoli alle associazioni al mal fare. Così le bande di Lacenaire, Lombardo, Strattmatter, Hessel, Maino, Mottino, La Gala, e Tweed devono l’origine e la lunga impunità alla grande intelligenza dei capi.

Il Cavalcanti era un brigante di tanto genio che quasi tutti i suoi gregari, più fortunati dei generali d’Alessandro, divennero terribili capi briganti; come Canosa, Egidione, ecc.

La banda di assassini ed incendiarî di Longepierre sfuggiva ad ogni indagine, perchè era organata e protetta dallo stesso sindaco del paese. Il Gallemand, cogli incendî si vendicava degli avversari amministrativi, o rinviliva il prezzo dei beni, di cui voleva far acquisto.

Carceri.—Ma la principalissima fra le cause è la degenza nelle carceri che non siano costrutte a sistema cellulare. Quasi tutti i capi malfattori: Maino, Lombardo, La Gala, Lacenaire, Souffard, Harduin, eran fuggiaschi dalla galera, e scelsero i loro complici fra quei compagni che vi avevan dato prova di audacia o di ferocia.

La prima origine della camorra è nelle carceri. Essa dapprima non padroneggiava che colà; ma quando, sotto il re Ferdinando, nel 1830, molti galeotti, per grazia regia, vennero posti in libertà, pensarono di trasportare i guadagni ed il costume delle carceri, a cui si erano abituati, anche nella vita libera (Monnier, pag. 58). E pochi anni sono, la camorra sceglieva i suoi capi fra i carcerati della Vicaria, ed i camorristi liberi non prendevano deliberazione importante senza essersi intesi con questi.—La camorra, distrutta dovunque in Napoli dalla mano potente del Mordini, pur perdura ancora nelle carceri che furono la sua prima culla.—La stessa parola mafia è un prodotto delle prigioni. A Palermo, scrive un acuto osservatore[13], i malfattori d’azione si fanno nelle carceri giovandosi di elementi nuovi solo quando non ne possano fare a meno per date imprese. La maggior parte degli affigliati alla banda che derubò il Monte di Pietà di Palermo proveniva dalle carceri. Il vecchio brigantaggio napolitano si reclutò fra i molti galeotti messi in libertà dalle frequenti grazie regie, non meno di 19 in 30 anni (1760 al 1790).—Le analogie singolari negli usi ed anche nelle denominazioni dei gradi fra gli accoltellatori Ravennati ed i camorristi mi fanno credere che i riti di quelli sieno stati ricopiati da questi, che certo li appresero nelle carceri, come i riti dei malandrini siciliani furono importati dal Lombardo, sulla falsariga della camorra carceraria di Calabria.

E tutto ciò è naturale a chi ricordi i lugubri versi dei malfattori Palermitani (V. sopra): la carcere è una fortuna che il cielo vi invia, perchè vi insegna il luogo e i compagni del furto. Noi, precisamente quando crediamo vendicare e difendere la società colla carcere, somministriamo ai delinquenti i mezzi di conoscersi, di istruirsi e di associarsi nel male.

Influenza della razza.—Più sopra abbiamo toccato della grande influenza della razza sul delitto; è quindi naturale che debba influire sulle associazioni (V. vol. II).

Gli Zingari si potrebbero chiamare, in genere, come i Beduini, una razza di malfattori associati.—Negli Stati Uniti il negro (secondo A. Maury), nell’Italia meridionale l’Albanese ed il Greco pare influiscano in un senso analogo, e, qualche volta, anche l’indigeno; St. Jorioz scriveva, per esempio, parlando di Sora: «Di ladri formicola questo bel paese; ve ne sono tanti quanti sono gli abitanti.» (V. sopra), il che spiegherebbe come riuscissero eletti dei briganti a consiglieri del comune.—Gli abitanti di Castelforte e di Spigno proteggono i ladri, col patto che rubino fuori del loro paese.—Gli [286]abitanti dei dintorni di Palermo, fra cui formicolano i mafiosi, discendono dagli antichi bravi dei baroni (Villari); e rimontando più in su, dai rapaci arabi conquistatori, confratelli dei Beduini (V. s.). —Ho osservato, scrive D’Azeglio parlando dei Romani, che negli antichi feudi del medio-evo (Colonna, Orsini, Savello) è rimasta nella popolazione l’impronta di quella vita di odio, di guerre, di parteggiare continuo, che era vita normale di tutto l’anno in quei felici secoli; vi si trova fra i giovani quasi generale il vero tipo del bravo (Bozzetti della vita italiana, pag. 187).

Eredità.—Codeste questioni di razze, è facile a capirsi, si risolvono in una questione di eredità.

Fra i moderni briganti meridionali ve n’erano alcuni che discendevano dal terribile Fra Diavolo. Molti tra i famosi camorristi sono fratelli, come per es., i Borelli, e sono noti i sette fratelli Mazzardi di Cannero, i fratelli Manzi da Cerro, i Vadarelli, i La Gala, ed in Nord-America i fratelli Youngas che giunsero a svaligiare in pieno giorno le banche pubbliche del Minnesote. La banda di Cuccito, quella di Nathan erano tutte composte di parenti, fratelli, cognati. Qui oltre l’influenza dell’eredità, che può raffinare nell’arte del male come in quella del bene, oltre l’influenza della tradizione, dell’educazione, si aggiunge, anche, l’aiuto materiale del numero. Una famiglia di malfattori è una masnada già bella e formata, e che ha, col mezzo delle parentele, il modo di ingrossare e di eternarsi nei figli (V. sopra).

Nel 1821, le comuni di Vrely e di Rosières erano funestate da furti e assassinî, che mostravano una conoscenza del luogo ed una audacia non comune. Il terrore impediva le denuncie; finalmente la giustizia colpiva i colpevoli, che appartenevano tutti ad una famiglia. Nel 1832, vi si ripeterono i furti; ne erano autori i nipoti dei primi arrestati.—Nel 1852 e fino al 1855 si rinnovarono continui assassini nelle stesse comuni. Gli autori n’erano sempre i pronipoti dei primi, che mettevano capo a quei Chretien, Lemaire e Tanre di cui demmo sopra a pag. 191 lo strano albero genealogico.

Questo ci mostra assai bene perché in un dato villaggio troviamo un continuo risorgere e raggrupparsi di delinquenti. Basta colà sia sorvissuta una sola di queste famiglie malvagie perfezionatasi nel male per l’affinità elettiva che i criminali hanno fra loro (v. s.), per corrompere, in breve, tutto il paese; ed ecco giustificata, fino ad un certo punto, la barbarie degli antichi e dei selvaggi, che punivano, insieme ai colpevoli, anche gli innocenti loro congiunti.

Altre cause.—I delinquenti si associano, spesso, per necessità, per poter reagire alla forza armata, o per sottrarsi alle indagini poliziesche, portandosi in punti lontani dal loro soggiorno, benchè siasi notata costante, in quasi tutti i malfattori associati, la tendenza a compiere le loro gesta intorno alla zona del proprio paese.

Si associano, anche, per completarsi a vicenda nelle speciali attitudini, come Lacenaire che era vile, con Avril feroce e sanguinario; e Maino e La Gala che erano coraggiosi, ma ignoranti, con Ferraris e Davanzo che sapevan di lettere.—La maggior parte essendo vigliacchi, cercano nel compagno quel coraggio che manca loro naturalmente.

Si aggiunga, che per molti il delitto è una specie di partita di piacere, che mal si può godere da soli.

Alle volte l’associazione ha origine da un puro accidente: p. es., Teppas uscendo dalle carceri, si dà a svaligiare un ubbriaco; ma appena iniziata l’impresa, si sente chiamare da Faurier, che vuol dividere il bottino;—da quel momento nacque la banda Teppas.

I più piccoli accidenti, dice Mayhew, sono cause del formarsi delle bande di ladruncoli in Londra; p. es., il trovarsi nello stesso quartiere, nella stessa contrada, il portare il medesimo nome; l’essersi incontrati, all’uscir dalle carceri.

L’abate Spagliardi ben giustamente fa avvertire, che precipua causa dei malandrinaggi lombardi sono i ritrovi dei monelli in dati siti; p. es., in Milano, in piazza Castello, all’Incoronata, ritrovi spensieratamente tollerati come innocui dalla polizia; ed ecco un’altra delle cause per cui la camorra domina solo in Napoli e cessa fuor delle sue porte.


  1. Vedi Mordini, Relazione al R. Ministero, Roma, 1874.—Monnier, Sulla Camorra, 1861
  2. B. Scalia, Storia della riforma delle carceri in Italia, 1868, pag. 288.
  3. Vedi Du Boys, Histoire du Droit criminel, 1860.
  4. P. Molmenti, I banditi della repubblica di Venezia. Firenze, R. Bemporad e figlio, 1896.
  5. Op. cit.
  6. «Secondo me, scrivemi Vincenzo Maggiorani, la mafia rappresenta lo stato acuto di una malattia, che più o meno invade tutti i popoli che vivono più vi cino all'Oriente o ne derivano; p. es., nella mia mente i fatti che accadono periodicamente nella Spagna non sono che una forma diversa dello stesso male. Niente di simile troverai nell'Europa Nordica; una linea isotermica segna le linee di questo temperamento», ecc.
  7. Questo fa riconosciuto dalla diligentissima Relaz. della Commissione d'Inchiesta; op. c.
  8. Per es. alla Cascina del Ticinello, detta con lugubre antonomasia La Mantova. Vedi la mia Inchiesta Agricola, Milano, 1875. Recentissimo indagini, che completano i miei studi tanto combattuti sul mais, dimostrano esservi un alcaloide, che presenta tatti i caratteri chimici e fisiologici della stricnina (Vedi mio Trattato clinico della pellagra. Torino, 1895.
  9. Williams, Fije and the Fijians, I, 128.
  10. Among the Shans, 160.
  11. Su 49.473 arrestati a Nuova York, 32.225 erano emigranti, di cui il 16% illetterati. Barck, The Dang. Classes, 1871. Su 38000 detenuti in America, 20.000 erano figli di stranieri (B. Scalia).
  12. Crediamo utile darne il tenore: «Sua Maestà, avendo richiamate le dichiarazioni del fu Re suo bisavolo, agosto 1671 e gennaio 1686, che proibiscono (sotto pena di galera perpetua contro gli uomini, e di quelle altre pene afflittive contro le donne, che parranno ai giudici d'infliggere) ad ogni suo suddito di andare in pellegrinaggio a San Giacomo in Gallizia, a Nostra Donna di Loreto e in altri luoghi fuori del Regno, senza un permesso espresso da Sua Maestà, contrassegnato da uno dei suoi segretari di Stato, sulla approvazione del Vescovo Diocesano. «Sua Maestà essendo informata che, malgrado questi ordini, molti dei suoi sudditi trascurano di domandare il permesso od abusano in vari modi di quelli ottenuti; e sotto il pretesto specioso di devozione abbandonano le loro famiglie, i parenti, i padroni, le professioni, i mestieri per darsi ad una vita errante, piena di ozio e di libertinaggio, che li porta spesso al delitto: «Che altri sortendo dal regno nella speranza di stabilirsi altrove con maggior utile, uon trovano poi nè i vantaggi, nè i soccorsi che avrebbero nella loro patria quando vi tenessero una buona condotta; e la più parte muoiono di miseria sulla strada, o corron rischio di esser arruolati di buon o mal grado nelle truppe delle potenze vicine; «Che spesso accade anche che dei soldati in servizio di Sua Maestà si mescolano fra questi vagabondi, o col favore del loro numero disertano; Sua Maestà giudicando necessario, per il bene del servizio e per quello del pubblico, di fermare il corso di questi disordini, togliendo il pretesto che li fa nascere, fa espressa inibizione a tutti i suoi sudditi, a qualunque età, sesso e condizione appartengano, di andare in pellegrinaggio a San Giacomo di Gallizia, a Nostra Donna di Loreto e di Monferrato, ed altri luoghi fuori del suo dominio, e qualunque siane la causa o il pretesto, e ciò sotto pena di galera perpetua per gli uomini, ecc., ecc. «Dichiarando nulli e di nessun effetto tutti i permessi che furono in precedenza accordati».
  13. Avv. Locatelli, Op. cit.