Parte Seconda

Noemi, permettimi di scriverti. Ho bisogno assoluto di parlarti, di difendermi, se è proprio vero che delle tristi cose accadute sia in parte io il responsabile. Ti assicuro che inutili disquisizioni e facili filosofemi saranno da me evitati. Ti parlerò solo dei fatti. Tu saprai certamente ch’ella è morta. Si è avvelenata la mattina del nostro ultimo colloquio. Quando tornai a casa subito dopo, ella giaceva composta nel suo letto, col viso coperto da un fazzolettino ricamato. Sulle prime credetti che dormisse: ma attraverso la trasparenza del fazzoletto si vedeva il suo viso come di pietra livida: sul comodino una boccetta di veronal vuota. Compresi tutto. Moltissime volte, anche la notte avanti, ella aveva minacciato di uccidersi. Io non ci credevo, ancora non posso credere ch’ella sia morta di sua volontà.
Aveva riposto accuratamente le sue vesti, la sua calzatura: aveva una lunga camicia da notte, come in una sua fotografia da bambina, un nastro bianco intorno ai capelli. Tutto era in ordine, nella camera; tutto silenzioso. Provai la stessa impressione che si ha nei cimiteri, in qualche angolo verde e ombroso dove, sopra una lastra che pare di neve, un angelo di marmo vigila con un dito sulle labbra sottili. Silenzio: non disturbate i dormenti. Eppure tentai di rianimarla. Ella rimase fredda, rigida, bianca e scalza, simile in tutto all’angelo della morte.
Chiamai subito un medico, per telefono, senza neppure avvertire la cameriera. Venne il medico e constatò la morte per avvelenamento. In un attimo, non so come, come si spande un odore di incendio, la notizia si diffuse per il palazzo, per la strada, per la città. Rifiutai di aprire alle persone che suonavano alla porta; ma bisognò aprire agli agenti e al funzionario della giustizia: fui sospettato, fermato in casa, interrogato. Ore di mortale umiliazione. Per fortuna, sinistra fortuna, fu rinvenuto il suo testamento, scritto pochi momenti prima del suo sonno mortale. Dichiarava di uccidersi perché tormentata dalla paura d’impazzire: lasciava a me la legittima del suo patrimonio: il resto per la costruzione di opere pubbliche nel suo paese natio; possibilmente, prima di ogni cosa, di un argine per frenare la fiumana che ogni tanto inonda i campi e rovina i contadini poveri. Io, esecutore testamentario. Era, forse, questa, una forma di castigo e di espiazione per me. Ed io ho accettato. Il testamento non è del tutto valido: ad ogni modo io sono qui, nel suo paese, per difendere la sua ultima volontà.
Ed anche lei è di nuovo qui. L’ho ricondotta, col suo vestito bianco, coi capelli annodati come il giorno della sua prima comunione: scalza ha rifatto la lunga strada dalla città pestilenziale al silenzio puro delle alte colline in mezzo alle quali si culla al rumore della fiumana il suo paesetto di contadini, di cacciatori, di carbonai. I suoi parenti, i nonni, i genitori, sono venuti ad incontrarla, hanno accompagnato i funerali, senza salutarmi. È giusto. Adesso ella riposa tra la vecchia parrocchia e la villa dei suoi, nel piccolo cimitero dove fioriscono le viole selvatiche, e gli uccelli non hanno paura di amarsi. Ha raggiunto la pace che non poteva trovare in vita, ed io vorrei non parlarti più di lei per non turbarla oltre.
Intanto io abito presso un contadino il cui campo è periodicamente allagato dalla fiumana: eppure egli non lo ha mai voluto abbandonare; anzi s’è costruito da sé, anno per anno, una specie di terrapieno, intorno alla sua casa: ha cioè addossato ai muri del pianterreno i tronchi, i detriti, la sabbia, la ghiaia e il fango portati dalla corrente, in modo che il piano sovrastante è ormai al sicuro del pericolo; così l’abitazione ha l’aria di un piccolo fortilizio preistorico, con una scaletta esterna, di assi e di pietre, una porticina verso occidente, le finestruole alte con sportelli tutti di un pezzo.
Le camere sono due, e guardano a oriente, verso la fiumana, che adesso è calma e lambisce appena il campo del mio padrone: la cucina, grandissima, serve di ingresso, di dispensa, di legnaia, e anche, all’occasione, per dormirci: c’è un camino che sembra una grotta, col fuoco sempre acceso. Ghirlande di cipolle violette, di piccoli pomidori che sembrano imbalsamati, di salsiccie nere, decorano il soffitto, e l’antica madia graffita nasconde la farina come un tesoro inestimabile.
In una delle camere abito io: e non mi manca nulla di quello che può bisognare a un eremita di lusso: coperte di lana, tavola per scrivere, lenzuola con enormi cifre rosse, e l’asciugamano casalingo che graffia il viso come un gatto carezzevole. Il soppedaneo me lo sono dovuto comprare io; perché quello che c’era non mi convinceva (prima di me c’è stato un altro inquilino); l’ho trovato nel bazar del paese; è una specie di aiuola di lana verde con un bordo di margheritine rosa; e nel bel mezzo sdraiato un mansueto cane fulvo che mi fa guardia e compagnia.
Del resto non mi mancano le più strette comodità: ho a mia disposizione un gabinetto che pare un osservatorio astronomico, con un impianto idraulico – l’acqua non manca di certo, – che i castelli medioevali avrebbero invidiato: e ci si può fare il bagno caldo, con la buona volontà della signora padrona e della sua capace caldaia per il bucato: d’estate, poi, c’è la fiumana, con la relativa spiaggia di sabbia vellutata. Ma l’estate è lontana…..
Ho scelto questo posto, come punto, dirò così, di studio; ma ho anche una specie di ufficio, nel centro del paese, tra la farmacia, la cartoleria, la posta e il macellaio; nella piazza, infine, dove, dietro una fila di casette nuove, basse, s’affaccia la vecchia casa comunale, nera e corrosa. Ha una tradizione: dicono ci sia stato Machiavelli e, in ultimo, Garibaldi in fuga verso l’Adriatico.
Nel mio ufficio non posso lavorare stabilmente, perché ancora devo fare alle competenti autorità la domanda del permesso legale per la costruzione dell’argine; ma già ricevo qualche postulante per l’impresa dei lavori.
Passo buona parte della giornata qui, nella casa sull’acqua. Posto di studio, ho detto. Anzitutto uno studio di me stesso: poiché sono anch’io come questi luoghi devastati, queste acque irregolari e violente che hanno finora portato dolore e rovina senza averne colpa, per fatalità della natura. Ho bisogno anch’io di argini, che regolino il corso della mia vita e la rendano benefica e feconda.
Questa casa del vecchio contadino, Paolo Maffei detto il Palo, che ha vissuto sempre in lotta con gli elementi, che considera suoi nemici personali l’acqua, il gelo, il vento, la tempesta e la siccità, ed anche il terremoto; ma non ha mai abbandonato il suo posto, anzi ci si è fortificato dentro, e non cede un millimetro di terra neppure alla furia della corrente, questa casa è quasi simbolica.
E che pace, in questi primi giorni di tregua, di promesse di una stagione migliore! Mi sembra di essere anch’io come i semi sotto terra: c’è buio, c’è odore di sepolcro entro di me; eppure non è la morte; e forse il germoglio della vita vincerà ancora.
Il vecchio Paolo ha settantadue anni, ma è ancora dritto e forte, direi anche virile, capelli grigi intatti, i denti sani, il viso rugoso colorito come i suoi pomidori invernali; gli occhi neri vivi e furbi, sono quelli di un uomo che ha conosciuto il bene e il male. La moglie ha venti anni meno di lui, ma sembra più vecchia, a giudicare dal poco del viso che si vede nella nicchia di un grande fazzoletto giallastro che le avvolge sempre la testa: la punta del naso ossuto e un occhio scialbo da idiota. Ancora non ho sentito la sua voce: sempre china sul focolare pare non abbia altra preoccupazione se non quella di tenere il fuoco acceso: in realtà cucina; fa il caffè, la polenta, le focacce senza lievito, cuoce le castagne e le patate fra la cenere; gioca con le brage come i bambini con le pietruzze della strada. Il vecchio lavora nel campo; ha una distesa di rape e di verze che è il suo orgoglio e la sua ricchezza. Niente animali in casa, – per via delle alluvioni, – egli dice con coraggio. – Non si possono tenere nel piano di sopra. E poi, che me ne faccio? Il somaro sono io, il cane sono io. Il porco, va bene, è comodo; ma se dò da mangiare a lui, non ne resta per noi.
La quiete quindi è completa, qui, finché almeno non si sveglia il leone della fiumana: il silenzio, a volte, è quasi allucinante. Da quando ci sono io non ha mai soffiato il vento; ed è fortuna perché quando piove, e spesso a dirotto, l’acqua vien giù compatta, come una cascata che guai se dovesse sbattersi di traverso. Allora la fiumana s’ingrossa e si gonfia, con un rumore cupo che pare sotterraneo, come se l’acqua, invece di precipitare dai declivi dell’orizzonte, sgorghi dal sottosuolo della valle, per un effetto quasi vulcanico; e si allarga rapidamente, dando ai campi un aspetto di lago turbolento: poi si ritira d’un tratto, come è venuta, ma lasciando i segni terribili del suo passaggio.
Adesso siamo in uno stato di armistizio; il tempo è tiepido, sciroccale, ma senza vento; si ha l’illusione di essere al principio della primavera, e le nuvole bianche, ramate, sopra i monti di là delle colline sembrano alberi in fiore; qui però tutto ancora è spoglio, e i fusti dei pioppi, in certi tratti d’acqua stagnante, emergono scuri e umidi come alberi di imbarcazioni naufragate.
Il vecchio guarda dalla porta della cucina il pezzo di terra, verso la strada comunale, cioè il più alto del suo campo, dove ha seminato il grano; e spera in Dio.
– Anche nei piattini, a Pasqua, per ornare il Sepolcro di nostro Signore, spunta il grano, senza terra, ma solo con un po’ d’acqua. Spunterà anche qui.
Io gli dico:
– Eppoi quest’anno la raccolta, per voi, sarà buona poiché il terreno vi sarà espropriato per la costruzione dell’argine: a buon prezzo: ed anche la casa.
Egli non risponde; ma neppure si turba. Egli spera in Dio.
E tuttavia sarà necessario snidare di qui questa brava gente: ne provo rimorso, ho quasi vergogna di essere venuto ad abitare presso di loro, a introdurmi nella loro vita come un verme nel frutto sano. Sana è la vita di questi umili che hanno per amico il sole, e credono, sebbene non ci pensino troppo, in una esistenza futura, ancora più felice di questa. Vivere al loro contatto fa bene: s’imparano molte cose, più che dai libri anche se esemplari.
Verso sera è il vecchio Paolo che attizza il fuoco; e a questo solo chiarore la donna, dopo aver meglio legato il fazzoletto sotto il mento aguzzo, impasta la farina e compone una focaccia sulla quale stende qualche sottile fetta di lardo. La fa cuocere in una padella nera, che ella tiene sempre avvolta nella carta, e l’odore del lardo fritto, dice il vecchio, fa ballare i topi della soffitta. Questa è la cena, condita d’acqua fresca: se ci sono le castagne arrostite, dorate e fragranti come pasticcini, la festa è completa. Ho regalato ai miei ospiti un fiasco di vino, e il vecchio s’è messo a cantare pezzi d’opera, come un baritono da grammofono sfiatato.
– Una volta, – racconta, – sono andato a Roma, a piedi, in cerca di lavoro. Volevo fare il giardiniere, o il guardiano di qualche bosco. M’immaginavo tante cose straordinarie. E appena arrivo, stanco, coi piedi macerati come in un mortaio, mi investe un temporale, con vento furioso: e una tegola mi cade sul capo spaccandomi una tempia. Ah, Cristo Signore! Questa era la bella accoglienza della capitale d’Italia. Mai più Paolo ha rimesso piede dove non sia terra sua, gente sua, mestiere suo. Qui sono nato, qui voglio morire. Se vossignoria mi porta via il campo e la casa, ebbene, c’è un campo, lì accanto alla parrocchia, del quale nessuno ci può espropriare.
– Ma, – prosegue, dopo il secondo bicchiere di vino, mentre io mi scaldo le spalle davanti al focolare, –vossignoria crede forse che la mia vita sia stata sempre quella del gatto domestico? Oh, senta, ogni uomo ha la sua storia, e la mia è che con la mia prima moglie non si andava d’accordo. Aspra lei, come una mela acerba, aspro io come un ramo vecchio spinoso. Lei aveva diciassette anni; io trentatre anni più di lei. Faccia un po’ il conto. Poi c’era un’altra cosetta: un suo cugino, rosso e lungo, veniva troppo spesso a gironzolare da queste parti. Pareva la volpe. Allora erano sorbe, che la ragazzina si pigliava da me. Che vuole mai? La natura non si può cambiare. Allora un giorno lei mi scappa di casa e torna dai suoi. Furono brutti giorni e brutte notti, finché non riuscii a sorprenderla col rosso, nella castagnaia. Il miserabile fuggì: lei, la presi per i capelli, e giù, botte da orbi. Ma fu un guaio il peggiore di tutti; poiché l’infelice si ammalò e, dicono, morì per lo spavento. I parenti mi fecero causa; fui assolto, ma per molto tempo, e ancora adesso sogno la ragazza travolta dalla fiumana, coi capelli che si tirano appresso i fuscelli, i rami, i pesciolini. Fu la volta che andai lontano, in cerca di lavoro. Ma il Signore mi rimandò a casa: la casa l’avevo affittata a questa donna qui, che ci viveva col genitore. Mi presero a dozzina; il vecchio morì, la donna rimase mia: e tale è ancora. E il Signore ha messo una pietra sul passato.
La donna, tranquilla, non smette di mangiare; non pronunzia una parola, ma si è allargato il fazzoletto sulle orecchie, come per sentire meglio. L’uomo la guarda; con uno sguardo dritto che pare un raggio di luce: e comincia a parlare bene di lei, commosso, ma di quel turbamento artificiale che dà il vino: finché lei, finalmente scatta, e con voce di gelosia dice:
– Ma va là, Paolone; mi hai sposato perché io ti svegli, alla notte, quando fai i cattivi sogni.
Ecco Noemi: la vita dell’uomo, anche di quello che sembra il più lineare, ha il suo tempo di inondazione devastatrice: poiché ogni uomo, ripete il vecchio Paolo, ha la sua storia.
Al contrario di quest’abitazione palustre, il mio ufficio, nel centro del paese, dunque, è circondato di movimento e spesso, nei giorni di mercato, di allegro chiasso. È uno stanzone a pian terreno, fra la succursale di una piccola banca, la farmacia, l’ufficio postale e altri locali d’importanza per la vita cittadina. La piazzetta è, dopo tutto, uno spiazzo terroso, a volte fangoso; non manca però di alberi, di panchine, e, nell’angolo, la vetrina di un caffè con belle torte e scatole di cioccolattini. Il paese è civile: il macellaio tiene, sul suo banco di marmo, un vaso di fiori freschi; i cestini della fruttivendola sono, anche di questa stagione, coperti di veli rossi. E, gloria e trionfo del luogo, sopra il portoncino di una casa che ha pretese di palazzetto, verdeggia una targa con su scritto a grandi lettere rosse «Circolo della Caccia». Fa piacere guardarla: si pensa ai boschi di castagni e di querce, qui sopra le colline e più in là sui monti; alla vita di sane emozioni dei bravi cacciatori dei dintorni.
Alle finestre dei primi ed unici piani di queste casette che sarebbero il quartiere nuovo del paese, si affacciano le belle ragazze, tutte belle, di bellezze diverse, tutte sorridenti, ma tutte a bocca chiusa perché per lo più hanno i denti guasti, – causa, dicono, l’acqua troppo fredda che qui si beve. Non bisogna credere che queste graziose e civettissime figliuole siano del tutto popolaresche: hanno i capelli corti, ondulati o a boccoli, o perfettamente lisci e aderenti alla testa, ossigenati le bionde, lucidi di brillantina le brunette: e sono tinte fin dalla mattina presto con le sopracciglia rase, le calze di seta: ma scendono nella strada, per la spesa, in ciabatte e zoccoli, e poche sanno parlare bene l’italiano. Il loro punto di mira, presentemente sono io, sebbene la signorina della posta, la più tinta di tutte, – una vera oleografia incorniciata dal melanconico finestrino del suo ufficio, – abbia già sparso la voce che io, nonostante la mia recente sventura, sono in corrispondenza con una «ricca signora di Roma».
Gli uomini, invece, sono brutti; assomigliano ai ladroni crocefissi con Gesù; scarni, ossuti, neri ma coi piccoli occhi chiari, color ghianda acerba, la bocca maliziosa e furba. Furbi sono, questi uomini, coi quali ho già iniziato qualche trattativa per i possibili lavori: alcuni, giornalieri e manovali, lavorano intorno a un caseggiato scolastico un po’ fuori del paese; hanno paghe misere, ma da me pretenderebbero addirittura stipendi straordinarî; e c’è, fra di loro, una intesa segreta, quasi una parola d’ordine; quando mi fissano ho l’impressione che sappiano, che conoscano, insomma, lo scopo preciso della mia missione, che è quello di obbedire anch’io ad una parola d’ordine: e pare mi dicano:
– È così: se tu ci vuoi nella tua opera, è necessario pagare caro.
D’altronde non potrei far venire operai di altri paesi, poiché la spesa sarebbe la stessa e qui mi renderei ancora più ostile la popolazione: infine, provo un triste senso di gioia a combattere con questa gente, che è la sua gente; a cercare di ridurla, a instillare nelle loro coscienze un senso di onestà, di fiducia in me e nella mia opera. Qui sta il principio dell’argine: azione umana, che mi riempie di energia, di volontà, anche di bontà.
Illusioni? Saranno, ma illusioni che non fanno male a nessuno.
Ma ho bisogno di aiuto. Oh, Noemi, non ti allarmare; non a te chiedo aiuto: già è abbastanza quello che mi dai, permettendomi di scrivere queste pagine dove fermo, in qualche modo, il mio incessante tormento. Sono dunque andato dal podestà, per i definitivi accordi burocratici. La mia domanda d’offerta per la costruzione dell’argine è già stata inoltrata al rappresentante del Genio civile, e da questo al prefetto della provincia, che a sua volta la inoltrerà al Ministero dei lavori pubblici: ma non è di questo che voglio scriverti; piuttosto del podestà. È un uomo che sento, in qualche modo, affine a me, in senso però, dirò così, negativo: un mancato, un fallito della vita, anche lui, ma senza luce di speranze o d’illusioni che non siano materiali. Questa almeno, è stata la mia impressione dopo un nostro primo colloquio. È giovane, forse giovanissimo; ma a volte sembra vecchio, secondo l’espressione del suo viso: un viso pallido, sofferente, con un largo mento che dimostrerebbe un segno di forza di volontà, mentre il resto del viso è quello di un abulico, con una bocca amara di bambino bastonato, gli occhi castanei bellissimi, sì, dolci, quasi languidi, ma che non dànno confidenza né conforto: gli occhi dell’uomo che guarda solo dentro di sé, e pensa alla sua sorte. Se a me si può interessare, è per quello che lo riguarda, in questo mio affare: ha già capito che per lui non c’è margine di guadagno, che il mio affare è forse campato nel vuoto; – il testamento, mi ha subito dichiarato, non è valido, sebbene la famiglia della povera morta non intenda di opporsi alla sua estrema volontà; – e quindi mi accoglie per semplice forma di cortesia; forse, nel suo intimo, burlandosi di me.
Eppure mi piace: è raffinato, intellettuale: ha studiato fino al terzo anno di lettere, e di tanto in tanto fa lunghi soggiorni a Firenze o a Roma, con la scusa di finire i suoi studî e laurearsi: ma non fa altro che mangiarsi il poco patrimonio che gli rimane, e quando è a corto di denari torna al paese natio. Lo hanno eletto podestà contro il suo volere, – dice lui, – e compie le sue mansioni con una indifferenza che sembra diplomatica e che gli conferisce una dignità straordinaria, agli occhi dei suoi dipendenti. Del resto c’è poco da fare, in questo luogo tranquillo, dove tutti lavorano tenacemente e sono di una sobrietà per non dire avarizia, tradizionale e atavica. Mai un delitto, mai una vicenda contro la legge, mai un furto che non sia appunto legale. Lui solo, con la sua vita alquanto irregolare, fa eccezione. Ma non è nato precisamente qui: il padre era un contadino emigrato in Francia, dove sposò una donna, dicono alcuni, di cattivi costumi: fecero fortuna, e, dopo la morte della moglie, l’uomo, col bambino nato da lei, tornò in paese.
La casa del podestà è, dopo la villa della povera morta, la più bella dei dintorni: e poiché alle undici del mattino egli non era ancora al suo posto, nella casaccia sgangherata dove ha sede il Municipio, ho avuto l’idea di andare a trovarlo nel suo nido. Veramente nido, poiché la villetta si sporge, al riparo di una china piantata a vigna e oliveto, a metà costa della collina, che a sua volta vigila il paese. Percorro la strada che si dirama dalla piazza, e, diventata poi stradone provinciale, scende in dolce declivio costeggiando il fiume, fra macchie e pioppi che cominciano a mettere le foglie: del resto è la mia solita passeggiata, perché non posso percorrere l’altro ramo della strada ad ovest del paese, bella e pittoresca, sempre lungo il fiume, ma che troppo mi fa soffrire: strada sopra la quale, dopo l’antichissima parrocchia si stende al sole il piccolo cimitero dove ella dorme; e più oltre, fra i grandi alberi di un parco, sorge la villa della sua famiglia: e più oltre ancora il convento ove ella è stata educata. Boschi di querce e di castagni s’infittiscono su per le colline intorno, e le ghiandaie e i chiurli, le cornacchie e i corvi li riempiono di gridi e di lamenti. Là il paesaggio è quasi montano, e il fiume, incassato fra due rialti rocciosi, non offre pericolo, anzi pare soggetto alla grandiosità severa del luogo: qui, invece dal paese in giù, la valle si allarga, si distende quasi in prateria: per questa ragione gli abitanti, sedotti dalla facilità del terreno, vi coltivano e seminano, e vi hanno costruito le loro casette, i mulini, i frantoi: ed è qui che ogni anno, anzi più volte all’anno, le acque turbolente, scappate dagli argini naturali, allagano e distruggono ogni cosa. Lasciate appena le ultime case del paese, vedo la fortezza del mio vecchio Paolone: egli è intento a zappettare il campo per la seconda semina delle patate, e la moglie lo segue come la sua ombra. La giornata è mite, azzurrina, con venature di nuvole bianche che sembrano trine: il silenzio è grande, chiaro: si sentono i lontani gridi delle gazze, come ripetuti da un’eco metallica. Lungo il velo dell’acqua, oggi tutta buona, bassa e lucente, i pioppi sono uniti gli uni agli altri da incessanti voli di uccelli. E poiché qui non esiste neppure un ponticello, vedo alcune donne attraversare il fiume camminando di pietra in pietra senza bagnarsi; eppure tutte hanno involti sulla testa, o in mano: una tiene in braccio un bambino vestito di rosso che ride di felicità chinandosi a guardare l’acqua corrente.
Arrivato al bivio, dove la strada si biforca e da una parte prosegue verso una specie di sobborgo abitato solo da contadini poveri, io prendo un viottolo ben tenuto, ben battuto, tanto che ci si cammina meglio che nella piazza centrale del paese, e salgo fino alla casa del podestà. Come dissi, la villetta si affaccia al sole, tutta gialla, con le persiane azzurre, una loggia di marmo sopra il portichetto d’ingresso. Lo spiazzo, davanti, è fortificato come un piccolo bastione, e sul suo parapetto fanno bella mostra decorativa grandi vasi di terracotta di Faenza, con dentro piante grasse, oleandri e cactus, che il gelo ha però intaccato e annerito. Si respira un’atmosfera signorile; si ha un’impressione di quiete, di silenzio, da luogo quasi disabitato. E la donna che mi viene incontro, alta, vestita di nero e col grembiale bianco, parrebbe una cameriera di città, senza il fazzoletto ch’ella porta allo stesso modo della moglie di Paolone. Ha un’aria fiacca, assonnata ma al vedermi si anima tutta; i suoi occhi neri e la bocca fresca, benché sdentata, hanno un sorriso furbo, quasi ironico. Dice, con voce sommessa:
– Il signorino si alza in questo momento ad ogni modo mi dica chi devo annunziare.
Nello stesso momento il signorino appare sulla loggia, in pigiama di flanella azzurra con risvolti di seta: i suoi folti capelli neri, pettinati all’indietro sull’alta fronte bianca, ancora bagnati, hanno un riflesso iridato. Nel vedermi aggrotta le sopracciglia; ma subito si rischiara in viso, e si piega sulla balaustrata come il bambino, giù, sull’acqua corrente. Grida, con una cordialità che mi sorprende:
– Si accomodi, si accomodi: vengo giù subito.
La donna mi fa entrare: la vetrata del portichetto illumina un grazioso ingresso, col pavimento a mosaico e vasi alti di Faenza, per porta ombrelli e bastoni: ce n’è una collezione, di bastoni, col manico di legno lavorato o di osso trasparente come l’ambra. Lo studio, a destra, dove la donna mi prega di accomodarmi, non smentisce le altre apparenze: anzi ha qualche cosa di raffinato, che mi intimidisce: mobili antichi, autentici, un tappeto persiano, lampada e candelabri di chiesa, quadri, vasi, molti libri rilegati nelle nitide vetrine. Nel caminetto di marmo scuro arde il fuoco: ed io resto a guardarlo come se in casa del mio padrone non vedessi continuamente la fiamma viva: ma questa che sorge quieta e quasi immobile, nella sua cornice fredda e nera, mi sembra una fiamma dipinta, pallida, quasi rosea contro al sole che sul tappeto segna un altro tappeto dorato.
Noemi, il ricordo della tua casa mi prende tutto: ho un vago senso di allucinazione, di vertigine: mi pare che invece del podestà debba apparirmi la tua figurina silenziosa e glaciale. È lui che entra, invece, e lo vedo sotto una luce affatto nuova. È giovanissimo, con gli occhi che mi dànno l’impressione di due fiori: neri, ma dorati, e a volte quasi azzurri, forse perché la sclerotica è di un colore perlaceo azzurrino. Anche la sua pelle, finissima, ha questo colore e le sue mani, dalle unghie bianche, delicate, sono fragili come quelle di un malato.
– La ringrazio di essersi arrampicato fino a quest’eremo, – dice, con una certa allegra schiettezza, sotto la quale, però, io sento subito un substrato di finzione e di beffa (e forse egli è allegro appunto perché ha occasione di divertirsi alle mie spalle). Tanto più che io oggi non scendo affatto in quella topaia del Municipio. Devo inoltre… – ma si accomodi, qui, qui, – aggiunge, passando la mano sul velluto dell’angolo del sofà, come per assicurarsi che il posto era buono per me; – si accomodi, e mi dica se gradisce un aperitivo. Francesca, – ordinò avvicinandosi all’uscio vetrato ch’era rimasto socchiuso:
– Cinzano.
Io mi sentivo proprio mortificato. Mi pareva sempre più che l’uomo azzurro, in pantofole di pelle tigrata, mi pigliasse un po’ in giro, o che meglio, si movesse, dandosi tanto da fare, lui che finora m’era sembrato un apatico, un indifferente, per mascherarsi, per apparirmi diverso da quello che realmente era: un attore, insomma.
Finalmente però si ricompose: sedette nell’angolo opposto del sofà, dove io mi tenevo rigido e disilluso, e accavallò le fini gambe nervose, ricoperte di calze di seta grigia che sembravano anch’esse di pelle di rettile. Entrò la donna, con la bottiglia e due calici su un vassoio di metallo: tutto riluceva, in quella casa sospesa fra il chiarore degli ulivi e quello della fiumana corrente: anche i capelli di Francesca, che si era tolta il fazzoletto, erano di un biondo argentato, ritorti intorno alla testa giovanile.
Eppure mi sentivo a disagio: oh, molto più che nella catapecchia del mio vecchio Paolone. Ma il disagio era forse tutto mio, di natura interna, destato dal pensiero che io stavo lì come un postulante, venuto a chiedere una raccomandazione: solo una raccomandazione; poiché l’altra fisima, che il podestà potesse aiutarmi anche moralmente nella mia opera, già era caduta appena avevo veduto il colore del suo pigiama. Anzi, a dire tutta la verità, la mia agile illusione di compiere, con quel famoso argine, un’opera nobile e meritoria, si era d’un tratto appesantita, prendeva anch’essa una nuova fisionomia: sentivo che io mi agitavo solo per me, per l’adempimento del mio dovere: ma per gli altri? I poveri proprietari degli orti e dei campi di patate e di frumentone, e sia pure di barbabietole preziose, s’infischiano degli allagamenti periodici del fiume: anzi il vecchio Paolo affermava che il limaccio, dopo l’inondazione, lasciava una maggior fecondità alla terra: e tutti mi guardavano come un nemico, disposti a difendere ad ogni costo il loro bene.
Ad ogni modo volevo combattere, per la mia impresa, come si combatte, non so, per la fondazione di un ordine religioso, o per un’idea politica; e mi vergognavo della mia incertezza e quasi della mia soggezione davanti a un uomo che certamente non poteva capirmi, quando le sue parole mi diedero, di fronte a lui, un senso di sollievo.
Porgendomi il calice con la bevanda chiara, e accompagnando l’offerta con un sorriso cordiale, disse: – Indovino lo scopo della sua visita: ma nulla so dirle ancora circa le probabilità del suo progetto. Ad ogni buon fine, domani vedrò l’ingegnere del Genio Civile, anche per definire altre questioni, e lo solleciterò. Anzi sarà bene che lei si metta in diretta comunicazione con lui: è un bravo uomo, retto, funzionario dello Stato fino alla radice dell’anima. Oh, e adesso devo dirle un’altra cosa: oggi stesso io ho intenzione di scrivere al prefetto, rassegnando le mie dimissioni da podestà.
Non domandai il perché: ma egli venne spontaneamente incontro al mio curioso interesse.
– Le avranno forse detto, poiché tutto si sa, in questi piccoli paesi, anche quello che non risponde a verità, che io sono uno studente, e come tale, sebbene abbia varcato pur troppo la trentina, ancora una testa matta, per non dire assolutamente uno scapestrato. Ma come si fa a vivere tutto l’anno quassù? Molte circostanze, non del tutto allegre, hanno ritardato i miei studi: ma questa è la volta buona: ritorno a Roma per completare la mia tesi di laurea, e poi, Dio volendo, farò un concorso, troverò un posto di pedagogo, e diventerò anch’io, per la consolazione dei miei cari compaesani, un bravo figliuolo.
Allora io sollevai il calice, in segno di augurio. Egli alzò il suo e disse, ridendo:
– Skoll.
Ma questa parola straniera mi ripiombò in un senso di visione morbosa: e visione fu, tutta pervasa da un segreto brivido, quella casa dove io e lei, nei primi mesi dopo il nostro matrimonio, si alloggiava, apparentemente felici, ubbriacati, sopra tutto lei, da una vita diversa dalla nostra usuale. Era una pensione di lusso, con signori e signore eleganti, di passaggio, quasi tutti stranieri. Anche la padrona era una straniera, intelligentissima e colta, separata dal marito, un artista strambo, che non le dava il necessario per vivere. Ella si mescolava alla vita della pensione, come se lei stessa fosse una signora di passaggio. C’era un grande caldo, negli appartamenti tutti allo stesso piano; e sempre fiori, e sempre nell’aria un profumo misto di molti profumi, di sigarette e di cosmetici: alla sera grande luccichìo di capelli dorati, di gioielli, di vestiti che lasciavano vedere la pelle bianca delle dame: e risate discrete, e brindisi eleganti, e contatto lieve ma eccitante, fra uomini e donne di ogni età e colore. Musiche, e qualche volta canti ricercati, rievocazioni di voci antiche, di passioni romantiche e false, completavano l’atmosfera un po’ viziata ma sognante dell’ambiente. Una delle ultime sere, circa un anno fa, vi fu un pranzo, fra stranieri, quasi tutti nordici: pranzo elegantissimo, sebbene corretto, anzi un po’ rigido, come un pranzo diplomatico: ma ad ogni alzare di bicchiere, fin dal principio, una parola pronunziata a mezza voce, con un accennare d’occhi ridente eppure freddo, si scambiava fra gli invitati, dall’uno all’altro, da un lato all’altro, da un capo all’altro della mensa: con la parola si incontravano gli sguardi, ed era come un incrociarsi, uno svolazzare, un beccarsi di uccelli felici e graziosi, in un clima tiepido, in un giardino quasi misterioso.
Noi si sedeva ad una piccola tavola a parte, con tanti altri pensionati; ma ella non cessava un istante di seguire con gli occhi il movimento del banchetto degli stranieri, come se si trattasse di un gioco o di una rappresentazione: e le sue pupille riflettevano le luci, le figure, l’oscillare fantastico del quadro giocondo. D’un tratto si rivolse a me, rossa, eppure col viso annuvolato: poi rise, sollevò il calice e ripeté, imitando il sommesso accento straniero, con beffa ma anche, parve a me, con invidia rabbiosa, la strana parola che sembrava una parola d’ordine fra iniziati ad una lega di piacere, mentre non è che il nostro semplice innocente evviva.
E la stessa parola, dunque, con lo stesso accento, usciva adesso dalla bocca sarcastica del mio ospite, ed egli non si meravigliò che io, pur ricambiandola solo con un muto gesto d’augurio, la intendessi perfettamente.
Per sviare le vaghe ombre che mi circondavano, gli domandai su quale argomento scriveva la sua tesi di laurea.
Egli depose il calice, vuoto, sul tavolino davanti a noi; poi trasse il porta sigarette e volle offrirmene.
– Grazie, – dico io, ripreso da un senso puerile d’imbarazzo: – non fumo.
E per non essere scortese, sebbene non sia, anche mio uso di bere vino o liquori, trangugio il vermut come una medicina. Egli intanto, chiesto il mio permesso, accende una sigaretta, molto profumata, e dopo la prima una seconda, e poi un’altra e un’altra ancora, mentre pur mi racconta l’argomento della sua tesi di laurea. Non si scherza: si tratta di Pietro Aretino e del suo tempo. L’accento del futuro professore è di nuovo serio e convinto, ma anche un po’ volutamente scolastico, come se egli si trovi già davanti alla Commissione di esami, o parli dalla conquistata cattedra.
Io l’ascolto, senza molto interesse; non però indifferente; e a misura che il fumo livido delle sue sigarette si spande nel sole come un principio di nebbia, il malessere mi riprende, le ombre ritornano: ecco, è lo stesso odore, lo stesso clima della nostra pensione di Roma. Cerco tuttavia di liberarmi, di ridere di me stesso: lo so, limpidamente, che mi trovo sempre in un senso di vano incubo; e che il rimorso del quale ho il sangue intossicato, fa di me un essere più che mai visionario e fuori della realtà: e l’uomo che senza riguardo fuma e parla di altre epoche, di personaggi ferrei e violenti, di cortigiane e di condottieri, di denaro e di lussuria, capisce benissimo con chi ha da fare: ma non ha compassione di me, anzi pare provi un gusto sadico a godersi la mia timidezza e la mia sofferenza.
E forse appunto per questo, smesso finalmente di fumare, mentre ancora però i mozziconi delle sigarette e la loro cenere, nel vasetto di rame dorato, odoravano come un avanzo d’incenso, egli disse:
– Mi duole che la nostra conoscenza sia avvenuta un po’ tardi; ma ho ancora due giorni da restare quassù, e spero che lei vorrà favorirmi, domani sera, di venire qui a pranzo da me, la riaccompagnerò io, in paese, mentre mi recherò alla stazione. Spero.
Anche per me si aprì, per un attimo, il velo della speranza. Perché no? La speranza di un po’ di amicizia, di fede, di confidenza, fra tanta gente che mi si mostra ostile, interessata, o, peggio ancora, indifferente. Sì, ecco che l’aiuto, per il quale istintivamente ero salito alla villetta del poggio degli ulivi, mi veniva incontro: almeno una promessa di questo aiuto. Oh, Noemi, avere un amico! L’amicizia, fra uomo e uomo, è il maggior dono di Dio: più che l’amore, più che il potere. Ed io non l’ho mai avuto, un amico: mai, pur sognandolo come la fanciulla sogna lo sposo. Pensavo: «Quest’uomo, intelligente e vivo, mi renderà forse agevole l’opera che devo compiere: l’opera morale, più che quella materiale. Ci vorrà tempo, ma siamo giovani entrambi e l’avvenire è nostro. Ed io, forse, potrò fare del bene a lui, come lui a me».
Sogni? Ad ogni modo, prima che me ne andassi, egli promise ancora di sollecitare l’ingegnere del Genio Civile per il disbrigo della mia pratica: e poi mi accompagnò cordialmente fino al cancello del suo spalto.
Te lo confesso, Noemi, me ne andai come un po’ ubriaco: di quell’ebbrezza che lascia un incontro d’amore o il vedere il principio concreto di una nostra opera d’arte. Il tempo, la strada, la vista del limpido paesaggio, i gridi di gioia delle cornacchie che s’inseguivano fra le querce del poggio accanto, mi rendevano più agile e bravo: sentivo intorno a me, finalmente, un’aria di perdono.
Arrivo alla mia fortezza palustre. Paolone è sempre al lavoro, con la moglie accoccolata sull’ombra di lui: ella taglia le patate, nodo per nodo, dove questi cominciano a tirar fuori il piccolo corno del germoglio: ed egli le pianta nel solco, umido e molle come una farina scura appena impastata. L’odore della terra e delle radici avvolge queste due creature come un incenso a loro dovuto; e il mio arrivo incrina qualche cosa di quest’armonia naturale, come la mia ombra taglia, spada sinistra di malaugurio, l’ombra accoppiata per terra quasi in atto di amore. Sento la mia voce risonare stonata nel silenzio del luogo.
– È arrivata la posta?
È arrivata: è lassù, nel mio osservatorio, ma non mi affretto a cercarla perché so che non c’è una tua lettera: non c’è, non ci sarà mai e questo è giusto: te l’ho chiesto io, e fa parte della mia espiazione. Può un condannato a vita ricevere notizie che sciolgano la sua catena? Eppure… Ma no, non scuotiamola, questa catena: il suo stridore rompe l’incanto del tempo che passa; e un giorno, presto o tardi, cadrà da sé e la porta del carcere terreno si aprirà.
Melanconie. Domando al vecchio:
– Paolo conoscete il podestà?
Mi aspetta uno sguardo di lui, – non parlo della donna che sotto la capanna del suo fazzoletto sembra non vedermi neppure, – uno sguardo verdolino e furbo che significa: il podestà? E chi lo conosce?
Invece Paolone, senza smettere il suo lavoro, risponde tranquillo:
– Lui no, non lo conosco: è sempre fuori del paese. Ma conoscevo il suo babbo. Era un bravo ragazzo, ma irrequieto: sempre nella macchia a prendere nidi, o nell’acqua a pescare le trote. E scappava anche più lontano, con disperazione dei suoi. Poi andò in Francia, trovò lavoro, trovò fortuna. Sposò una donnina, che aveva qualche cosa. Dicono, però, che questa signorina aveva fatto la bella vita: poi, dicono, diventò una brava donna: è morta, di parto, perché era già vecchiotta quando nacque il signor Antioco, il nostro podestà. Il padre poi tornò qui, col ragazzo; lo fece studiare, gli comprò casa e terra. Adesso è morto anche lui. Era un bravo uomo.
Breve il racconto, ma gonfio di spiegazioni. Cose che avevo già sentito accennare, e che in bocca al vecchio prendevano il sapore della verità. La figura del mio nuovo amico risaltava più viva: col colore del padre, quello della madre, con luci ed ombre marcate, senza sfumature. Meglio così. E mi piaceva ancora di più, così mi dava quasi affidamento che, sullo sfondo romantico del poggio degli ulivi, mi sarebbe apparsa una sagoma monacale di santo eremita.
Nel pomeriggio tardo, già sfiorito, grave di quella indicibile tristezza delle giornate serene, già lunghe ma ancora acerbe e fredde, me ne stavo a sbrigare la mia corrispondenza infeconda, quando la Paolona, così avevo preso a chiamarla, bussò all’uscio, del resto socchiuso, e con un fare trepido, nascondendosi, come paurosa di far vedere il suo viso stupito e felice, mi allungò una carta da visita.
Antioco Lante
Oh, il personaggio, da vero gentiluomo, veniva a restituirmi la visita. Confesso che sulle prime mi riavvolse un vapore di sgomento. Dove riceverlo? Quasi mi vergognavo del mio ricovero. Poi mi feci coraggio. Se i miei padroni di casa non conoscevano il podestà, egli ben doveva conoscere loro: e se veniva a cercarmi sapeva benissimo dove abitavo. Gli vado quindi incontro, col mio vestito funebre, e mi sorprende il vedere che anche lui è vestito di nero, con un morbido bavero di pelliccia, che fa più diafano il pallore del suo viso. Ombre azzurre gli cerchiano e ingrandiscono gli occhi. Ha i guanti, la bombetta, il bastone, le scarpe di copale: un’eleganza che mi sembra provinciale e che tuttavia mi desta soggezione. Del resto la sua figura, sullo sfondo grigio della porticina di Paolone, mi dà anche una impressione di fragilità, come quella di una donna o di un essere malaticcio, che ha freddo ma cerca di nasconderlo, che è triste ma lo rivela solo con gli occhi; di uno che ha bisogno di compagnia, di protezione, ma questo bisogno egli tenta di cancellare anche di fronte a se stesso con le righe amare del suo sogghigno. Ecco, dunque, un nuovo aspetto di lui: ma ne provo anch’io un nuovo motivo di simpatia: sento che anche lui è venuto a cercarmi, sotto l’apparenza del galateo, con un intimo desiderio di aiuto: e già qualche cosa ci unisce, in profondità, come le prime pietre delle fondamenta di un ponte: il ponte, forse, che io sogno di costruire sopra questa fiumana della quale entrambi riflettiamo lo scorrere disordinato, oggi buono, domani malvagio.
I suoi occhi, infatti, nel fissare i miei, si accendono come quelli di un povero al quale si dà una grossa elemosina: ed egli entra nella cucina guardandosi intorno con franca curiosità infantile; d’istinto si avvicina al focolare acceso, e si mette a sedere sulla scranna di Paolone, battendo la mano sul seggiolino della donna per invitarmi a prendere posto. Sembra lui, il padrone e la sua mano inguantata mi fa un curioso effetto, sulla paglia bruna affumicata del seggiolino, come mi sembra quasi grottesca, adesso, la sua figura impellicciata, nella luce della rustica stanzaccia. Ma non è tutto un sogno, la nostra vita? Cambiano i quadri, cambiano i colori: da un attimo all’altro può cambiare tutto il nostro destino. Ecco mi metto a sedere, al posto della Paolona, e come lei sento il bisogno di piegare la testa, di nascondere qualche cosa al mio compagno di focolare, frugando fra le brage per riattizzare la fiamma.
Ed è, in fondo, come nella Paolona accanto al marito, un senso di rispetto, di timidezza, forse anche di amore, forse anche di servilità, che mi piega al fianco di Antioco: poiché penso che egli deve conoscere la tragedia, il mio non del tutto involontario delitto, e se è lì, al mio fianco, nel luogo della mia espiazione, significa che mi compatisce, che, se pure lui ha bisogno del mio aiuto, aiuto anche lui mi porta. Siamo, insomma, al posto dei due poveri e tormentati contadini, due poveri tormentati borghesi, che si scaldano allo stesso fuoco. Egli dice:
– Dopo tutto, la vera ricchezza è questa; non le pare? Lo stesso vecchio Paolo, col quale mi sono fermato un momento, giù nel campo dove egli finisce di piantare le sue patate, simili alle nocche delle sue dita, confessa di essere contento. Peccato che lei sia venuto qui a turbare la pace di questa brava gente.
Parlava sul serio? Non so: certo, egli fissava la fiamma con occhi un po’ incantati: si era tolto un guanto, e lo sbatteva per ravvivare meglio il fuoco; e in quel momento un anello con un brillante, che egli teneva al dito medio della mano destra, scintillava come il cerchio d’oro dell’orizzonte estivo col sole al tramonto.
Tentai di contraddirlo, per difendermi.
– Non creda. Paolone, come io lo chiamo, ha pure lui i suoi guai. Può essere contento della semina delle patate, ma questo non basta per guarire il suo intimo tormento: e forse gli farà bene lo snidarlo da questa sua catapecchia.
L’altro non protesta: pare ignori il dramma del mio vecchio padrone di casa: tuttavia prosegue, per conto suo:
– Ad ogni modo, la vita semplice è la migliore di tutte, anche perché è la più igienica e indipendente. Bisogna essere o molto ricchi, e nuotare davvero in questa ricchezza come un bambino alla superficie luminosa delle acque, a riva di un mare sicuro, vigilato dalla madre; o poveri, ma sempre col minimo dell’esistenza materiale, come questi Maffei. Io, per conto mio, se fossi in lei, piuttosto che dar fastidio alla gente, con la costruzione dell’argine, tenterei di restaurare la nostra bella antica chiesa, che è in pessime condizioni. L’ha veduta?
Sì, l’avevo veduta, prima o dopo questo mio ritorno fatale. Sì, una volta, come nelle favole, inghirlandata di rose, parata di damaschi, di arazzi, di tappeti, con l’altare che brillava come il firmamento: e poi, l’ultima volta, triste di crisantemi e di festoni neri bordati d’oro cupo, funebri come il cielo dopo l’uragano distruttore.
Tu mi intendi, Noemi. Risposi:
– Non nascondo che l’esterno della chiesa, sebbene pittoresco, lascia a desiderare: vi crescono persino i capperi. Ma l’interno mi sembra abbastanza conservato: e poi mi dicono che il parroco è tutto dedito alla chiesa e se ne cura in modo particolare.
Il sogghigno tornò, a segnare un marchio buffonesco intorno alla bocca di lui.
– Lo conosce, lei, il signor parroco?
– Mah, lo incontro sempre che va con in mano un fazzolettone per la spesa, come una serva: ci salutiamo e via. Mi sembra certo un po’ strano, allampanato, nero, con gli occhi grandi da fanatico. E la sottana è abbastanza unta e scalcinata.
– È povero, sì, anche lui, perché la parrocchia è una delle più povere del mandamento. Non si può neppure distribuire il battesimo, nella nostra chiesa, poiché il battistero non esiste più. E di questo il parroco piange come un martire. Eppure la pieve fu un tempo ricca e piena di splendore. Adesso, se permette, le attacco un bottone.
– Dica, dica pure, – esclamai ridendo.
Mi accorsi che il mio slancio d’ilarità gli fece piacere: e riprese a parlare con l’accento professorale di quando m’aveva accennato alla sua tesi di laurea.
– La pieve, dedicata a Santo Antioco, probabilmente un santo bizantino, del quale adesso non so darle precise notizie, ha, come lei avrà notato, forma basilicale. Risale, la sua costruzione, al 900. In quell’epoca era certo un gioiello d’arte; e molti venivano a visitarla, e vi si fermavano i pellegrini diretti a Roma e a Gerusalemme. Infatti, avrà notato, sul muro esterno della chiesa c’è un frammento di croce che fa vedere, nel centro, una mano chiusa, con l’indice e il medio alzati: simbolo che benediva e salutava i passeggieri. Ma oltre a questo avrà veduto la lapide che accenna ad un primo restauro, dopo che la chiesa fu RVINATA DA GOTTI. Da alcuni documenti, scampati alla rovina, risulta infatti che papa Clemente VIII concesse sussidî per il restauro, quando «per ingiurie delle guerre e di altre calamità» la pieve era completamente diroccata. Per questa riedificazione furono demoliti i ruderi, il cui materiale fu rimesso in opera: infatti, lei forse avrà notato, nei muri esistenti, pietre diverse, pezzi di marmo, pilastrini antichi utilizzati come architrave nelle finestre; segno evidente che la chiesa primitiva era di antica origine e ben decorata di marmi preziosi, fra i quali uno, dell’antico impero, rimane come piliere dell’acqua santa. La nuova chiesa fu anche decorata di pitture di qualche pregio; e con grande solennità, come risulta dalle lapidi, riconsacrata verso il 1500. Ma un secolo dopo fu, in qualche modo, nuovamente devastata, con trasformazioni barbare, intonachi, chiusura e apertura di finestre: l’antico campanile fu abbattuto, per lasciar posto a quello che attualmente si vede. Poi, secolo per secolo, la chiesa deperì e adesso è di nuovo in miserabile stato. Don Achille, il parroco, fa quello che può, ma ripeto, è povero in canna, come egualmente è tribolatissimo il Convento lassù sopra il borgo, che un tempo dipendeva dalla chiesa: nessuno concede, nonché sussidî, neppure elemosine, anche perché il paese stesso è povero. I pochissimi abbienti, poi, non sono eccessivamente religiosi: vanno a messa, sì, la domenica, anzi c’è una messa speciale per loro, all’albeggiare, nella stagione della caccia, che permette loro di partire tranquilli a massacrare la selvaggina, la passione venatoria essendo qui secolare e inestirpabile. Scusi, lei, forse, partecipa a questa malattia?
– Sì, – dico io, strascicando la sillaba; – ma in forma più grave: la caccia ai sogni.
Egli non si impressiona, anche perché ha già indovinato in me questa infermità cronica. Mi impressiono piuttosto io, quando egli riprende:
– Non c’è, qui, di veramente ricca, che una sola famiglia: la famiglia Decobra; ma non dà un centesimo a nessuno.
Qui egli si fermò, prendendo d’un tratto, un’aria impassibile; anche la sua mano si era ritirata, quasi nascosta, e quindi l’anello non si vedeva più. Avevo una improvvisa sensazione di buio: eppure il mio cuore tremava tutto, come la fiamma nel focolare, poiché la famiglia alla quale egli accennava, è la famiglia di lei.
Noemi, non ricordo più di che cosa si è parlato, dopo. Solo ricordo che in ultimo, dopo che gli ebbi offerto una tazza di caffè, nella mia camera, – lo preparo da me, con una macchinetta a spirito, – siamo usciti assieme, e, quasi istintivamente, almeno per parte mia, siamo andati a vedere la pieve. Era chiusa e, d’altronde, poiché cadeva la sera, forse non era il caso di visitarne l’interno: allora abbiamo guardato la facciata, volta ad occidente, e invero mi prese di nuovo un senso di incantesimo, come se un viso fino a quel momento mascherato si togliesse il velo che lo nascondeva e ci sorridesse con grazia e con amore. Grazia e amore melanconici, anzi austeri, ma infinitamente buoni: divinità della fede. Il colore incerto dei muri era tinto ancora del lieve rossore del vespero, e le due finestre ai lati della facciata davano l’impressione di occhi viventi: una piccola lapide, quasi una targa, è sopra la porta: c’è incastrato il frammento antichissimo della croce, con la mano chiusa, l’indice e il medio alzati a benedire i passanti che sostano sullo spiazzo davanti alla facciata, al margine della strada provinciale. Strada un tempo battuta da soldati di ventura, ma anche da pellegrini diretti a Roma e fino in Terra Santa. Ho desiderio di inginocchiarmi, pellegrino in viaggio di espiazione pur io; non lo faccio, per un timore mondano del mio compagno, ma tutta l’anima mia è piegata davanti a quel segno di pace.
Paolone è tutto rigidamente orgoglioso per la visita del podestà, quasi fosse stata per lui; e mentre prima tendeva a parlare male del signor Antioco, adesso lo esalta e lo benedice.
Siamo seduti, io e lui, davanti al focolare che, per la sua fiamma perenne, mi dà l’idea d’una scaturigine di fuoco naturale. La notte si è fatta fredda, quasi gelida, ma di una lucentezza di cristallo: si sente, fuori, l’esile corrente bisbigliare, di nascosto, innamorata della luna, che la riempie di brividi e di pesci e serpenti di mercurio. La signora Maffei, dopo la parca cena fatta, al solito, al chiarore del fuoco, è già andata a letto; e se il vecchio rimane a farmi compagnia è, anzitutto, perché io lo tento con l’irresistibile fiasco di vino, e poi perché, così almeno egli mi confessa, da qualche tempo soffre d’insonnia.
– Me lo fa tutti gli anni, di questi tempi, quando il grano comincia a venir su: sì, è una specie di lieve febbre, che molti patiscono, io non so perché: forse è l’odore della terra. E poi si ricordano le brutte cose passate.
– Alt! – dico io. – Non ricominciamo con le lamentele. Bevete, e raccontatemi del prevosto don Achille. – Paolo beve, e piano piano si apre come un libro: ed è precisamente per questa ragione che l’ho fatto rimanere con me; poiché egli è il mio cronista, e di lui solo mi fido per sapere, se non tutta, in parte la verità di quello che desidero sapere. A dire il vero egli non si interessa molto del suo prossimo: vive anche lui molto staccato dal mondo che pure è il suo: la semina delle patate è per lui un avvenimento mille volte più importante della nomina del nuovo podestà: e poco gl’importa anche del parroco; poiché ha una religione e un concetto della vita tutti suoi; e un suo mondo interno che egli non cerca di nascondere, ma neppure sa rivelare a nessuno, tranne forse che a me, quando però io stesso lo eccito con la mia confidenza e sopra tutto col vino: e non lo rivela perché sa benissimo, per antico istinto, che nessun conforto vero gli può venire dall’esterno; nessun conforto, se non quello del contatto con la natura; o dalla soddisfazione del lavoro, anzi della fatica, dal piacere del sonno, dal passare del tempo che lo avvicina all’eternità.
È, insomma, l’uomo primitivo, che ha penato senza volerlo, poiché era questo il destino segnatogli da Dio; ma se pure sente il peso del suo peccato, aspetta, anche, il perdono che Dio gli deve ben concedere.
Egli dunque beve e parla con la sua voce grossa e grezza, ma non spoglia di una certa cadenza e commossa musicalità: quel tono che assumono gli uomini buoni, quando sono brilli, e si ascoltano di fuori, amici di sé stessi più che degli altri.
Il bicchiere gli arde in mano, come l’anello nelle dita di Antioco: ecco, quindi, siamo allo stesso punto, poiché io ho ripreso rispettosamente il posto della donna (oh, di questo mio posto ti parlerò un’altra volta, Noemi), amici e compagni, uomini legati dal bisogno di aiutarsi a vicenda: lui, più che altro, dal mio vino; io dal desiderio di conoscere una verità che forse gioverà al caso mio.
– Don Achille? Lo chiamano don Broccolo, perché è buono e inetto, e si lascia burlare da tutti. Non è del paese, e non so neppure di dove sia; però è qui da quarant’anni; è venuto con una sua sorella, che poi è morta: dopo, ha fatto venire una sua nipotina, che adesso tiene con sé: avrà una ventina d’anni e dicono che è molto bellina: io però non la conosco: lo zio non la lascia mai uscire dalla parrocchia, per evitarle pericoli: la gente dice però che la prima a burlarsi di lui è la ragazza, la signorina Agar.
Agar! La tua figura, Noemi, mi sorge davanti, nell’arco del camino, poi subito svanisce è come un’eco che va da un orizzonte all’altro, voce vana eppure misteriosa dello spazio, che solo può gareggiare con l’incantesimo dell’arcobaleno.
Già tutto preso da una più profonda curiosità domando:
– In che senso si burla del parroco, questa servotta?
– Ah, no, – protesta il vecchio, – non è una serva. È una vera signorina. È stata educata in convento, in quello lassù, delle nostre suore. – In queste parole del vecchio è una nuova trafitta al mio male e il sangue mi si agita nelle vene, come la catena del condannato quando egli tenta di sollevarsi e poi ricade sul suo giaciglio poiché nel convento, lassù, in cima alla strada, dove due torrenti s’incrociano e, fra i macigni combattono, a volte, come tigri infuriate, e poi si placano, anzi si affratellano in una sola corrente, là è stata educata anche lei; e forse fu amica e compagna di Agar.
– In che senso? – riprende il mio vecchio amico. – Nel senso che, di giorno, dicono, oh, io non ci metto nulla del mio, la signorina Agar fa la santarella: lavora, pulisce, cucina, va nell’orto a cogliere l’insalata: insomma fa tutti gli affarini di casa, e neppure si affaccia alla finestra: di notte poi, quando quel santone del prevosto dorme, lei fa il comodo suo.
– Sì, – dico io, già vinto da una strana preoccupazione che dà una tinta ambigua alla mia curiosità finora innocente, – infatti io non l’ho mai veduta: forse, anche, perché non passo quasi mai davanti alla casa parrocchiale. Ma, insomma, in che consisterebbe il suo comodo? Nel far l’amore?
– L’ha proprio indovinata. L’amore, sì: e questo, forse, il santone non glielo impedirebbe, se lei lo facesse di giorno e onestamente, con uno che potesse sposarla: anzi lui, lo zio, ne sarebbe contento: ma è che la ragazza riceve, di notte, gli uomini che non la vogliono sposare.
Corrucciato, domando:
– Gli uomini? Ma quanti?
– Eh, non tutti in una volta, speriamo, – risponde Paolone, conciliante, – uno un mese, uno un altro mese: oh, ripeto, io non so nulla che non ho veduto nulla: è la gente, che chiacchiera: le donne vengono qui già a lavare i panni; mia moglie ascolta i loro discorsi e allora, quando stiamo soli, e non si ha altro da dire, chiacchiera pure lei; sebbene io le dica: va là, sta zitta, moglie, e ficcati nei fatti tuoi. E altrettanto adesso vossignoria dovrebbe dire a me. Eh, eh!
Il suo risolino di beffa era contro sé stesso, ma anche dedicato a me: poi ci bevette sopra, e schizzò sul fuoco il fondo del bicchiere, come per smorzare una fiamma più alta delle compagne. Ma non si smorzava la mia curiosità, anzi si accendeva di più: e capii benissimo che mi spingeva l’istinto, quell’istinto che è in tutti noi come un cieco che va a tastoni ma non si sbaglia mai, quando Paolone, dopo molte mie richieste e insinuazioni e tranelli, mi raccontò che si diceva essere stato il signor podestà a iniziare la fanciulla ai notturni segreti d’amore.
Antioco non mi aveva neppure vagamente accennato ad Agar, quando si era parlato della chiesa e del parroco: giusto riserbo; anzitutto per dovere di gentiluomo, e poi perché veramente non eravamo amici da simili confidenze; né io glielo avrei permesso. Anzi tentai subito, di fronte a me stesso, di credere che tutto fosse il solito pettegolezzo paesano: e, infine, che importava a me degli amori delle coppie locali? Ma sì, che m’importava. Chiuso nella mia cameraccia, mentre Paolo era andato anche lui a dormire, leggevo e pensavo. Sentivo il fuoco crepitare sotto la cenere; sentivo di fuori il mormorìo sognante dell’acqua, e mi pareva una voce sotterranea, che salisse da una profondità lì vicina a me, anzi dentro di me. Era la mia coscienza che diceva:
– Ma, e l’argine? Non sei venuto qui per un argine anche morale? Se c’è da fare qualche cosa per quest’Agar, quest’anima che erra nella notte come una bestia a cui si dà la caccia nel bosco, perché non tentare di farlo?
Mi pareva di vedere il sogghigno di Antioco, e che egli mi ribattesse: – imbecille; e non faresti meglio ad approfittare tu pure dei doni che la vita ci offre? – E non sapevo se rallegrarmi o rattristarmi.
Riprendo a leggere. È un libro terribile, quello che leggo: Noemi, ho quasi paura a parlartene. È di un autore che fu chiamato «il nemico delle donne». Otto Weininger. Per spiegartelo con parole semplici, egli assicura che vi sono uomini con caratteri spiccatamente femminei, e donne con vividi segni di mascolinità. Perché una donna e un uomo si ritrovino in amore e si uniscano felicemente è necessario che l’uomo debole trovi la donna forte, e viceversa. Ma egli nega alla maggioranza delle donne le qualità utili per rinforzare nel carattere dell’uomo la sua parte di debolezza: di qui gli infiniti disastri, i malintesi, le tragedie dell’amore. Egli si uccise, il Weininger, perché in fondo era un debole anche lui, e non trovò, nella vita, chi lo aiutasse a vivere. Ma se io ti faccio questo rapido accenno è perché molte cose adesso mi spiego della mia tragedia. Sono un debole anche io, e mai m’illusi di non esserlo: questa facilità di commozione, questa superstizione, questa illusione di potermi sollevare e di sollevare gli altri, sono segni evidentissimi della mia femminilità: il capirlo, però, mi procura un certo conforto, mi solleva di già: anche lei era debole, era la donna in tutta la sua essenza; aveva bisogno di aiuto, e non trovandolo in me, lo cercava in cose esteriori: per questo, non ci siamo intesi, anzi abbiamo lottato, in amore, come le bestie che non conoscono luce superiore: e quando lei si è convinta che nulla c’era più da sperare, nella vita, si è uccisa. Troppo tardi lo intendo, come intendo adesso, forse per suggestione di questo libro, che l’istinto mi spingeva verso di te perché tu sei forte, e a tua volta potevi aiutarmi. E in un certo senso mi aiuti, sì; poiché finché tu vivi voglio vivere anch’io, o almeno non voglio negare la vita: o almeno voglio essere simile al vecchio Paolone, che aspetta conforto solo dall’alito della terra sulla quale si cammina e che a sua volta ci aspetta come la madre il figlio randagio.
Basta, adesso, con le inutili considerazioni, da millenni scavate dalla mente degli uomini.
Vivere! Mi sveglio, questa mattina, con una impressione di freschezza quasi puerile. Sento di fuori, come il brivido e il mormorio del mare. Il fiume non è: la sua voce è diversa, è sorniona e felina: questa voce nuova che oggi sento, è invece sincera, limpida; poi, in mezzo ad essa, come dal centro di una fontana, sgorga uno zampillo diamantino che ricade e ritorna all’acqua destandovi un brivido scintillante. Oh, Noemi, è l’usignolo, è la primavera: e quando mi alzo vedo, sul breve orizzonte, di là della riva del fiume, come un barlume di luce nuova: sono i mandorli di un frutteto, che aprono i loro fiori.
Progetti di vita, aspirazioni di bene, fioriscono anche nel mio cuore. Ho bisogno di affetto, di perdono, di gioia: vorrei subito uscire, andare a veder la chiesa e dividere il lascito fra il suo restauro e la costruzione dell’argine: e poi andare oltre, nei luoghi temuti, al cimitero, al cancello della Villa Decobra. Non più su del cancello, poiché i parenti di lei me ne hanno giustamente proibito l’ingresso. Sento però che è troppo presto per uscire, e che, in questi luoghi, è necessario evitare la curiosità dannosa del prossimo: preparo quindi il mio caffè, ti scrivo e penso che sarà meglio recarmi al Municipio per sollecitare la mia pratica.
Sono dunque stato al Municipio, con la speranza di trovarci, almeno per l’ultimo giorno, il podestà. Non c’era, e neppure il segretario, che è malato. C’era un vecchio usciere, con quattro lunghi peli di baffi, e teneva fra le mani un oggetto misterioso. Guardandolo io quasi con sospetto, egli si mise a ridere, con una smorfia simile appunto a quella dei gatti quando sbadigliano; e aperte le palme mi fece vedere una scatoletta di legno: era una tabacchiera. E tutto ha odore di tabacco vecchio, di fumo, di polvere e di muffa in questa casa cadente, che dovrebbe essere la prima a riattarsi. Torno al mio ufficio, e seggo davanti al tavolino che ha pretese di scrittoio: aspetto che qualcuno venga a cercarmi, a farmi qualche proposta (del resto inutile finché non arriva l’approvazione del Ministero).
Oggi, però, tutto quello che posso attendere dall’esterno mi delude; la stessa bellezza della giornata pare mi lusinghi per poi tradirmi: allora fuggo, come un topo, da questa polverosa trappola d’ufficio, e mi fermo in mezzo alla piazza, indeciso se andare avanti o indietro. Tutti mi sbirciano, con prudente curiosità; il farmacista dall’interno della sua lucida scatola dove un raggio di sole arriva fino alle boccie di cristallo verdi e rosse come piene di assenzio e di sangue; la postina gobba e la sua bella assistente bionda ossigenata, il pizzicagnolo grasso e pesante come imbottito delle cose che vende. Le ragazze che vanno a fare la spesa s’incrociano intorno a me come rondini spensierate, e mi sorridono, vagamente, con gli occhi neri e azzurri e la bocca fresca dell’aria di questa bella mattinata.
Tutto mi sembra bello, oggi, tutto è lucidato dal sole e dall’atmosfera piena di promesse ma non so dove dirigermi; e mi pare quasi un segno del destino quando vedo tornare dal mercato il lungo parroco che con dignità distratta porta da sé il fazzoletto della spesa gonfio di roba: vi fa capolino, da un cartoccio semiaperto la coda di un pesce; e il viso, di solito alquanto arcigno e scuro del prete, s’inazzurra anch’esso, non so se per il riflesso del tempo, o per la beatitudine dello straordinario acquisto. Poiché qui, di pesce non si vedono che le trote del fiume, nella loro stagione; e mi rallegro anch’io pensando che oggi forse potrò avere una porzione dell’insolito cibo.
Saluto quindi don Achille, con rispetto e cordialità quasi filiale; ed egli mi risponde alzando la mano chiusa, con solo l’indice e il medio aperti come quelli della mano sulla facciata della chiesa che benediva i pellegrini di passaggio. Allora decido di seguirlo; anzi mi metto al suo fianco, col fare untuoso di un aspirante chierico, e dico sottovoce:
– Se mi permette, reverendo, vorrei chiederle un favore: cioè di farmi visitare la chiesa, ma nelle ore in cui non c’è gente. Vorrei esaminare alcune cose: e nessuno, meglio di lei, potrà espormi lo stato vero in cui esse si trovano.
Egli si volse a guardarmi, come Tobia cieco l’angelo che gli si offre per compagno: ed io sento, infatti, che egli non mi vede con i suoi occhi mortali ma con quelli dell’anima sospesa in un nimbo di speranza sovrumana. Mi afferra per un braccio, quasi pauroso che io debba sfuggirgli, vi si appoggia, si piega sul mio orecchio e parla commosso.
– Venga, venga pure con me. Sono il suo servo.
La sua voce è calda, profonda; una voce di baritono, che mi penetra e mi stupisce, sebbene mi sembri effettivamente un poco teatrale.
– Oh no, – rispondo subito, con un po’ di finzione anch’io; – non dica così: lei è un santo, ed io non sono che un povero peccatore.
Egli non ascolta: il suo pensiero è unico e non può dividersi.
– Le farò vedere subito ogni cosa: lei capirà tutto, perché è un uomo dotto; le cose stesse le spiegheranno, meglio che non possa farlo io, il loro stato e il loro bisogno. Molto inferme, le cosette della mia parrocchia, hanno urgente necessità di un dottore.
Rise, per il suo paragone: un riso franco, direi rubicondo; del quale lo credevo incapace: ma la felicità può fare miracoli. Ed egli capiva già che il miracolo si poteva forse aspettarlo da me.
E si cammina, sulla strada chiara, ghiaiosa, costeggiando il fiume che pare ci venga incontro salutandoci con simpatia. Ecco la chiesa, accompagnata, a sinistra, cioè dall’angolo della facciata in su lungo lo spiazzo, dalla nera e scrostata casa parrocchiale, come da un’arcigna vecchia che neppure i raggi del sole riescono a rallegrare. L’abside, invece, a destra, verso il paese, tutta rosea della nuova luce, ha una dolcezza romantica di antica torre; si lascia circondare dalle erbe selvatiche, e rivestire, fra pietra e pietra, da ciuffi di rampicanti, di edera, di capperi.
Vincendo la sua falsa modestia, don Achille comincia a spiegare:
– La prima abside era poligonale, come lo indicano le fondamenta: quando la chiesa fu, una prima volta, restaurata, l’abside fu invece, ridotta circolare: e la prima doveva essere molto più spaziosa, poiché scavi eseguiti posteriormente lasciarono scorgere un altro dei pilastri divisori e la prosecuzione del fianco meridionale.
Sempre tenendomi per il braccio, egli mi fa rasentare i muri, me li fa anzi toccare; poi mi tira indietro, mi fa osservare ogni pietra, ogni fessura, e, bruscamente, mi conduce davanti alla facciata.
Adesso la facciata è in ombra, e non ha più il vivo sorriso della sera avanti; ma un so che di pallore, quasi di stanchezza, come un viso dopo una notte insonne; tuttavia è sempre mite, materna, benedicente.
La porta è chiusa, e don Achille, che io credevo mi invitasse ad entrare nella sua casa, mi lascia lì, col naso per aria, mentre va a deporre il suo carico e ad aprirmi la chiesa dall’interno.
Confesso che più di questa, la bicocca parrocchiale attirava la mia curiosa attenzione: sorge ai piedi del poggio, anche questo incoronato di olivi, di arbusti, di roveti; sembra fragile e cadente, ma non lo è; i muri solidissimi, sebbene le piccole finestre, senza persiane, alcune senza vetri, destino in chi guarda un senso di desolazione e di rovina.
Ad occidente, fra il muro della casa, del seguente cortile e dell’orto parrocchiale adagiato a scaglioni sul poggio, c’è un sentiero di là del quale s’inerpica il fiorito giardino dei morti, il piccolo camposanto ove ella dorme: ma oggi non voglio avere pensieri tragici, e il cancelletto di legno, del cortile del prevosto, mi parla, piuttosto, dei convegni notturni e appassionati della bella Agar. Per quanto scruti, avvicinandomi anche ad una finestrina inferriata del piano terreno, dalla quale intravedo una stanza con solo una tavola e alcuni arnesi per la manipolazione del pane casalingo, non riesco a vedere e neppure ad immaginarmi questa fatale principessa delle notti paesane.
Don Achille, ricomparso d’improvviso sulla porta che si è aperta come da sé, mi sorprende nel mio atteggiamento di spionaggio, e mi pare che aggrotti le selvagge sopracciglia grigie: ho l’impressione che egli non sia, a proposito della nipote, così cieco e balordo come lo fanno passare: egli vigila, almeno durante il giorno, e tiene lontana dalle tentazioni la trepida colomba, specialmente in giornate amorose e turgide di inviti come quella di oggi.
Con moto furtivo, se non religioso, entro nella chiesa ancora tiepida dell’alito e del cattivo odore dei fedeli che hanno assistito alla messa mattutina: il profumo dell’incenso e il suo ultimo fumigare premono alle finestre, come desiderosi anch’essi di uscire e fondersi con la pura atmosfera esterna. Il prete, che ha una curiosa testa a cono, coperta di cespuglietti grigi che sembrano di tamerici, mi conduce in giro: di tanto in tanto si piega e si fa il segno della croce; poi si erge, dritto, e quasi si allunga spiegandomi sottovoce i misteri della chiesa. Non voglio annoiarti col ripetere la lunga storia di questa che un tempo fu una importante Basilica, poi rudero, poi tempio monumentale, e adesso è una povera parrocchia priva persino di battistero, poiché la cappella che nel primo restauro fu appositamente costruita per questo, è del tutto scomparsa.
– Ma quello che più mi addolora, – dice don Achille, quasi gemendo, – è questo.
Egli s’è piegato e segnato e poi drizzato rigidissimo, davanti a una parete dell’abside, dove pende un piccolo quadro che attesta il gusto del parroco: è una copia grezza, su legno, di una Madonna di Giotto.
– È molto bene eseguita, dico io, con sincerità – egli però non mi lascia proseguire: stacca il quadro, e sotto vi appare, in un pezzo scrostato d’intonaco, una meravigliosa testa di Bambino, che ha tutti i tratti caratteristici dei putti bruni, grassocci e imbronciati del paese: segno che l’antico pittore prese a modelli del suo affresco gli abitanti del luogo. Don Achille riattacca subito il quadro, quasi diffidi anche di me, e spiega come un giorno, facendo da sé la pulizia della chiesa, poiché egli è il solo prete del paese, e funziona anche da scaccino, e, se occorre, da campanaro, un po’ d’intonaco cadde casualmente dalla parete: con una lama da barba e, naturalmente, con la massima cautela, egli sollevò un altro po’ d’intonaco, e, come da un sepolcro miracoloso risorse il bel viso serio del Bambino.
– Qui sotto c’è un tesoro, – dice don Achille, accarezzando la parete intorno al quadro, con le dita nodose che rassomigliano a quelle del mio vecchio Paolo: – e nessuno ne vuol sapere, e neppure sentir parlare: io sono qui, a custodia di esso, come un babbione imbecille buono a niente: apposta mi chiamano don Broccolo.
Io rido, francamente: egli no, non ride, anzi si fa tutto scuro e puerilmente imbronciato, quasi imitando l’espressione del viso del putto nascosto.
Non feci promesse; né don Achille, abituato a quello stato di cose, le sollecitò: ma, certo, un vago desiderio di aiutarlo, lo ebbi subito: dopo tutto la chiesa mi apparteneva, in qualche modo, lei aveva pregato, davanti a quel freddo altare melanconico, ai piedi del quale ci eravamo sposati; là era tornata, scalza e tradita dalla sorte, come una mendicante. Ombre sinistre mi velarono la bella giornata, e solo verso sera, giunta l’ora di recarmi alla gaia villa di Antioco, un po’ di colore mi tornò nell’anima.
Eccomi di nuovo sul pittoresco sentiero ancora tiepido di sole, su uno sfondo di cielo carnicino, appaiono spruzzati gli olivi del poggio: la villetta, però, come già al mattino la facciata della chiesa, mi fa un diverso effetto: poiché ha preso una tinta quasi di ocra, e le persiane, troppo azzurre, vi stonano: anche lo spalto, coi suoi vasi esagerati in proporzione alla piccola balaustrata si affaccia con una certa timidezza sulla valle piena di voci e di rumori. Sono i contadini che tornando a casa aizzano le loro bestie; e bambini errabondi che gridano e fischiano; infine la cantilena dell’acqua che però viene di lontano, dal crocicchio sotto al convento e pare l’eco dei vespri cantati lassù dalle suore appassionate.
Insomma, la casa di Antioco mi fa l’impressione di un luogo in apparenza lieto, triste in fondo, più triste della vecchia dimora di don Achille: o è il riflesso della mia interna irrequietudine a tingere di fosco pallore le cose a me davanti.
Infatti, arrivato allo spiazzo, mi domando con improvvisa disperazione che cosa sono venuto a cercare quassù: sento che Antioco non mi è, non mi può essere amico: troppo diversi siamo; e quando anche lo diventasse, mio amico, a che mi servirebbe? Nulla può giovare alla mia rovina: si può restaurare una chiesa ed anche costruire un argine, non guarire un’anima che ha rotto intorno a sé le dighe della vita. Ma sono forse melanconie e stanchezze della sera, queste mie: suoniamo alla porta ospitale.
Viene ad aprirmi la donna col fazzoletto nero, ch’ella però s’è tirato in modo civettuolo sul bordo dei suoi chiari capelli crespi: gli occhi sembrano più grandi, belli, infantili, e mi sorridono come ad un vecchio amico di famiglia. Si è messa anche un grazioso grembiale bianco ricamato; ed ha, insomma, un’aria grottesca ma cordiale, di cameriera educata e di ingenua contadina.
– Il signorino è ancora fuori, – dice, introducendomi nel salotto; – ma sarà qui a momenti. Credo sia andato a salutare i signori Decobra.
È come se ella, con questa innocente notizia, mi dia uno spintone che mi abbatte sul divano: per un momento non vedo che la fiamma del camino; e simile alla fiamma sento dentro sbattere il mio cuore. Per fortuna sono solo ed ho tempo di riprendermi, di prepararmi alla solita commedia; e l’arrivo di Antioco mi rinfranca del tutto.
Egli è salito fino alla spiazzo con una piccola automobile, e non so come ci sia riuscito: sembra infatti molto soddisfatto di questa sua abilità, e dopo essersi tolto il soprabito, la sciarpa, i guanti, entra tutto fresco ed agile nel salotto, stringendomi forte la mano con la sua mano elastica, più energica di quello che sembra.
Io sento che è tutto vibrante, ma che anche lui vuol contenersi: gli occhi però lo tradiscono, più grandi, più obliqui, quasi fosforescenti come quelli dei gatti nelle tenebre. Ho quasi l’impressione che egli ritorni, non dalla funebre villa Decobra, sibbene da un convegno di amore: con la bella Agar, forse?
Confesso di nuovo che l’esistenza misteriosa di questa creatura comincia ad interessarmi un po’ più del necessario: sono curioso di conoscerla: curiosità di apostolo, ma anche di uomo che, nella sua solitudine, contro suo volere, già si annoia.
Quasi spingendomi con cortese violenza, con la mano sulla mia spalla, Antioco mi introduce nella sala da pranzo: sala, proprio sala, che ancora una volta mi trasporta, Noemi, nella tua casa di sogno. Occupa tutta la parte a occidente della villa: ha quattro finestre alte, senza tende, ma con vetri smerigliati a vivi eppure delicati colori; le credenze sono medioevali, di quercia nera: dello stesso stile due cassapanche con cuscini di vecchio broccato; e argenterie sobrie, ossidate dal tempo: sotto un antico lampadario di legno scolpito, una piacevole mensa modernissima, è invece apparecchiata con un servizio di lino avorio a ricami e trafori: le stoviglie tutte bianche, di una fragile trasparenza d’alabastro; i bicchieri e le anfore colore di rosa. E in mezzo, in un alto vasetto, un solo fiore: una rosa fresca e olezzate, che domina davvero, come una regina, tutte le belle cose attorno. Non c’è fuoco, ma attraverso la vetrata di comunicazione si vede il camino acceso del salotto e se ne sente il calore.
Antipasti squisiti sono già pronti sulla mensa: aragosta, acciughe, olive, carciofini, ventresca di tonno; egli mi serve, con la mano fina al cui dito brilla il prezioso anello.
– Mi sembra di essere ospite di Gabriele d’Annunzio, – dico io, con sincera ammirazione: ma in fondo mi sento ipocrita e diffidente.
E si parla naturalmente del Poeta; argomento elegante e cordiale, per un principio di pranzo come quello. Non importa che a servire la prima portata entri la buona governante sdentata, la quale ha fatto al padrone la solita concessione di levarsi il fazzoletto, il quale del resto, le dà un’aria madonnesca. Ella non apre mai la bocca, perché questo è l’ordine, al quale si sottomette volentieri per nascondere l’assenza dei denti; ma parlano i suoi occhi, ridenti e curiosi, che badano, sì, al servizio e nello stesso tempo osservano i nostri visi: e le sue orecchie, ai cui lobi stanno attaccate due lumachine di perla falsa, devono essere ben tese. Niente paura: i nostri discorsi sono innocenti come quelli di due signorine intellettuali: si parla di letteratura, di scienza leggera, di blanda politica; anche di sport. Antioco è un appassionato di giochi sportivi, di corse, di macchine, di velivoli; vorrebbe far lunghe crociere, andare al Polo, andare alla caccia del leone. Si contenta di godersi queste cose al cinematografo, quando è in città; ne ride; poi si fa pensieroso, col viso arido come un dorso di monte coi solchi di torrenti asciutti. E qui, mi parve, ricominciò a prendersi gioco di me. Poiché riparlò della sua tesi di laurea, e disse, con cinismo volontario, di aver scelto quel soggetto e quell’epoca perché rispondono al suo temperamento d’uomo: ai tempi di Pietro Aretino anche lui sarebbe stato forse un personaggio importante, o almeno non un pallido e povero borghese moderno.
– Invece mi toccherà di muffire in una biblioteca, e sarà già una fortuna se potrò ottenere un posto simile. Il peggio è che dovrò forse andare in qualche piccola città di provincia, ad insegnare il latino e la storia a trenta o quaranta adolescenti ingrati, barbari e maligni, del cui odio e della cui derisione sarò il piacevole soggetto. E la vita che vi dovrò condurre! In una camera male ammobigliata, presso un usciere del Tribunale le cui figlie si accapiglieranno per me. E il freddo d’inverno e le conoscenze, e le soste al caffè, e le tristi passeggiate sulla costa della valle.
– Ma no, – dissi io, rabbrividendo tuttavia al quadro di quella vita, che del resto non era molto dissimile da quella che conducevo io; – troverà certamente di meglio, col suo ingegno e la buona volontà.
Egli scosse la testa: non credeva al suo ingegno, e forse neppure alla sua buona volontà. Per distorglielo dalla sua acerba visione del futuro, gli domandai dove, intanto, sarebbe andato ad abitare a Roma.
– Andrò anche lì in una camera mobiliata. Tutto il mondo è paese. Ma, almeno, in città ci si illude di essere cittadini: la vita, magari, è più monotona e povera che in un paese, ma si vive anche della vita degli altri di quelli che noi crediamo vivano meglio e più di noi e, in sostanza, sono forse più morti di noi. Non so se lei ha provato: certi avvenimenti, grandiosi nella nostra immaginazione, che si svolgano in date occasioni nelle città movimentate, noi li leggiamo solo nei giornali, e li vediamo riprodotti dalle fotografie: eppure il solo fatto di esserci stati vicini accresce il nostro senso di gente di vita e di azione.
– E le donne, – aggiunse, versandomi da bere col gesto che io usavo col mio vecchio Paolo: – che orrore, le donne, di tutti i generi. Ma perché non beve? Adesso i medici dicono che il vino è necessario per la nostra salute.
Le donne. Io pensavo a te; pensavo ad Agar. Bevo, con un certo disgusto, ma bevo; e ho desiderio di stuzzicare la confidenza di Antioco, di farlo parlare di Agar, di parlare io stesso di te. Avevo bisogno di difendere la donna in genere, ma sopratutto di difendere la donna quale io la vedo in te, Noemi. Si ha sempre bisogno di difendere qualche cosa contro l’opinione di un altro uomo che non sente e non pensa come noi: e dopo tutto è la nostra opinione stessa che difendiamo.
Eppoi qualche cosa bisognava pur dire, specialmente adesso che il primo gusto del pasto era esaurito, e la tavola già in disordine segnava come una nota di maggiore intimità fra noi due. Io insisto nel voler sapere dove egli andrà ad abitare a Roma: c’è un istinto oscuro, in fondo al mio desiderio: vorrei che egli si avvicinasse a te, per avere di te, da lui, indirette notizie.
– L’ultima volta, – dice, – abitavo presso una famiglia come ce n’è tante, nelle agglomerazioni cittadine. Lui, il marito, un attore cinematografico a spasso, lei una donna in apparenza fina ed elegante, che si arrangiava, come suol dirsi, in tutti i modi: quello di affittare qualche camera era uno dei tanti. Ma i locali erano puliti, la casa abbastanza centrale. Io non amo i così detti quartieri nuovi: hanno tutti gli inconvenienti della città e in pari tempo del villaggio.
– Eppure…
Mi tornò nitido in mente il tuo palazzo con la sua bella strada davanti, il giardino di fronte, la chiesetta nello sfondo, sì, ancora campestre, ma tanto gentile e riposante. Seguendo il filo misterioso delle mie idee domando ad Antioco se, a Roma, ha qualche conoscenza.
– Oh, no. Avrei un parente. Curioso. – Rise, sporgendo in avanti il petto e gonfiando le guancie. – È un gobbo: un pensionato dell’Intendenza di finanza, uomo piacevolissimo, di una certa cultura: la moglie è una specie di gigantessa; e lui ci tiene, a farsi vedere con lei; forme di degenerazione, forse. A lui, appunto, ho scritto perché mi trovi una camera decente. Più volte egli ha insistito perché vada da lui; non gratis, naturalmente, anche perché è avarissimo; ma non mi piace la moglie; è troppo buona, come tutte le donne grosse e forti; e la sua dolcezza slavata accresce il peso dei suoi novanta chilogrammi di ossa e di carne. E, inoltre, abitano appunto in un quartiere nuovo, in un palazzo, sì, signorile, ma troppo lontano dal centro. In via, aspetti, via…
Io sento come se qualcuno batta violentemente alla porta: chi è? Che cosa vuole? Una buona o una cattiva notizia?
Il nome della via è quello della tua; il numero della casa quello della tua casa. La vita fa spesso di questi scherzi, in apparenza innocenti, e senza i quali sarebbe noiosa come l’esistenza dei fanciulli senza i loro giochi. Ma io, dopo il primo ingenuo stupore, penso che Antioco continui a burlarsi di me. Un po’ sadico, senza dubbio, egli deve esserlo; ne ha l’istinto; penso che ebbe una madre viziosa, che il peso di questa vergogna deve avvilirlo e renderlo crudele verso uomini, che come me, nonostante tutto, hanno una linea di vita normale e pura: penso che la signorina bionda della posta, abbia, cosa naturale, aperto qualche mia lettera, o almeno spifferato ad Antioco o ad altri, il segreto della mia corrispondenza con la signora Noemi Davila, via tale, numero tale; e che, tutto sommato dunque, il mio ospite mi prenda in giro. Ma e il gobbo? Esiste veramente un gobbo, un pensionato dell’Intendenza di Finanza, con la moglie di novanta chilogrammi di carne e d’ossa, che abita in via tale, numero tale?
– Credo di aver conosciuto la padrona dello stabile, – dissi, con una voce che mi parve quella di un ventriloquo; e subito mi pentii: avrei voluto ringoiare le mie parole, come un boccone ritornato su per nausea: mi sentii vile, cattivo. Perché avevo parlato? Per far intendere all’altro che capivo il suo gioco? Eppure pochi momenti prima, io stesso volevo parlargli di te, avvicinarlo a te. Adesso sentivo un istinto curioso; come quello che spinge gli animali malati a nascondersi, a curarsi da soli.
Ma, e il gobbo? Se veramente esiste il gobbo? D’altronde Antioco ha lasciato cadere le mie parole e nessuna luce di curiosità si è accesa nei suoi occhi. Evidentemente, egli s’infischia delle mie conoscenze: ed io, come al solito, sono vittima volontaria della mia fantasia.
D’altronde egli s’era d’improvviso rifatto pensieroso, lontano, quasi triste.
Quando la domestica portò il caffè e i liquori, e poi andò a riattizzare il fuoco in salotto, egli disse:
– Sono stato a salutare i Decobra, nella loro villa. Che gente buffa e compassionevole! Ma lei forse la conosce meglio di me.
Io accennai di no, di no, con la testa, e sopra tutto con l’ansia di dirlo ad alta voce; ma egli riprese subito, mozzandomi il fiato con le sue parole:
– È gente, i Decobra, non squilibrata, tutt’altro, ma originale e non sana. Anzi, lui, Decobra, e questo certamente non glielo avranno potuto nascondere, è malato sul serio: ha lavorato molto, bisogna riconoscerlo, ha cercato la fortuna e l’ha trovata, se fortuna può dirsi la sua: ma si è anche goduto la vita, con le donne, il vino, il gioco, i viaggi: del resto, con una moglie come la sua, c’è pienamente da giustificarlo. È vero che è stata lei, figlia e nipote di ricchissimi banchieri, a portare i milioni in casa Decobra; ma, per conto mio, le assicuro, io l’avrei non solo tradita e sfuggita, ma impiccata. È una donna insopportabile, di un egoismo da tigre: più ignorante di una serva, ha pretese aristocratiche e intellettuali. Non pensa che a sé, non parla che di sé, non vuol bene che a sé stessa. Bisogna riconoscere che, avendo anche lei molto viaggiato, quando vuole racconta in modo divertente, appunto come può farlo una contadina, le sue impressioni d’India o di Australia; ma il viaggiare, per lei, non è una forma di gioia, di curiosità estetica; è un pretesto per muoversi, per svagarsi, per colmare istintivamente il vuoto spaventoso della sua anima. Poiché stupida non è: l’astuzia e la diffidenza suppliscono alla sua mancanza d’intelletto: è poi, bisogna riconoscere anche questo, generosa, con chi le pare; non bada al denaro, che in fondo, in casa Decobra, è tutto suo. D’altronde adesso le loro spese sono limitate. Il Decobra giovane non ha più modo di spendere: dopo la morte della povera signora Pia non s’è più alzato da letto: l’ho veduto oggi; è bianco e freddo, rigido anzi, chiuso come un pugnale in un astuccio. Lei sa la sua malattia: il midollo dorsale che se ne va.
Antioco intanto beveva e beveva: cognac, rum, liquori forti: avevo voglia di fermargli la mano, di dirgli: – Un malanno aspetta anche lei, se continua così; – ma sentivo soggezione, quasi paura di lui.
– Ho avuto l’impressione che il Decobra sia, in certo modo, contento di essere malato per tormentare, o meglio per esercitare vendetta contro sua moglie. Poiché ella, dato questo stato di cose, è costretta a rimanere in casa, prigioniera con gli altri. Della morte della figlia credo non le importi niente: dicono che quando apprese la triste notizia pianse un poco, poi domandò della frutta; frutta fresca, arance, arance. Senza la malattia del marito, la morte della figlia le sarebbe forse giovato di pretesto per fuggire ancora dalla villa e sperdersi per il mondo. Sa che effetto mi fa, la signora Dionisia Decobra? Di una zingara: ne ha il tipo fisico, tutta nera e ricciuta, col profilo e gli occhi ebrei: ne ha gli istinti: se non ruba è perché troppi denari ha nella sua borsa.
– Più simpatici, – egli riprende, placandosi nei suoi giudizi, – sono i vecchi, i nonnini, come la signora Dionisia li chiama; e sono infatti i nonni del marito, che hanno veduto sparire tutta la generazione dopo di loro, e restano lì, incartapecoriti, eterni come le mummie. Il vecchio coltiva i fiori, gli alberi; ha grandi uccelliere; si diverte persino a fabbricare mattoni per le aiuole del giardino: ma è buono, e tranne le sue impotenti sfuriate contro la gente di servizio e i mendicanti che suonano al cancello non fa altro di male. L’avarizia è la sua passione: passione forse contratta nel tempo della decadenza e della povertà della famiglia. La nonnina, invece, è mite, pietosa. È lei che cura il nipote; è lei ancora la lampada della triste casa: legge, si interessa a tutto; è viva. È quella che veramente ha sofferto per la disgrazia: se le avessero lasciato in casa la nipotina, invece di cacciarla in quell’orrido convento, forse…
Egli beve ancora: si ferma, intimidito lui stesso delle sue parole; e non ce n’è una, di queste parole, che io non sappia già a memoria, scolpite sulla mia anima come su una lapide mortuaria: eppure, nel sentirle da lui, da quella sua voce senza volontà, fredda e densa come un inchiostro di vernice, ho appunto la sensazione che egli ravvivi sulla lapide le parole già un po’ scolorite dal tempo. E ne provo un lieve senso di terrore: di nuovo mi sento vile, a non reagire, a non aver la forza di gridare: basta, – e poi fuggire piangendo.
Disperato tesi anch’io la mano verso il calice dell’assenzio, verde mischiato di sangue per il riflesso del cristallo, e lo trangugiai.
Dopo, siamo andati a fumare, accanto al fuoco: la pendola bianca e dorata, silenziosa eppure palpitante come la luna nel pozzo, segnava le nove: e Antioco doveva partire alle dieci.
– Ha già pronto tutto? – gli domando, quasi inquieto per lui, che ha di nuovo, sul viso grigio, quelle pieghe amare di uno che ha bevuto l’assenzio, quello dei selvaggi e dei bassi fondi cittadini. Adesso fuma: le sigarette non bastano a velare, col loro vapore profumato, il corruccio che lo esaspera.
Piegando indietro la testa, e accavallando le gambe, con gesti che ricordano quelli delle donne, dice:
– Tutto pronto; poiché tutto va con me. Odio bauli e valigie: dove mi trovo mi vesto e mi spoglio, come i vagabondi.
– E qui, chi resta?
– Se Dio vuole, quella fantasima tormentata della mia serva.
Egli pronunzia la parola serva con accento pietoso: tanto che io, anche perché non so che altro dire, domando:
– Perché tormentata? Sembra invece placida e contenta.
– Sembra. Siamo sempre lì. È, al contrario, un’anima in pena: il marito, scomparso di guerra, dicono invece sia vivo e vegeto, in Jugoslavia, con un’altra donna: e lei si tira su un disgraziato bambino, bello ma scemo e sordomuto, e, naturalmente, non figlio del marito. Lo tiene qui, nascosto, per più ragioni, e lo adora come un idolo segreto e proibito.
Io non insisto: non ho il coraggio di sentir parlare delle disgrazie altrui, specialmente dei bambini infelici; appunto per un sentimento di pietà quasi morboso: l’assoluta assenza di crudeltà, nel mio spirito pur così triste e buio, mi fa qualche volta pensare ad un sogno, in me, di superiorità: nell’India antica, la più alta êra civile fu segnata dall’assenza completa di sentimenti crudeli.
Del resto anche il mio ospite non insiste nel parlare della sua domestica; fuma, guarda in alto con occhi quasi allucinati, verso le lampadine fisse sul soffitto che a poco a poco si velano di fumo; poi d’improvviso si alza e va a guardare alla finestra.
Senza saper perché, spinto sempre da un senso di disagio e dal bisogno di fare ritorno alla mia tana, mi alzo e guardo anch’io sullo spiazzo. C’è l’automobile, coi fanali accesi: la loro luce si sbatte contro il parapetto della balaustrata, e uno dei vasi, col cactus spinoso, sembra, in quel chiarore irreale, una coppa mostruosa di fattucchiere: così, al paese di mia nonna, le streghe, di notte, deponevano davanti alle case che volevano colpire di sventura, un’anfora piena di rovi e di spille malefiche.
– Guida lei? – domandai, senza nascondere il desiderio di metter fine all’incanto ambiguo di quella serata.
– Sì; ma la macchina non è mia: il padrone mi aspetta alla stazione, e se lei vuole accompagnarmi, egli poi la ricondurrà a casa.
Io non vorrei accompagnarlo, ma come si fa? La donna fantasma è ricomparsa dietro la vetrata, con la sua bocca vuota e chiusa, gli occhi divenuti violetti come fiori appassiti di genziana. Ella deve aver pianto: e non attribuisco se non ad una sua devozione materna questo dolore per la partenza del giovane padrone.
Oggi ho finalmente conosciuto la signorina Agar, e nel modo più impensato. È venuta lei in persona, da me, per trasmettermi un’ambasciata dello zio. A vederla ho ricordato le mie parole a suo riguardo, che quasi avevano scandalizzato Paolone: m’è parso, cioè, che ella avesse l’aria fra timida e spavalda di una servetta spensierata e incosciente: la sua presenza sfata le leggende che si raccontano di lei, leggende, del resto, di gente da villaggio che vede il male anche dove non esiste; tuttavia gli occhi furtivi della Paolona, all’ombra del fazzoletto, hanno una luce di perfetta malizia quando ella, dopo aver bussato al mio uscio, dice tutta sorpresa:
– Signor conte, c’è qui la signorina Bellini, che desidera parlarle.
È forse la prima volta che io sento distintamente la voce della mia padrona di casa, e mi fa uno strano effetto: e quel titolo di Conte, che mi appartiene ma che io non ho mai partecipato a nessuno, – poiché veramente lo sento staccato da me come una cosa della quale voglio disfarmi, – mi dà un senso di fastidio, ma anche di allegria carnevalesca.
O quest’allegria tra vera e falsa, forse me la comunica l’entrata in camera mia della signorina Bellini: sì, non più l’Agar fatale della fantasia popolaresca, ma, a giudicarne dagli innocenti occhi, non grandi, limpidi, color nocciola fresca, circondati da una raggiera di lunghe ciglia nere e dorate, la mite e ingenua nipote del parroco. Non è alta, ma lo sembra, per la sua personcina snella stretta in un soprabitino grigio attillato: grigie sono pure le modeste calze di filo che però disegnano bene le caviglie svelte, e grigio il berrettino di lana che a sua volta fa risaltare il colore caldo, fra il rame e il nero, dei folti capelli: ma quello che più mi colpisce sono le due trecce che scappano dal berrettino, con le estremità arricciate, e che le servono come di sciarpa, di qua e di là del lungo collo davvero di cigno. Il colore dorato della sua carnagione freschissima in armonia con gli occhi e coi capelli, e sopra tutto il mento ovale, con una profonda fossetta, mi ricordano qualche figura di quadro, direi quasi del Botticelli, se le trecce di lei fossero sciolte e svolazzanti serpentine al vento di un azzurro mattino di marzo.
Oggi l’azzurro non c’è: c’è del grigio, come il vestito e il berretto di lei; il vento è freddo, umido, e le mani nude e rosse della ragazza dànno un senso di pena. Ella dice subito, come recitando d’impeto l’inizio di una lezione:
– Mio zio, don Achille, mi manda per dirle che sarebbe venuto lui a trovarla, se non si trovasse a letto con l’influenza.
Pausa. Ella ha dimenticato il seguito; ma poi continua per conto suo:
– E ce n’è voluto, per farcelo stare, a letto. Voleva alzarsi a tutti i costi, per la messa. Poi è venuto il nostro cappellano, quello del convento, e la messa l’ha detta lui.
Un’altra pausa. Ella si guarda attorno, con quell’istintiva curiosità dei bambini, ed anche di certi uccelli, attirata da ogni particolare: la sua bocca, infantile davvero, rimane aperta, e ci si vedono i denti bianchi e le gengive di corallo rosa.
– Speriamo sia niente, – dico io.
– Che cosa?
– Il malessere del suo signor zio.
Ella fa tre volte – oh, oh, oh, – come se io avessi pronunziato parole straordinarie; poi di nuovo ricorda la lezione:
– Mio zio voleva venire anche per dirle che il nostro cappellano, padre Leone, dei minori osservanti, desidera conoscerla.
Domando notizie di questo padre: ella si fa rossa, beffarda e maligna: si frena, però, e dice:
– Padre Leone è il cappellano delle nostre Suore: vive coi suoi fratelli, nel convento di San Francesco di Castellaccio, ma è sempre da queste parti. È un omone rosso, un vero leone, – ella si corregge subito, – un leone santo. Noi lo chiamiamo «pecora di Dio».
– Va bene, – approvo io; – ma non saprebbe per caso, lei, signorina, perché padre Leone mi vuol conoscere?
Ella capisce che io voglio semplicemente divertirmi: quindi mi fissa negli occhi, ed ecco che, per reciproca cordialità, o per un senso più ascoso di confidenza, quasi di complicità, un principio di amicizia si stabilisce fra noi.
– Non lo so davvero, – ella mentisce tuttavia, caricando le tinte della sua spontanea ingenuità: – non vengono a dirle a me, le cose. Ecco, poi, quanto mi incarica di dirle lo zio: se il signor ingegnere… se il signor conte (qui ha un sorriso felino, che mi piace molto) ha un momento di tempo, se ne ha piacere, favorisca di venire alla parrocchia, per prendere una tazza di caffè.
Io però mi allarmai: potevo bene essere amico di lei, come fra di loro sono amici i ragazzi anche se cattivi, ma diffidano degli altri: sentivo che mi si voleva tendere una rete; in buona fede, certo, e non per interessi esclusivamente privati, ma, infine, sempre la rete con la quale si pesca la persona che può essere sfruttata.
Dissi, freddo, abbassando gli occhi per non incontrare più gli occhi di lei, che se avevano un po’ di sole, in certi momenti non mancavano di ombre equivoche:
– Appena suo zio starà bene, mi farò un piacere di venire: e conoscerò volentieri padre Leone. Li saluti per me, intanto: oggi ho molto da fare.
Ma che cosa è il mio gran da fare, oggi? Poco o nulla. Dovrei recarmi al mio costretto ufficio, e poi alla Casa comunale, a riverire il nuovo podestà, al quale ieri Antioco ha già fatto la consegna. Ma questo nuovo podestà non mi interessa: nulla spero da lui, anzi lo so ostile al mio progetto: è un pensionato, un pesante ex-Ricevitore del Registro, grande cacciatore, grande pescatore di trote, sole sue turbinose passioni: del resto è un galantuomo, all’antica; anzi si adagia nelle cose tradizionali come un vecchione che ama il suo letto di legno dove da mezzo secolo usa dormire. Non mi interessa, anche perché ha un mucchio di figlie, tutte zitelle stagionate, che dalle loro finestre non fanno altro, quando sono costretto a passarci sotto, che sbirciarmi fra spaventate e affascinate. Brave ragazze del resto, oneste e laboriose: ma è da una specie di loro laboratorio di sarte, dove convengono tutte le altre ragazze civili del luogo, che scaturiscono, più che dal gruppo delle lavandaie in riva al fiume, i pettegolezzi, le allusioni, le calunnie che infestano il paese.
Dunque, resto a casa e leggo, scrivo, mi annoio, mi domando se la mia di questi giorni non è una vita sterile; se non sarebbe meglio ritornare in città e rimettermi a lavorare. A Roma potrei anche sollecitare personalmente la pratica, presso il Ministero, e uscire da questa gora che piano piano cresce e tenta di soffocarmi. Cresce, oggi, dopo qualche ora di pioggia diluviale, anche la fiumana: l’acqua vien giù torbida, inquietante, anzi minacciosa: la sua voce grossa mi pare quella di una madre energica quando rimbrotta il figlio fannullone e infingardo.
Ha già invaso un po’ del campo di Paolone, l’acqua melmosa; arriva fin quasi alla nostra casupola; ed io ne profitto per predicare al mio vecchio testardo padrone:
– Vedete? Vedete bene che…
Egli interrompe, quasi soddisfatto:
– Lasci fare: è tanta abbondanza.
Ma la pioggia riprende a cadere; non ho mai veduto l’eguale: è un velo fitto, una stoffa grigia; soffi impetuosi di vento la sollevano, e allora pare un fumo, denso, un rifarsi di nuvole.
Tutta la giornata è stato un diluvio: si placa solo al cadere della notte; la luna si affaccia fra enormi rocce di nubi, e pare guardi con curiosità le onde grosse e lanose della corrente infuriata. L’acqua circonda la nostra casa, batte ai muri delle doppie fondamenta, e pare un lupo affamato. Anche Paolone, e sopra tutto la moglie sono preoccupati; ma già è un buon segno che la pioggia sia cessata, e che un provvidenziale vento di tramontana sibili acuto, lottando strenuamente con l’acqua subdola, e respingendola col suo impeto e i suoi fischi di cacciatore. Caccia via anche le nuvole; e d’un tratto il cielo appare grande e limpido, con la luna verginale che adesso tenta di dare un riflesso di metallo alle onde del fiume, simili a un gregge che il pastore spinge di furia: la tranquillità torna anche nelle anime nostre; anzi il vecchio mi fa l’occhiello e tenta di imitare il mio accento:
– Vedete? Vedete che…
Vado dunque a visitare il parroco, sebbene lo sappia ancora sofferente, costretto a stare a letto dalla nipote e da padre Leone.
È questo padre Leone che mi viene incontro; è davvero una figura mosaica; robusto e nello stesso tempo agile, coi capelli e la barba rossi, ardenti, smorzati un poco dal pallore della pelle lentigginosa: il naso è leonino, ma gli occhi sono miti, quasi bianchi, illuminati per riflesso dagli occhiali d’oro: molto oro è anche dentro la sua bocca, poiché si sono ricoperti anche i denti canini, e la sua voce pare ne prenda il timbro: timbro metallico e sonoro, sì, ma vibrante di una voluta compunzione. Il suo abito è accurato, con un cordone ricco, quasi donnesco: anche le dita delle sue mani lunghe e bianche, sono ben tenute; ha, infine, un’aria da gentiluomo convertito, che però non mi soddisfa.
Quella che invece mi sorprende e mi piace è la camera di don Achille; spaziosa, bianca, alta, quale io non mi aspettavo nell’interno della vecchia parrocchia; con fasce decorative sulle quali un pittore primitivo da pareti ha stampato fiori, agnellini, colombi, simboli cristiani.
Il lettino dove giace lungo stecchito il prete è tutto ricami e trine: sul canterano una tovaglia quasi d’altare e uno di quei bellissimi candelabri ad olio, di lucido ottone, con catenelle per lo smorzatoio e la forcina per smoccolare. Un inginocchiatoio sta davanti ad una finestrina dalla quale si vede, come in un quadretto con vetro, un paesaggio da presepio, una capanna fra due olivi, su un poggio verde incoronato di piccole nuvole rosse. È già tramontato il sole, e nella camera vi permane il suo tepore, misto a un odore di trementina bruciata.
– Ecco il nostro vero dottore, il dottore delle anime nostre, – disse padre Leone, accostando una sedia al letto del parroco, e invitandomi a sedere. Il malato si era fatto rosso per il piacere di vedermi, ma anche per la vergogna e il pudore di farsi trovare a letto: e rosso mi faccio io, protestando per il complimento del frate, sebbene intenda a che cosa egli alluda: è sempre una stoccata contro la mia, e veramente non mia, borsa miracolosa.
Tentando di ambientarmi, e pensando ad Agar, che forse sta dietro l’uscio ad origliare, dico a voce alta: – sarei venuto ieri, ma hanno veduto che tempo? L’acqua quasi ci penetrava in casa: eppure questi testoni di contadini non vogliono sentir parlare di argini.
Avrei aggiunto: – e non loro soli, – se padre Leone, con le belle mani intrecciate al suo pulito rosario, non avesse appunto cominciato a difendere l’ignoranza dei contadini, e, senza parerlo, anche le ragioni per le quali si combatteva il mio progetto.
– Persino il podestà è contrario…
Ho voglia di parlar male del nuovo podestà: ma subito capisco che non conviene. Podestà, segretario, farmacista, dottore, parroco, cappellano, sono tutti una cosa, in luoghi come questo: forse nemici, in fondo, ma fratelli alla superficie: le colonne che reggono la comunità. Domando piuttosto come va la malattia di don Achille: egli si agita e sbuffa, e infine, con dispetto infantilmente sincero, dice:
– Credo sia padre Leone a legarmi qui, con la camicia di forza, per portarsi via al convento la signoria vostra.
– A far che?
– A far che? A far che? A farle vedere in che stato miserando è quel luogo sacro.
Io mi metto a ridere, di cuore, mentre padre Leone, per nulla mortificato, anzi tutto lieto e scintillante al riflesso della finestrina, si stropiccia le mani.
– Ma se lo conduco al convento, vuol dire che lei, don Achille, rimane qui solo, libero di alzarsi e buscarsi una bella polmonite.
E ride anche lui; ma non rido più io: anzi, quella luce tranquilla e vivida di crepuscolo già primaverile mi richiama a tutte le mie inquietudini.
Sarà la fede, l’amore alle cose sacre, anche lo spirito del dovere, che spinge i due bravi uomini di Dio a contendersi il mio aiuto, finanziario, s’intende, più che morale; ad ogni modo si nasconde, in fondo, sempre il calcolo umano, forse personale; e ciò mi disgusta. Meglio lottare contro l’ostilità dei contadini, e sopra tutto contro le forze ingiuste della natura: il mio pensiero dominante è la costruzione dell’argine, anche perché questa era la prima volontà di lei.
E poi mi annoio, in compagnia di questi uomini di chiesa, che mascherano in modo abilissimo la loro umanità. Padre Leone comincia a raccontare la storia del convento, e quella della parrocchia, un tempo uniti dallo stesso ordine e dai medesimi interessi: poi mi spiega perché lui ha dovuto accettare l’incarico di cappellano delle Suore, ma, intelligente e furbo com’è, si accorge che io non m’interesso a questi discorsi, e cambia argomento. Parla dei suoi viaggi, delle sue missioni: è arrivato fino al Congo, fino all’Estremo Oriente; molte avventure ha avuto: ma visto che neppure questo mi commuove, si agita per la camera, costringe don Achille a ingoiare la medicina, e infine, aperto d’un colpo l’uscio di comunicazione, con voce padronale che rimbomba nella solitudine della casa, chiama due volte:
– Rina? Rina?
– Dove si è ficcata quella scimmia, – dice poi, senza più alcun riguardo, e balza nella camera attigua, facendo scricchiolare i pavimenti di legno, mentre don Achille sospira, con un viso di martire, ed io capisco che l’invasione del vivace confratello, nella quiete profonda della parrocchia, deve essere per lui una sofferenza più molesta del suo raffreddore.
Non oso confortarlo; non vedo l’ora di andarmene: anche l’idea di dover rivedere la piccola Agar mi infastidisce: ed ecco invece la sua graziosa figura viene a rallegrare la stanza. Ella non mi guarda; non mi vede neppure; tutta intenta a un vassoio che regge con prudenza fra le mani, con su alcuni calici di vermut.
Certo, ella è bellissima, questa volta, forse anche per effetto della luce morente, forse anche perché si è preparata per me: è vestita di nero, con una cintura di cuoio rosso che le stringe la vita sottile e molle nello stesso tempo, e fa più provocanti i suoi seni dei quali si vede completa la forma. E i suoi capelli, treccia sul petto, treccia sulla spalla, ricciolino sulla tempia, hanno sul colore dello sfondo della finestrina davanti alla quale ella si è un momento fermata, sfumature quasi rosee.
Intanto sopraggiunge padre Leone, con una fisionomia cambiata, arcigna: ma egli stringe le labbra per non parlare, ed evita di guardare la ragazza, contro la quale evidentemente è irritato: non riesco a intenderne il perché.
– Rina; ecco un altro nome di lei, che le sta molto meglio di quello di Agar, – penso io, mentre ella sporge verso di me il vassoio, ed io intravedo il fulgore dei suoi occhi attraverso le palpebre vibranti.
Il frate intanto accende il candeliere; tre fiammelle, un odore di lucignolo bruciato, ombre che lottano col chiarore ostinato dei vetri. Io sollevo il calice, come in casa di Antioco, e assaggio il liquido alla salute del parroco: e Agar profitta di tutto quel vago subbuglio per socchiudere le palpebre e fissarmi negli occhi. Un attimo; e la mia noia in qualche modo si scompone.
Qui mi fermo e sorrido di me stesso, ma non tanto, chiedendomi se, invece dell’Agar fantastica inventata dai pettegolezzi del paese, si trovasse davanti a me la semplice Rina nipote innocente del parroco, mi interesserei altrettanto alla sua persona.
Ma così è, amica mia: il male è sempre più interessante del bene; ed anche i santi, nei loro eremitaggi, soffrivano di tentazioni. Tentazione per me, adesso, più che altro, è questo padre Leone, che ha davvero dentro di sé una potenza stramba e selvaggia. Tanto egli fa e dice, nel circuirmi apertamente, e infine accostandosi a me a palparmi le spalle e le braccia come per provare la sua forza e la mia remissione, che mi costringe a promettergli di andare con lui al convento.
Non so, Noemi, se ti ho mai confidato che ancora non conosco questo triste luogo: nel breve tempo del mio sventurato fidanzamento, più di una volta io proposi a lei di andare a visitarlo: ella rispondeva, sì, sì, tanto più che era suo dovere di salutare le suore le quali, si può dire, l’avevano allevata; ma poi non se ne fece niente. Nutriva, lo intesi dopo, una specie di ripugnanza, quasi di terrore, per il luogo ove tanto melanconica e chiusa era stata la sua fanciullezza: parlava con dispetto delle suore, ma rabbrividendo ricordava il freddo dei lunghissimi inverni, la solitudine del suo spirito privo dell’affetto materno. Perché l’avessero cacciata lassù lo seppi solo dal racconto di Antioco: avrebbero potuto almeno metterla in un grande collegio; ma la madre egoista, il padre abulico e già malato, l’ava tremebonda, la volevano almeno sott’occhio, e credevano di sopperire a quanto le mancava col mandarle in convento la maestra di piano e quella di disegno, e compensare a parte padre Leone perché le insegnasse anche il latino: due volte la settimana, poi, e durante vacanze estive la portavano a casa. E una volta uscita dalla sua prigione, ella non desiderò rimetterci piede: del resto per poco tempo; poiché fu durante l’estate in cui ella uscì dal convento che ci si conobbe.
Fu certo per reazione, quasi per vendetta contro quella sua ingrata adolescenza che ella si gettò, appena si fu in città, coi larghi mezzi assegnati dalla sua famiglia, alla vita mondana. Eppure, nei momenti di abbandono, più che per amore per bisogno di sfogo, ella mi raccontava le sue disperazioni invernali, lassù, nel convento, senza fuoco, senza luce; l’acqua del fiume, anzi dei due torrenti che s’incontrano e si accapigliano sotto le mura dell’edificio, era sempre minacciosa e torbida: una notte salì, invase il cortile, penetrò nell’atrio. Furono ore di angoscia, specialmente per le ragazze pronte a tutte le fantasie: il pensiero dell’argine sorse in lei forse, quella notte: e se lo ricordò, certo, per istinto, per impeto del subcosciente, quando la disperazione della vita la travolse e la portò nella notte eterna.
Io avevo giurato a me stesso, Noemi, di non parlarti mai più di lei; e invece non faccio altro; è come un male che mi costringe a lamentarmi senza tregua. Qui, poi, io rivivo giorno per giorno la sua vita, respiro l’aria ch’ella respirava, la sento presente in ogni cosa.
Mentre si parte, con padre Leone, dopo esserci dato appuntamento davanti alla parrocchia, Agar si sporge da una finestra.
– Padre, padre; mi faccia un piacere; porti, per me, questo mazzolino alla Madonna.
E ci butta un mazzo, stretto stretto, di quei fiori detti di «ogni mese» color oro rosso, che hanno un odore quasi di cicuta: poi si ritira, senza lasciarci neppure il tempo di salutarla. Ho preso io, a volo, il selvatico mazzolino; e il padre pretende che lo porti io, sebbene ciò mi sembri ridicolo; tuttavia accosto i fiori al viso, e nel loro bottone dorato mi pare ci sia qualche cosa degli occhi di Agar, che mi sorride, mi stuzzica, mi distrae. E veramente ho bisogno di un po’ di distrazione, durante questo viaggio strano del quale non so ancora spiegarmi bene lo scopo solo mi sembra che, guidato come un cane al guinzaglio dal mio autoritario compagno, io compia uno di quei pellegrinaggi che i fanatici s’impongono, per voto e per espiazione, verso un santuario miracoloso.
Chi sa che un po’ di salvezza non mi aspetti? La mattina è tiepida, ma non serena: un cielo lattiginoso, la fiumana bigia, che si diverte a scavalcare il ponticello di legno come un ragazzo che salta con la corda: il cimitero, dopo la parrocchia, tutto infreddolito e lagrimoso di guazza, con le lapidi e le tombe, sulla china erbosa, che mi dànno l’idea di panni tesi ad asciugare. Una tristezza pietosa torna a stringermi il cuore come i bambini impauriti mi fermo davanti al cancello, e penso che ella deve aver freddo; poi, mentre padre Leone fa segni ed inchini che sembrano scongiuri, vedo, sugli scalini della tomba Decobra, entro una piccola urna di bronzo, un mazzo di fiori simile a quello che tengo fra le mani. Chi l’ha deposto? La famiglia? Ma la famiglia ha rose e garofani. Forse Agar?
Si riprende a camminare, sempre costeggiando la fiumana: ed ecco la seconda tappa della mia via crucis: la villa Decobra: ed anche qui mi fermo, quasi con ostentazione e per dispetto al frate che mi ha trascinato a questo viaggio.
Attraverso le sbarre di ferro battuto, che finiscono in lance dorate, rivedo il viale in salita, tutto bianco e duro di ghiaia, tra due fila di cipressi, che oggi s’intonano col colore del mio spirito; ma tutto, oggi, ha pure un significato quasi mistico, di elevazione; e questi cipressi, che tendono al cielo, con le cime appuntite, mi dànno l’idea di grandi misteriosi uccelli, con le ali raccolte, dritti come gli aironi su una gamba sola: la linea di una larga e lunga aiuola, tutta dorata di fiori simili a quelli del mio mazzolino, si stende, simile a un tappeto di altare, sotto la scalinata della villa; ed anche le vetrate in fondo al portico d’ingresso, hanno un tenue splendore rossastro, come illuminate internamente da ceri accesi; mentre, sulla loggia, la balaustrata di marmo bruno si affaccia, un po’ desolata, quasi ascoltando il desolato rumore dell’acqua della quale riproduce il freddo umido chiarore.
Sopra la villa le grandi cupole dei castagni si tingono di una lieve promessa di sole; il sole, infatti, appena noi si riprende il viaggio, si libera dai vapori dell’orizzonte; ogni cosa si rallegra; i carbonai che scendono la strada dei poggi ci salutano e sorridono, quasi per farci vedere che almeno i loro denti sono bianchi; e padre Leone li benedice, loro coi loro asinelli, i cani, i sacchi di carbone; e in questo ha davvero qualche cosa di francescano schietto, che mi riconcilia con lui.
Quando si arriva davanti al convento io sono già un altro, disposto a tutto, persino a voler bene alle suore: e d’altronde il luogo desta davvero un senso di pietà. È triste anche sotto la luce del sole: a parte la facciata tinta alla meglio, con un portico lastricato di pietre di fiume, il resto è in perfetta decadenza: i muri scrostati, il lembo del tetto privo di embrici, che dà l’idea di una bocca sdentata, i vetri rotti delle finestre, mi dànno l’impressione che l’edificio, così sospeso sulle due correnti fragorose, sia un mulino abbandonato. Un noce secolare, a fianco del cortile, gli dà però un’aria pittoresca, di vecchia stampa romantica. Entriamo per una porticina laterale, in un lungo corridoio illuminato solo dalla luce fredda che scende dalla finestra della scala: ci riceve un’alta suora pallida, con l’abito stinto, con gli occhi azzurri stinti, che però si animano di una luce ridente per la presenza del miracoloso forestiere: poiché tutto il convento sa già quello che si può aspettare da lui.
Le consegno il mazzolino, del quale mi rimane l’odore aspro sulle dita, ed ella, più silenziosa di un’ombra, ci precede. Che tristezza, quel corridoio che ha sentore di sotterraneo, e quella scala di pietra che pare scavata nella roccia: i gradini corrosi dànno l’impressione che bocche selvagge e disperate li abbiano, per secoli, rosicchiati; con l’esasperazione dei bambini quando mettono i denti: e il mio pensiero è sempre con lei: lei che sale lieve questi scalini, dapprima troppo alti per le sue piccole gambe; poi sempre più agile e svelta, pronta alla fuga: lei che, arrivata al pianerottolo si ferma a guardare, attraverso la vetrata polverosa, il poggio verde solitario con in cima una croce che pare quella di un calvario.
Il fiume da qui non si vede, ma se ne sente il rumore, minaccioso, impressionante, come nei sogni. E nei sogni spauriti ella forse sentiva questa voce, e pensava al modo di salvarsi dallo spaventoso pericolo.
La sala di ricevimento sarebbe al pian terreno; ma la Madre Superiora ci riceve nella sua camera, poiché i dolori artritici dei quali da lungo tempo soffre le impediscono di muoversi. Seduta su un alto seggiolone a colonne, che pare un trono, ha un aspetto di potenza quasi pontificale: il viso bianco cascante, la bocca piccola e stretta, gli occhietti verdi circondati di minutissime rughe, e sopra tutto la persona gigantesca, le dànno, oltre all’aspetto imponente e ieratico, un non so che di antico, come di una statua di pietra, che più non vive una vita mortale, ma una vita da monumento. Tuttavia, quando comincia a parlare, – e parla in dialetto, poiché, al contrario delle precedenti Madri, tutte di famiglie nobili, ella è una schietta contadina, – la sua voce maschia muta l’atmosfera dell’ambiente. Anzitutto s’informa della salute del parroco; domanda notizie di Agar; notizie del nuovo podestà: è informata di tutto; e a tutte le sue domande padre Leone risponde sorridente, scintillante, con un certo spirito civettuolo, quasi voglia farle la corte: finché ella, da padrona dispotica e incurante delle adulazioni, gli ordina di far portare il caffè. Ed egli va, scivola silenzioso, sparisce; la Madre tace e mi guarda fisso si sente, per la vasta camera nuda e fredda, il rumore del fiume, padrone assoluto del luogo.
Con le mani immobili intrecciate sul grosso ventre, ella dice:
– Vede, non abbiamo neppure un campanello, qui: ne ho uno, a corda, sopra il letto lo vede? Ma ha un suono di piffero, che questo boia di fiume si mangia come ridere.
Proprio così: questo boia di fiume: ed io sorrido, compiacente, pur avendo già capito l’antifona.
– Povere siamo, – ella riprende, sforzandosi da un accento solenne, falsamente commosso; – e povere il Signore vuole le sue serve. Ma c’è un limite a tutto: non abbiamo riscaldamento, non luce elettrica, e quasi neppure acqua perché quella del maledetto fiume non è potabile: e intanto essa ci si mangia, sotto, ci corrode; farà un giorno di noi e della nostra casa una bella zuppa. Lei ride? Ho piacere: è giovane, lei, è un ragazzo: ma la vita le insegnerà molte cose; meglio che un maestro a pagamento.
– La nostra Comunità era ricca, – riprende, severa; – non per fare della storia, ma per la verità, le dirò che le nostre suore, verso il 1490, possedevano circa mille tornature di terra, con boschi, vigne, oliveti e seminati; tanto che un breve di papa Clemente VIII, le mise, le nostre suore, anche in possesso della chiesa di Sant’Antioco, perché la tenessero da conto e la aiutassero nella sua povertà. Poi tutto andò in malora: i fattori si mangiarono a poco a poco il nostro patrimonio, i governi ci rovinarono con le tasse: siamo ridotti in miseria perfetta, adesso; a volte qui, oltre il freddo, l’umido, le malattie, si soffre quasi la fame. L’unica risorsa sono le ragazze, che le buone famiglie dei dintorni, ci affidano: il mensile da loro versato è però appena sufficiente per nutrirle e tenerle bene; il loro numero, poi, diminuisce di anno in anno, appunto perché durante l’inverno le care fanciulle stanno molto a disagio; noi facciamo il meglio che si può; ma, nonostante la nostra fede, miracoli non ne avvengono. Eppure speriamo ancora. (Qui gli occhietti della Madre brillarono come le lucciole, nel tenebrore del suo funebre discorso; ed io capii benissimo che il miracolo lo si aspettava da me). Adesso, se non le dispiace, pregherò padre Leone di accompagnarla a vedere i nostri locali. Vedrà che pulizia, che precisione, che ordine. Si fa quel che si può: e di qui escono giovinette che onorano la famiglia e la società: timorose di Dio, oneste, felici.
Io l’ascoltavo; ma ascoltavo anche la voce del fiume, e il senso di oppressione che da poco mi aveva lasciato, riprendeva a serrarmi il cuore. Pensavo: ci vuole una bella faccia tosta, a parlarmi così; così, a me, che so in che modo la sventurata Pia uscì macerata da questo luogo. Ma una vaga paura si univa alla mia pena: mi pareva che la Madre giudicasse male, a sua volta, nella sua cupa coscienza, la mia impassibilità. Doveva anche lei pensare che la tragica fine dell’infelice creatura era dipesa da me. Come una colomba, ella era caduta nelle grinfe del falco assassino. E adesso, doveva pensare la Madre, adesso, signor carnefice, paghi almeno il fio del suo misfatto; versi una buona somma per riattare il convento. Infatti proseguì:
– Persino l’organo, in chiesa, non funziona più: a causa dell’umido. Una delle suore si ostina a suonarlo, ma più armonia fa il vento nella gola del camino. E una chiesa senza organo è come una fontana senza acqua. Adesso speriamo nel nuovo podestà, che se non potrà lui, poiché anche il Comune è pieno di debiti, cercherà più in alto. È bravo, il signor Pellegrino, religioso e serio, mentre l’altro era… boh, puff… puff…
Ella gonfiò le guancie; fischi e soffi uscirono dalla sua bocca di pesce: pareva una maschera buffa e tragica nello stesso tempo: e non ebbi neppure l’idea di difendere Antioco, tanto la derisione e il disprezzo per lui erano formidabilmente radicati nell’anima della Madre: anzi ne rimasi sgradevolmente suggestionato. Però non la incoraggiai a proseguire, ed ella intese. È una donna molto diplomatica, e le sue stesse espressioni burlesche giovano a rinforzare la commedia dei suoi discorsi.
Tornò la lunga suora pallida, seguita da padre Leone scodinzolante e allegro come un cane fedele.
Il caffè era squisito; e c’erano anche, in un cestellino di metallo, certi dolci che sembravano frutta candite.
– Tutto fatto dalle buone sorelle, – disse la Madre, rallegrandosi per il caffè. – Sono brave in tutto: cavano il filo persino dalle ortiche. Fanno il pane, le ostie, tessono, rattoppano le scarpe; si sono messe persino a fare da muratore, con le loro manine di cera; ma ci vuol altro. Prenda, prenda un altro amaretto, signor… signor…
– Conte Franci, – aiuta padre Leone, con la massima deferenza: anzi pare che il mio titolo gli riempia di molle dolcezza la bocca, come questi dolci che hanno un sapore quasi voluttuoso.
Al sentire il mio nome, anche la scialba suora che tiene in mano il vassoio con atto supplice e umile, si accende tutta; ma subito abbassa le palpebre e il suo viso ridiventa d’avorio: però, quando la Madre, dopo aver di nuovo enumerato tutti i bisogni e le virtù del Convento e della Comunità, la prega di condurmi a visitare i dormitori e la sala di lavoro (le aule no, poiché è l’ora delle lezioni), mi accorgo che ella ha una lievissima vibrazione fra di sorpresa, di sdegno, di piacere. Andiamo dunque, mentre il Padre e la Madre, di perfetta intesa fra di loro, confabulano su certi affari di amministrazione: andiamo, la lunga suora davanti, io dietro; la scala per salire al piano superiore si fa più ripida, e la finestra dell’ultimo pianerottolo, chiusa con un lucchetto, ha un chiarore lunare.
– È chiusa in questo modo, – spiega la suora, – per impedire alle ragazze di affacciarsi. Ci sono testoline matte, fra di loro.
Anche di queste parole ella si pente subito due pieghe profonde le solcano il viso, di nuovo le palpebre si abbassano; e quasi di corsa mi precede fino al corridoio sul quale si aprono gli usci dai quali vien fuori, rinforzata, la voce del fiume.
– Questa è la sala da lavoro, e questa è la stanza del telaio.
Il grande telaio con una tela grezza a metà distesa fra i suoi ormeggi, non mi interessa gran che; e neppure la sala da lavoro, con una tavola ingombra di carte, disegni da ricamo, modelli di vestiti: mi colpisce di più un salottino attiguo, con un piccolo pianoforte che sembra una pianola e un cavalletto con una tela ingenuamente disegnata.
Torna a commuovermi il dormitorio, veramente spazioso e arioso, diviso da un arco con una tenda che si gonfia come una vela, per l’aria che corre da una finestra all’altra.
Il luogo è confortevole; un’oasi del tetro convento. Dalla vôlta candida pendono tre lampade a sospensione, coi paralumi di merletto le pareti laccate brillano come specchi; oleografie con Madonne vistose, panneggiate di rosso e azzurro contadinesco, sorvegliano i lettini candidi, ciascuno con accanto il suo tavolino pulito, il cero, il crocefisso, il ramo di olivo.
Senza più aprir bocca la suora mi fa entrare nel reparto separato dalla tenda: qui i lettini sono ancora più lindi, con piumini, guanciali, fodere ricamate: è il reparto per le educande aristocratiche. Qui, certo dormiva lei, forse accanto alla finestra dalla quale più insistente penetra il rumore del fiume. Guardo in silenzio: sulla parete sopra il tavolino c’è un’immagine con una barchetta che attraversa una corrente, trasportando una colomba: e, scritti in oro, questi versi:
Entro la fida barca,
col favor di Maria,
la colombella varca.
Sulla parete sopra il tavolino attiguo noto, invece, un’Immagine triste, bianca e nera, col Figlio di Dio in croce. Dicono i versi:
Teco vorrei, Signore,
oggi portar la croce,
in tua doglia atroce,
o mio Redentor.
Non so come, l’Immagine si stacca, cade sul marmo del comodino; io faccio a tempo a prenderla, e sul rovescio leggo un nome: Agar Bellini.
Come di tutti gli avvenimenti di queste ultime settimane, la visita al convento mi lascia una impressione di sogno: uno di quei sogni di fuga, di tentativi per scampare a grotteschi e nebulosi disastri; e non ci si riesce se non svegliandosi angosciati. Cerco dunque di svegliarmi e ritornare ad una realtà relativa.
Ho lasciato una discreta offerta alle suore del convento, e ciò ha convinto la Madre che non voglio assumere altri impegni: ho disilluso anche don Achille, sebbene, a dire la verità, il restauro della chiesa mi seduca; lascio però il progetto a quando quello dell’argine sarà esaurito. Per scuotermi da questa rete d’interessi che tenta di assopirmi in vaneggiamenti infecondi, ho deciso di recarmi oggi a sollecitare l’ingegnere del Genio Civile: e, se occorre, tornerò a Roma, per meglio riuscire.
Andavo dunque a cercare la piccola macchina d’affitto che staziona pomposamente nella piazzetta davanti alla farmacia, quando da questa vedo uscire, tutto preoccupato, con un involtino in mano, padre Leone. Nel riconoscermi s’illumina in viso e mi corre incontro premuroso.
– Sa, don Achille sta male. Si è voluto alzare, ieri; è sceso in chiesa, ha preso freddo: e oggi ha una febbre da cavallo. Il dottore ha paura di qualche complicazione. Venga a vederlo: è un’opera di carità.
E così, il frate mi rimorchia un’altra volta con sé. Agar si affaccia sull’alto della scala, ed io ho l’impressione ch’ella mi aspetti: i suoi occhi si sono fatti quasi neri, tristi, preoccupati; ma quando la saluto si rischiarano, riflettono il mio viso, mi dicono che io sono già diventato il suo segreto pensiero. Ed io, senza volerlo, me ne compiaccio: sono giovane, sono uomo, sono un debole uomo. Da tre mesi vivo in perfetta castità; ed è primavera; quel principio di primavera più eccitante della stagione aperta: lo stesso vecchio Paolo sente il rigermogliare della natura, come lo sentono le patate, le gramigne, i viticci che si arrampicano sui muri della chiesa…
Padre Leone ci raggiunge svelto sul pianerottolo, e deve accorgersi dell’improvviso incantesimo nostro, mio e di Agar, perché dà un colpettino sulle spalle della fanciulla, per richiamarla al senso della realtà: ella però si ribella; scuote le spalle, come se il colpo le abbia fatto male, e rivolge uno sguardo obliquo, cattivo e sdegnoso, al frate prepotente.
Nella camera di don Achille osservo un certo disordine; è, adesso, la camera di un vero malato, con l’odore caratteristico di caldo marciume, che emana il corpo umano arso dalla febbre. Il povero parroco è rosso in viso, con un fazzoletto bagnato sulla fronte: ha l’aria spaurita di un colpevole.
Padre Leone gli fa sorbire la medicina, poi ordina ad Agar, rimasta lì come sospesa in una nube:
– Va a portare il caffè. Cammina.
Ella cammina, ma come un uccello, con un trepido passo saltellante: una treccia le si è sciolta e le serpeggia sulle spalle, attirando i miei sguardi come il passaggio di una stella filante.
– Dunque, don Achille – dico, scherzando, – abbiamo fatto i capricci, ieri? E così oggi la scontiamo? E se non la smette di fare di testa sua, le mettiamo la camicia di forza.
Egli sorride, beato di sentire la mia voce, mentre padre Leone si diverte a ripetere più volte:
– Camicia di forza, camicia di forza…
Poi, fra me e lui, si comincia a parlare delle cose del paese, del nuovo podestà, del maestro che deve sposarsi con la maestra, e infine della visita al convento. Don Achille si scosta il fazzoletto dalla fronte e apre inquieto gli occhi: capisco che egli è geloso delle suore, e per rassicurarlo dichiaro francamente che non intendo inframmettermi nei loro affari: troppo ci sarebbe da pensare. A sua volta padre Leone si oscura in viso: se la prende con Agar, che tarda a venire, e va di nuovo a chiamarla.
Allora don Achille tira fuori, rapidamente, dal groviglio delle coperte, la sua manaccia calda e rossa e me la porge mormorando:
– Lei è un gran bravo uomo; – e fa appena in tempo a ricoprirsi, mentre, invece di Agar, entra col vassoio del caffè una vecchia contadina che ha una straordinaria rassomiglianza con la domestica di Antioco: gli stessi occhi buoni e carezzevoli, lo stesso fazzoletto legato sulla nuca.
– È la nostra governante e ortolana, – dice padre Leone.
– Si rassomiglia alla Francesca dell’ex podestà.
– Sono la sua mamma, – ella risponde, fredda; e uscita lei il frate mi spiega, con segreto e con malizia:
– La nostra buona vecchietta non ama le si parli della figlia, perché la Francesca, brava donna, non si nega, ma leggerina e testa calda, dicono sia l’amica del padrone: e il bambino loro figlio.
– Oh, oh! – Cose semplici, naturali, che tuttavia, a sentirle la prima volta fanno una certa impressione.
Impressione, non del tutto piacevole, mi fece anche l’invito del frate di restare a colazione nella parrocchia; e le parole che, per convincermi ad accettare, pronunziò don Achille:
– Rimanga: resterà anche padre Leone; e Rinuccia farà loro compagnia.
Accettai, anche per un torbido istinto di reazione; poiché il demonio mi suggeriva la malvagia idea che persino don Achille, il povero don Broccolo, mettesse avanti la nipote per i segreti suoi fini.
Sì, Noemi, questo è il mio dubbio crudele: che tutti cerchino di ingannarmi, anche i santi, anche le monache, tutti, per i loro fini di esistenza, come gli animali più forti tendono l’agguato ai più deboli.
E padre Leone non mi abbandona un istante: per distrarmi, però, mi invita a visitare l’orto della parrocchia, ed io lo seguo, dico il vero, con una certa curiosità, fermo tuttavia nel mio proposito di non lasciarmi trascinare oltre il limite delle mie oneste intenzioni.
Scendiamo dunque la ripida scala, che, fra il buco dell’abbaino e lo sfondo giù della porta aperta sullo spiazzo erboso, dà l’impressione di uno dei sentieri tagliati sul poggio pietroso. Ho la speranza che la mia guida mi faccia attraversare la cucina, anche perché io amo molto queste vecchie cucine paesane, col grande camino nero, gli utensili ancora medioevali, le figure primitive che vi si muovono, il gatto che si inarca strofinandosi contro i mobili.
Ma il padre mi fa uscire sullo spiazzo e spinge il cancelletto dell’orto, chiuso da un semplice saliscendi. L’orto, come dissi, è in salita: una specie di vialetto coperto da un pergolato ancora nudo, corre su fra il muro di cinta e una siepe di mortella. Si sente l’odore della terra, del rosmarino, degli ortaggi concimati; il silenzio è attraversato dai gemiti amorosi delle cornacchie che s’inseguono sopra il campanile della chiesa. Mi domando in qual punto Agar usa fermarsi coi suoi misteriosi amici notturni; e d’improvviso la mia curiosità si fa quasi gelosa. Quali sarebbero questi amici? Conosco press’a poco tutti i giovanotti del paese, ma son contadini, operai, piccoli negozianti: e mi rifiuto a credere che la nipote del parroco possa degnarli dei suoi favori. Inoltre osservo che l’orto non ha quei recessi ombrosi necessari ai convegni segreti: è una specie di bandiera verde, spiegata sull’asta del vialetto, con un ondulare argentato di cavoli, di carciofi, di rape: il terreno è molle, smosso, e facilmente si scivola. Solo in alto, sulla muriccia che lo divide dalle sovrastanti chine del poggio incoronato di ulivi e di quercioli, c’è un po’ di godimento: ci si può sedere, su questa muriccia, e dominare il paesaggio, giù fino al fiume, e su fino ai poggi di fronte, tutti boscosi, freschi, e in quest’ora felice del mattino, pieni di luce, di voli d’uccelli, di canti d’amore.
Amore, amore. Si sente, si respira l’amore in ogni cosa: la terra è come un adolescente che non ha altro pensiero.
Bisogna dire però che a sinistra dell’orto, dopo un sentiero solitario, si vede la linea funerea dei cipressi del piccolo cimitero; e più oltre la massa verde-scuro del parco Decobra: quindi io cerco di guardare sempre a destra, sopra la parrocchia e la valle. Nel cortile della casa si sentono gridare le oche, e un nugolo di colombi violacei volteggia sopra i tetti. Osservo che una porticina comunica fra il cortile e l’orto; e mi tornano i cattivi pensieri a proposito di Agar. Ma perché? È una ossessione, una forma di tentazione carnale, dalla quale invano tento di liberarmi.
Mi sbaglierò, ma persino padre Leone sente oggi il fermento della primavera: è acceso anche in viso, e i suoi occhi grigi hanno un languore femmineo: mi pare rassomiglino a quelli di Agar: e anche questo è un pensiero suggeritomi dal demonio. Eppure non so vincerlo; e mentre stiamo seduti sulle pietre della muriccia gli domando se conosce da molti anni don Achille. Egli fa un gesto vago, che delinea il tempo e lo spazio, e comincia a raccontare.
Sì, conosce da molti anni il parroco: sempre amici sono stati: conosceva anche la sorella di lui, morta da poco: Agar però è figlia di un’altra sorella, una contadina madre di quattordici figli.
– Morta la sorella, che badava alla casa, don Achille ritirò la nipote dal convento; ma è una sventata, e per sorvegliare l’orto e la cucina, s’è preso a mezzo servizio la vecchia Rosa, brava a tutto. Suona anche le campane, e, se glielo permettessero, farebbe anche da beccamorti. Per fortuna, qui di morti ce n’è uno ogni tre o quattro anni: salute e vita. Né morti né carcerati. Il brigadiere sbadiglia tutto il giorno, e dice che lo hanno mandato qui in punizione: per fortuna, sì; e anche lui si conforta col nostro vinetto e con le donnine facili: oh, di queste non c’è davvero carestia. Povero don Achille! Dopo la rovina della parrocchia, questa delle donne pagane è il suo martirio. Non si riesce a convertirle: è più facile con le donne della Patagonia. Ma che si può fare? È l’aria.
Alquanto piegato verso terra, egli sputa come un pastore: poi si solleva, i suoi denti brillano al sole; e pare che anche lui voglia abbandonarsi all’ebbrezza di quest’aria meravigliosa.
Aria che influisce anche sul malato; poiché, nel rientrare in casa, la vecchia ci dà la buona notizia che la febbre di lui è miracolosamente diminuita, e domanda con rispetto se, per fargli compagnia, vogliamo far colazione nella sua camera.
Agar ci aspetta di nuovo sul pianerottolo: sembra un’altra, lieta, ridente, con un mazzo di coltelli in mano, che, per sfogo di buon umore, brandisce contro padre Leone.
– Questi sono per lei, piccolo padre. Oggi le deve scontare tutte.
– Smettila, – egli dice, accogliendo male lo scherzo: e poiché ella vi insiste, la guarda minaccioso, costringendola ad allontanarsi e abbassare la testa impertinente. Oh, egli deve essere bene a conoscenza delle cose illecite di lei, se ha tanto potere di intimidirla e dominarla.
Nella camera di don Achille la finestra è spalancata, il letto aggiustato, egli ha ripreso il suo colore naturale, e mi dice con voce commossa:
– È stato lei a fare il miracolo.
Mi guardò con occhi tanto sinceramente affettuosi che mi sentii d’un tratto a mio agio, come uno di famiglia, e non trovai nulla in contrario che si apparecchiasse la tavola in camera sua.
Venne su la sora Rosa, con la tovaglia e i piatti e domandò a me che ne era avvenuto della signorina Agar e dei coltelli.
– Che ragazza, Dio mio, – sospirò; andò a cercarla, e per un pezzo non si seppe nulla neppure di lei.
Ed ecco finalmente padre Leone, con la zuppiera vaporante fra le mani: lo seguiva Agar, col cestino del pane, e sembrava lei, adesso, il cagnolino, mortificata e attenta, con le treccie incrociate ipocritamente sul petto come una piccola sciarpa.
Non mi guardò in viso: tuttavia osservai che, o per meglio piacermi, o da signorina bene educata, per mettersi a tavola, aveva fatto toeletta: ed era veramente bella, col suo vestito di lanetta rossa, la cintura lucida, le calze di seta: anche in cima alle treccie aveva messo due anellini rossi, e rossa era la collana che sulla fossetta della gola versava come una grossa lacrima sanguinante. Mi ricordò Salomè: e glielo dissi, per mettermi dalla sua parte contro il tirannico padre Leone. Tirannico, a poco a poco, anche con me: pretendeva che io mangiassi il doppio di quanto veramente ne sentivo il bisogno; mi riempiva di continuo il piatto e non lasciava che Rosa lo portasse via finché non era vuoto. Così, premuroso e quasi preoccupato, lasciò cadere la mia osservazione sulla bellezza ambigua di Agar: mi parve però lo facesse apposta; e insistei:
– Ma, signorina, perché non si taglia le treccie? Chi le porta più, ormai, se non appunto le eroine dei quadri antichi?
Ella le sollevò e poi le incrociò di nuovo sul petto, con un gesto che le è abituale, pudico e provocante nello stesso tempo.
– È un voto, – disse: e non so se ella scherzasse o parlasse sul serio: – quando saranno lunghe fino alle ginocchia, le taglierò e le offrirò alla Madonna.
– Voti da marinaio, – brontolò il frate; e sebbene io fingessi di non capire, ella scattò fra inviperita e supplichevole, e d’impeto esclamò:
– Perché da marinaio? Che ho fatto, io? E lei, padre, i suoi voti non li ha mantenuti?
Poi si frenò, anzi ricadde in uno stato d’animo che le è frequente, che si direbbe di indifferenza e distrazione, se non si notassero sul viso i segni di una tristezza disperata.
– Sa, – disse padre Leone, mettendomi sul piatto un’enorme coscia di gallina: – io sono stato fra i selvaggi, ed anche fra i cinesi, che sono più crudeli e barbari dei pellirosse: qualche cosa le ho raccontato, qualche altra, se ne avrà piacere, le racconterò.
– Sì, padre, racconti. Ho letto ieri un articolo scientifico molto interessante. I cannibali, che noi riteniamo la peggiore specie terrestre, sono tali, invece, perché l’istinto della conservazione li spinge a nutrirsi di carne umana. Durante nove mesi dell’anno essi vivono di erbe e di cibi che, per la natura del suolo locale, mancano di vitamine: e, durante quel periodo, diremo di castità, essi sono miti, buoni, deboli: ma giunta la stagione del loro esaurimento fisico hanno bisogno, per ricostituire il loro organismo, di carne d’uomo, e specialmente d’uomo bianco, che è la più ricca di vitamine: non è dunque per efferata crudeltà, ma per necessità di vita. La scienza adesso spiega meravigliosamente le cose che più hanno afflitto le nostre speculazioni sulla natura umana.
– La scienza, la scienza, – cominciò a gridare padre Leone; e parve poi còlto da un senso di soffocamento. – Prima della scienza, – riprese, calmandosi, – la religione di Cristo ha tutto spiegato, nel mistero dell’essere umano: tutto si chiarisce, sì, con l’amore e la carità: e, prima dei signori scienziati, siamo stati noi, semplici pionieri di Dio, ad arrivare ai recessi dove si annidano gli uomini i più lontani dalla civiltà: e abbiamo pagato con la nostra carne stessa l’esperienza di vita di questi esseri, li abbiamo avvicinati a noi, alla luce divina della religione cristiana.
Di nuovo egli riprende a raccontare episodi e avventure di missionari, nelle regioni infestate dai selvaggi, e peggio ancora, al dire di lui, dai pagani fanatici, più feroci degli antropofagi: sono indubbiamente racconti straordinarî, ai quali per un po’ si dà attenzione; ma a lungo andare vengono a noia: infatti Agar, che è quella fra di noi la più sincera, d’improvviso sbadiglia come un gatto, volgendosi però a guardare se lo zio protesta, e per farsi perdonare lascia cadere queste parole strabilianti:
– Sì, c’era il signor Antioco, il podestà, che voleva farsi Missionario.
Una risata mia e di padre Leone, che pare una grandinata, accoglie questa notizia, mentre don Achille, nel suo lettuccio verginale, solleva gli occhi al soffitto, con uno sguardo fra di misericordia e di speranza: speranza, si capisce, nella conversione totale degli uomini alla legge di Dio: ma il suo segreto giudizio circa i sentimenti e le intenzioni del mio amico Antioco è forse più inesorabile del nostro. Padre Leone, intanto, dopo il primo impeto d’ilarità, torna a rabbuiarsi e domanda ad Agar:
– E chi l’ha detta, a te, questa panzana?
– Rosa. E non l’ha sentita dalla figlia, ma dalla signorina della posta, e poi anche dalle donne che lavano al fiume.
– Buono quel fiume! È il nostro gazzettino, il nostro giornale umoristico.
– I giornali umoristici sono spesso quelli che più dicono la verità.
Questa spiegazione la sentenzio io, in tono solenne; ma con un senso di amarezza penso che dalle rive sbattute del fiume salgono anche le voci sul conto di Agar.
Ella intanto conserva, davanti ai miei occhi sempre più attenti a studiarla, la sua vibrante bellezza di ritratto vivente: come una bambina innocente è pronta a ricambiare i miei sguardi, a ridere se io rido; ma i suoi occhi hanno spesso una luce di malizia non del tutto ingenua, ed anzi le sue pupille mi ricordano la luce doppia, casta e voluttuosa assieme, che un poeta latino attribuiva alle donne dei protosardi, che destava un senso d’incantesimo e di malia in chi osava fissarle.
Si parla, per curiosità e incitazione mia, di Antioco: e padre Leone è davvero feroce nel gusto di poterselo sbranare a suo agio.
– Lei, signor ingegnere, afferma che egli ha dato le dimissioni da podestà? Gliele hanno fatte dare, invece, e come! Per conto suo ci sarebbe rimasto a vita, facendo il comodo suo s’intende, per quanto poco ci sia da raspare nel nostro Comune; ma, insomma, sempre qualche cosa c’è, per le persone di buone unghie e di buoni denti. E adesso egli ha filato alla volta di Roma, in cerca di fortuna. Altro che Missioni francescane: ci vogliono le regioni dove gli uomini vanno alla caccia dell’oro, per quel pioniere lì.
– Padre Leone! Padre Leone! – implora la voce caritatevole del parroco.
– Che c’è? – risponde il padre, imitando la voce distratta di Agar. – Ah, la verità punge. Chi però non sa, nel raggio di venti chilometri qui intorno, ed oltre ancora, che il signor Antioco ha bisogno di denari? Non si afferma, con questo che egli sia un ladro, un assassino o un baro. Gioca, è vero, ma con regola d’arte: vince e perde; ma questo è affar suo. E, del resto, adesso che è andato via, gli diamo di tutto cuore il buon viaggio; tanto più essendoci la probabilità che egli non torni più in questi luoghi. E Dio gli conceda pure fortuna e lo richiami nella sua via.
– Amen, – dico io: poi tento di difenderlo. – L’ho conosciuto poco, e soltanto di recente; tuttavia mi è parso un bravo e simpatico giovane. Le voci che corrono saranno forse le solite chiacchiere del locale gazzettino.
Ma la mia difesa non ha effetto: anzi rattrista padre Leone, che scuote la testa con risoluti gesti negativi
– E?, no, no! C’è del marcio in Danimarca. Non si nega che egli sia un giovane intelligente, colto, simpatico: non si fa per dirne male ad ogni costo; è meglio però, dato il suo carattere e le abitudini semplici di questi luoghi, che egli se ne sia andato: non è aria per lui.
– Ma, infine, potrei sapere che cosa ha fatto? Non per gusto di maldicenza, dico pure io, ma per amore di verità. Dicono che il disgraziato bambino della sua domestica sia suo: altro, di concreto, contro di lui, non ho sentito.
– Lei è buono, signor Conte, – esclama padre Leone; e pare che egli mi dia il mio titolo per rinforzare la sua certezza che io sono un gentiluomo sul serio. – Non bisogna essere troppo ottimisti: l’ottimismo cieco e completo lasciamolo al nostro don Achille: è suo patrimonio e nessuno, neppure il fuoco, se gli arriva ai piedi, può toglierglielo; ma la verità è la verità, pur troppo: e la verità, in questo caso, è che fra giorni la Francesca e il suo infelice bambino saranno cacciati fuori di casa, e se la vecchia Rosa non li accoglie nella sua baracca, dovranno forse dormire all’aperto. Si fa per dire, perché, insomma, la Francesca è una donna che sa barcamenarsi. Sì, – aggiunge, alzando di nuovo la voce severa, – la villa, i mobili, la terra, tutto ciò che rimane al signor Antioco, lavoro onesto del padre, tutto andrà all’asta; perché egli è pieno di debiti, fra i quali, pare, alcuni poco decorosi; debiti di gioco e altro. Tutto all’asta; a meno che in questi giorni egli non trovi a Roma la miniera che cerca.
– Oh, questo proprio non lo sapevo.
Guardo Agar, quasi aspettando da lei una conferma alle parole del padre: ella infatti ride, felice di veder completamente demolito il suo presunto Missionario; e per maggior crudeltà lascia cadere queste parole, che rimbalzano sulla tavola in disordine come i frantumi di un bicchiere rotto:
– Oh, per questo, finirà col trovare una moglie ricca; egli l’ha già forse in vista. Del resto si contenterebbe di sposare, una volta vedova, anche la signora Dionisia Decobra.
Questa volta nessuno protesta: ma il nostro diverso silenzio fa vivamente arrossire la fanciulla.
Dopo di che ella fu presa da una inquietudine nervosa, della quale io, più che gli altri, mi accorgevo: non mi guardava più, anzi si alzò di tavola e andò via. Ritornò su la vecchia Rosa; sparecchiò, aiutò padre Leone a sistemare il malato nel suo lettuccio; e questi, mentre io prendevo congedo, mi strinse di nuovo la mano in modo significativo, guardandomi fisso e amichevole come se fra noi ci fosse un’intesa segreta.
Il frate disse che era costretto ad andarsene anche lui; raccomandò alla vecchia di badare al padrone, di non lasciarlo solo, di fargli prendere la medicina; e aspettò che si andasse via assieme, facendo un gesto quasi sprezzante, come a dire: – non ne vale la pena – quando io espressi il doveroso desiderio di salutare la signorina. Ma la signorina era in agguato, e saltò fuori da un uscio del corridoio, rossa in viso come il suo vestito: anche gli occhi aveva rossi si vedeva bene che aveva pianto. Mi domandò scusa delle impertinenze dette a tavola, e a sua volta alzò le spalle quando risposi che, se mai, le scuse doveva farle a padre Leone: il quale, uscendo precipitoso, certo che io lo avrei seguito, batteva le mani gridando:
– Andiamo, andiamo.
Ma io tenevo la mano di Agar nella mia; e mi pareva di aver preso un uccello, tanto quella mano era morbida, calda e pulsante: ed ella si piegò un poco, sulle nostre mani unite, e mormorò, quasi parlando solo ad esse:
– Ho bisogno di dirle una cosa. Ritorni.
Ritornare? Quando? Ella non lo disse. Ritorni. Tanto tempo c’era, davanti a noi; quel giorno, quella notte, l’indomani, tutta la vita. Che voleva dirmi? Che voleva da me?
Accompagnai padre Leone per un pezzo di strada; fino alla villa; tornando indietro mi fermai davanti al cancello del cimitero, mi ci appoggiai come un mendicante stanco; avevo voglia d’inginocchiarmi, di chiudere gli occhi, di dormire, di morire. – Prendimi, prendimi, – dissi alla morta; – sono stanco di questa vita inutile e vile.
I fiori dell’urna, nello spigolo della sua tomba, si erano appassiti, l’odore dei cipressi e della mortella dava all’aria come un sapore di assenzio: lo stesso odore, lo stesso senso di morte mi rigurgitava su dal cuore; e sentivo bene che era, più che altro, un tremito di paura: paura della vita. Ma che aiuto poteva darmi la povera morta che si era stroncata sotto l’impeto di questa medesima paura?
E allora pensai a te, Noemi: tu sola potresti aiutarmi. Perché non lo fai? A che serve la tua vita? Perché non mi salvi?
Sono otto giorni, Noemi, che aspetto invano una tua sola parola. E neppure io so bene quello che voglio da te; non amore, certo, poiché so che tu non sei capace di amare; e neppure carità o pietà, perché questi sentimenti non farebbero che accrescere il mio male: eppure aspetto ancora: è come la speranza di un miracolo o come il sogno di un infermo, che è certo di guarire se potrà recarsi in pellegrinaggio a qualche luogo santo.
E infermo lo sono, certo, di carne e di spirito, ma non dispero di sollevarmi. Non sono più tornato alla parrocchia: so d’altronde che don Achille è guarito e frate Leone se ne sta, quindi, nei suoi conventi. Per darmi l’aria di fare qualche cosa, vado a cercare l’ingegnere del Genio Civile, nella cittadina qui sotto, dove le colline si distendono in pianura: pulita e solida, cittadina storica, che a guardarla dall’alto della strada pittoresca, sembra un cortile antico, con la fontana in mezzo, circondato di portici sopra le cui loggie si elevano bassi fabbricati neri; il Municipio di fronte alla chiesa e al vescovado, due porte ad arco, una di fronte all’altra, e alle cui soglie si fermano, con riverenza e omaggio, i rami dello stradone provinciale. La popolazione rurale abita nelle casette in parte nuove, tutte colorate, lungo questo stradone, che scende dai monti e conduce al mare: vaste aie, vigne e seminati, distese coltivate a barbabietole e tabacco, orti e frutteti arricchiscono questa felice contrada; e, in fondo, verso il mare, i quadrati delle saline dànno l’idea di grandissime vetrate che coprono misteriosi palazzi sotterranei.
È un palazzo bello e sontuoso, e nello stesso tempo soffuso di una tenerezza che fa bene al cuore: i colori sono tutti di un verde ancora pallido e di un azzurro di cristallo umido di brina: anche il fiume, che in questo tratto raccoglie paternamente i giovanili ruscelli e le fiumane scapigliate dei nostri paraggi, è largo, quieto, silenzioso: riflette il cielo chiaro e le rive scure, e corre dritto al mare come una persona onesta che va per i suoi affari.
Se io riuscissi a mettermi in pace, ad esaurire i miei impegni, a raccogliere e frenare anch’io le vene torbide e tumultuose delle mie passioni, sceglierei per mio soggiorno questi campi lavorati ancora dai bianchi giovenchi, attraversati dalla voce quasi canora dei coloni che aizzano le bestie e sé stessi al lavoro.
Sogni! Intanto la casa dell’ingegnere è proprio nel centro della cittadina, in mezzo al tumulto e alla baraonda del traffico dei giorni di mercato. Tutti gridano, uomini e donne, esponendo la loro merce: i buoi muggiscono, i cavalli sferrano calci, i cani si rincorrono allegramente. Trovo l’ingegnere, che già conosco, a contrattare con una bella ragazza, alta e mora come una beduina: ella vende piccioni di razza, maschi e femmine, e dondola una gabbia di salice verde davanti agli occhi del piccolo e segaligno funzionario, guardandolo coi grandi occhi neri languidi e sfrontati.
Egli si compiace al gioco, e forse la sua intenzione non è precisamente quella di acquistare i piccioni, perché quasi trasalisce quando d’improvviso mi vede, e pare si svegli da un sogno eccitante.
Io sorrido: è primavera: è primavera per tutti; e l’ingegnere, sebbene anziano e padre di numerosi figli, non può sottrarsi alla legge comune.
Vuol condurmi a casa sua: ma preferisco invitarlo io al Caffè sotto i portici. Il quadro intorno è piacevole, movimentato, pieno di figure caricaturali, miti e colorite; mi diverto, mi dimentico di me stesso: ma rientro subito nella realtà quando l’ingegnere mi dice:
– Ho ricevuto notizie di Antioco: ha ripreso i suoi famosi studî e cerca denaro per salvare la sua villetta dall’asta. Perché non la compra lei? Farebbe un affare; anche se non volesse abitarla, potrebbe affittarla; è un ottimo posto per villeggiatura: e in estate questi sono luoghi molto ricercati: tutti i contadini affittano le loro stamberghe e prendono fior di quattrini.
– Ma io non ho bisogno di fare l’affittacamere.
L’ingegnere si mise una mano sulla bocca, e mi sorrise, schietto e furbo, coi suoi occhi di gazza.
– Scusi, scusi. Lei però potrebbe fare un’opera di grande bene, acquistando la villa; cioè farne un luogo di cura per bambini poveri, un tubercolosario, per esempio.
– Ma come? Prima lei dice che questi sono luoghi salubri, di villeggiatura, e che tutti i contadini affittano le loro case, e adesso mi consiglia di aprire un tubercolosario? Ma dove sono questi bambini malati? Il dottore dice, da noi, se una malattia c’è è quella dell’appetito, tanto che lui se ne va tutti i giorni a caccia, e invece dei cristiani ammazza i poveri uccellini.
– Va bene: ad ogni modo le converrebbe acquistare per sé la villetta. Mi dicono che lei abita in un mulino.
– Fosse un mulino. È ancora peggio. Ma, infine, – esclamo io, che mi divertivo per l’insistenza dell’ingegnere, – lei vuole assolutamente affibbiarmi la proprietà del comune amico Lante. Potrei chiederle il perché?
– Il perché? Anzitutto, appunto perché si è amici, e bisogna, potendolo aiutarsi a vicenda. Antioco non è cattivo: non è, neppure, quello che certi suoi poco benevoli giudici vogliono farlo apparire. È, in fondo, un disgraziato: ha preso dal padre lo spirito avventuroso, dalla madre la natura erotica e passionale ad un tempo: è una specie di meticcio, di sangue misto, figlio di genitori già anziani ed esauriti: i diversi caratteri ereditari si combattono in lui come due torrenti che s’incontrano e poi finiscono col confondersi in uno solo, come quelli che lei avrà notato sotto il convento. Ma ha ingegno, Lante, perbacco, e cultura, spirito di analisi, anche ambizione, il che in un uomo non nuoce, anzi giova: e riuscirà a rimettersi a galla. Il suo sogno, poi, è di fare un ricco matrimonio: credo però che a questo proposito s’illuda alquanto, perché al giorno d’oggi le donne badano a tutto, ed a lui nuoce molto l’ombra della madre. Infatti, l’anno scorso vi fu un progetto di matrimonio, fra lui e la figlia di un ricchissimo industriale di qui, – il re del tabacco, lo chiamano, per le sue immense coltivazioni di questa pianta; – ma la cosa andò a monte per le pessime informazioni sulla povera morta. Inoltre Antioco è, come le dissi, anche suo malgrado, un passionale: e, con la dote, vuole anche l’amore. E se non fosse stato un poco poeta non si sarebbe costruita la villetta, lassù, con tutte quelle cianfrusaglie e i ninnoli ch’ella avrà veduto, e per l’acquisto dei quali si è appunto indebitato. Ma speriamo riesca a trovare qualche rimedio. Sì, – concluse l’ingegnere, cordiale e pensieroso; – io gli voglio bene; ma non posso aiutarlo, come vorrei, poiché sono un poveraccio: poveraccio perché onesto.
Poi riprese a scherzare.
– Questa notizia le farà piacere, è sperabile poiché lei avrà certamente incontrato parecchie persone che non rassomigliano all’ingegnere sottoscritto.
Poi si riprese a parlare del mio progetto; mi accorsi però che anche lui non mi era favorevole, e ottenni solo la promessa che sarebbe venuto quassù per vedere come stavano le cose.
Venne infatti, qualche giorno dopo; aveva un visetto curioso, quando ci si incontrò alla fermata dell’autobus che fa il servizio postale un visetto fra volpe e agnello. E mi spiegò subito il perché:
– Parce sepulto: la sua domanda è stata respinta.
Me lo aspettavo: eppure mi vinse un impeto sincero di dolore, di dispetto, anche di rimorso. Rimorso per non aver fatto meglio le cose, non aver preveduto e superato gli ostacoli, non essermi mosso come dovevo. Ho agito, al solito, da sognatore; e ne sconto la colpa. Adesso, costeggiando il fiume, che, manco a farlo apposta, s’è in questi giorni quasi seccato, come per sfuggire all’attenzione dell’ingegnere, domando ingenuamente al bravo ometto:
– Ma che cosa è venuto a fare, allora?
– Sono venuto, prima di ogni cosa perché glielo avevo promesso; poi, perché devo fare anche una visitina alla chiesa. Abbiamo una domanda di sussidio, dal parroco. E lì, sì, se lei avesse un po’ di buona volontà, ci sarebbe molto da fare.
Queste parole aumentarono la mia inquietudine: guardai con diffidenza anche l’ingegnere, e quasi con rudezza gli dissi che non intendevo far nulla per la chiesa.
Si direbbe che ho paura di riavvicinarmi alla parrocchia, o piuttosto alla casa parrocchiale. Preferirei, riguardo ai miei impegni, comprare la villa di Antioco e aprirvi un ospizio, un ospedale, una scuola. Ma la nuova scuola del Comune è già in costruzione, largamente sussidiata dallo Stato, e l’ingegnere è venuto, più che altro, per visitare i lavori. L’edifizio, grande, quasi esagerato, per questi dintorni, sorge un po’ sotto il paese, in un piccolo altipiano, al sicuro dalle acque e dalle frane. Andiamo a vederlo: vi lavorano operai bravi, silenziosi, attenti, sotto la guida di un capomastro barbuto, che mi ricorda quelli antichi, che costruivano chiese, castelli, fortezze; nelle aule sono già infisse le grandi vetrate, e tutto è chiaro, imbevuto di luce: la palestra che si stende a fianco dell’edifizio sembra una piazza, e già intorno sono stati piantati alberi e disegnate aiuole.
Ho l’infelice idea di dire all’ingegnere che, almeno, vorrei concorrere alla fondazione di quest’opera nobilissima: egli mi guarda corrucciato, quasi lo avessi personalmente offeso con l’offerta di un’elemosina; ed io non insisto. E non potrei capire questa ostilità verso le mie buone intenzioni, questo continuo rifiuto alle mie proposte, se non pensassi con superstizione che forse è anche questa una forma di castigo. Eppure, nel risalire la strada, fra i campi e gli orti che cominciano a verdeggiare e fiorire, dico, più a me stesso che all’ingegnere:
– Io non voglio disperare ancora, a proposito dell’argine. Rifarò la domanda, e andrò personalmente a sollecitare la pratica.
Egli tace: pare seccato della mia insistenza, poiché, da integerrimo funzionario vuole che il responso dei suoi superiori sia ritenuto definitivo e infallibile. E, piano piano, mi conduce nel triangolo fatale tra la facciata della chiesa e la casa parrocchiale. Tutto vi è silenzioso: chiuse le porte, aperta solo la finestra attraverso la cui inferriata si vede la stanzetta con la tavola e gli arnesi per fare il pane; una lucertolina di argento verde, lucida come un gioiello, balza dal davanzale e si nasconde fra l’erba: e basta questo per ridarmi un senso di pace, quasi di gioia. Senso di vita campestre, di umiltà, desiderio di lavoro e efficace e sano. Mi pare di veder Rinuccia (non più Agar) con le trecce raccolte sotto un fazzoletto, intenta a gramolare la pasta, rassegnata a vivere per tutta la sua vita nella quiete di quest’angolo di mondo: rivedo i suoi occhi rossi di pianto come quelli di una bambina che per la prima volta capisce il dolore; ed ho rimorso di aver rifiutato di conoscere il segreto che ella voleva confidarmi. Dopo tutto anche lei ha bisogno di aiuto: è una creatura indifesa, alla quale posso fare del bene: e mentre l’ingegnere bussa alla porta della casa, io penso che le vie del Signore sono infinite.
E così, abbiamo finalmente veduto il viso della felicità: e non è il viso di Agar, che pure è tutto corrusco di luci e di ombre; ma quello di don Achille.
Nel ricevere, insieme uniti come due arcangeli apportatori di doni divini, l’ingegnere del Genio Civile e il signor Franci, il buon parroco pare colto da delirio; dice cose sconnesse, e la sua voce ha il mugolio di spasimo delle donne che parlano all’amante. Alla domanda del mio compagno, di farci vedere la chiesa, egli prova, evidentemente, quasi un senso di timore, quell’arcano timore del risveglio dopo un sogno troppo bello: insomma, egli spera tutto dalla nostra visita, ma ha paura d’illudersi un’altra volta.
Ad ogni modo si va subito a veder la chiesa, poiché l’ingegnere ha premura di ripartire: del resto egli già conosce tutti i particolari del luogo, e, secondo il suo solito modo di fare, getta un secchio d’acqua sulla trepida esultanza del parroco, dicendo che prima di ogni altra cosa bisogna interessare della faccenda il Sopraintendente dei Monumenti della provincia, poiché solo da questi può dipendere l’avvenire della chiesa.
Non nascondo che questa notizia mi dà un lieve senso di sollievo; ma oramai un po’ tutti mi hanno preso nella rete, e se pure mi ci dibatto dentro come un pesce tirato a riva, prevedo che presto soccomberò. Tanto che mi abbatto sull’angolo di una panca, nella penombra, e faccio un sogno melanconico. Mi vedo, cioè, seduto in questo medesimo posto, in un tempo lontano nell’avvenire: sono vecchio, stanco; ho persino il bastone, al quale mi afferro e appoggio come uno che poco ci vede ed è già tutto raccolto nel suo mondo interno. Mondo che si è sempre più ristretto, che si è fatto come un vortice destato da una pietra buttata in un pozzo: i cerchi da prima tumultuosi dell’acqua si sono placati, e via via dileguano lentamente: rimane solo un punto di luce nel centro delle ultime vibrazioni: tutto il resto è tenebre.
Ma quel punto è l’ultima favilla del mio spirito placato: è ancora luce, forse anche gioia, certamente pace. Pace. Poiché intorno a me la chiesa è restaurata, nel nome di lei: e forse, accanto al suo, il nome mio resterà su una lapide. Saremo così, riconciliati, ancora i Signori del luogo, giovani in eterno, felici come il giorno delle nostre nozze. Amen.
Mi riscosse la voce mormorante e commossa di don Achille; egli credeva che pregassi, e questo mio apparente fervore sacro riaccendeva le sue speranze. Mi invitava ad alzarmi, a rientrare nella casa e prendere, col signor ingegnere, una tazza di caffè. Oh, questo scialbo caffè, che Agar prepara così male! E si capisce che lo prepara così perché a lei non piace: ben altri eccitanti le piacciono; eppure ella deve mescolare davvero un filtro alla bevanda, perché basta che mi prenda di mano la tazzina vuota, trovando, per volontà o per caso, il modo di farmi vedere il tremito lieve delle sue dita, perché una scossa elettrica mi attraversi le vene. Osservo, inoltre, che ella ha preso un nuovo aspetto: mi pare sia cresciuta, in questi ultimi giorni, o almeno il suo collo si è allungato e fatto ancora più bianco; sembra quello di una statua greca; certo è dimagrita, e s’è curata molto i capelli, che hanno una lucentezza di rame: e le unghie sono rosee, smaltate. Forse si è data anche un poco di rosso alle labbra, per accentuarne l’espressione amara e triste di fanciulla disillusa ma rassegnata al suo destino. È questo senso di rassegnazione quasi fatale, mite, profondo, questo piegarsi non freddo, anzi appassionato, pur senza speranza, al vento che la scuote come una canna in riva al fiume, questo suo sguardo liquido, sfuggente, smarrito, pieno di ansia come quello di una cerbiatta inseguita, che mi turbano più che le forme del suo giovane corpo: c’è anzi una linea di pudore, di raccoglimento, adesso, nella sua persona agile e morbida; e tutto mi piace in lei, come se ella completi e compendi questo incanto panico della primavera campestre che penetra i miei sensi.
Io non dovrei scriverti queste cose, Noemi, e forse le scrivo più per me stesso che per te, come il poeta che dà sfogo alla sua passione carnale con la parola scritta: e non so neppure se ti manderò queste ultime pagine; poiché sento di essere giunto alla fine della prima parte del mio dramma. Se Agar mi darà nuovamente convegno, andrò: ho bisogno di sentire il segreto ch’ella voleva confidarmi, vuoto o tragico che sia: ho bisogno di riavvicinarmi alla vita, di sentire nuovamente il calore nel calore delle labbra, del viso, del corpo di lei. Avvenga quel che vuole avvenire. In fondo, se io sono pur debole e sensuale, sono anche sano; il mio rimorso, la sete di espiazione, il mio dolore, non sono quelli di un mistico o di anormale, e non mi vergogno di quelli, se pure non riesco a liberarmene.
Andato via l’ingegnere, rimasi legato da un filo solo, ma potente, nella casa di Agar. Ella era sparita; ne sentivo però la presenza, intorno a me, anche nella stanza terrena che forma il primitivo salotto di don Achille, ed anche il suo studio, non del tutto disprezzabile per la quantità e la qualità dei libri, carte, documenti, che vi sono chiusi gelosamente in un grande armadio a muro; la sentivo, sì, muoversi nella casa, silenziosa e tenace nella sua apparente rassegnazione, e mi interessavo solo fino a un certo punto ai segreti del parroco e della parrocchia. Egli aveva aperto uno sportello dell’armadio, dal quale usciva uno strano odore di fiori secchi, di topi, di canfora spruzzata contro di essi; ne tirò fuori alcuni documenti, che riguardavano la fondazione della chiesa e il suo primo restauro: quasi indecifrabili per me, letti però da lui come un libro imparato a memoria. E leggendoli, egli prendeva la voce cadenzata e compunta di quando celebrava la messa: poi li palpava, li fiutava, li ripiegava e legava con nastrini di colore, come fasci di lettere amorose. Tutta la sua vita è lì, legata alla chiesa come ad un’amante inferma: basta una speranza di guarigione, d’un rifiorire del corpo adorato, perché anche lui, l’appassionato don Achille, esulti in ogni fibra e ringiovanisca miracolosamente. Più che i suoi scartafacci m’interessava questo suo vibrare quasi fisico; le guancie un po’ scavate, segno di una razza che del dolore e le difficoltà della vita si è fatta una legge, mi ricordavano quelle di Agar: ed anche la linea della bocca: e mi pareva di sentire che anche lui era preso dall’incantesimo della stagione, della bella giornata, della gioia di vivere. Tanto che quando io, profittando di lui come uno sfruttatore, gli dissi:
– Don Achille, andiamo nell’orto, adesso? – egli mi guardò con gli occhi di un fanciullo che ha trovato un compagno col quale fare una scorribanda campestre.
Andiamo dunque nell’orto: ed egli, a differenza del malizioso padre Leone, mi fa attraversare confidenzialmente l’andito e la cucina dalla quale si esce nel cortile, e da questo, per un cancelletto di canne, nell’orto.
La cucina, dove speravo di ritrovare Agar, è deserta: il fuoco arde solitario nel camino, ma il resto dell’ambiente mi procura una nuova delusione: poiché osservo un grande disordine, ed anche una scarsa pulizia negli arnesi, negli oggetti sparsi sulla tavola; sul pavimento poi si vede che le galline fanno il comodo loro.
Il cortile è ingombro di tritumi, di mattoni rotti, di legna, di stracci tesi ad asciugare: i galletti ardenti raspano con furia la terra; solo le oche, quattro, come quattro grandi dame in convegno fra loro, conservano una maestà opulenta: al nostro passaggio stridono, in segno di saluto, dice don Achille, che fa segno di benedirle e ne accarezza una sulla piccola testa severa.
– Le oche, – affermava, – sono calunniate: sono bestie, belle e intelligentissime, che conoscono il tempo, la gente, gli umori della gente. Oggi, vede, sono allegre, sebbene in compostezza, perché capiscono che anche il loro padrone è contento: ed hanno, inoltre, indovinato subito che lei è un amico di casa.
Sarà! Certo, il loro grido quasi umano, che si ripete a intervalli precisi, e richiama l’eco di altre voci di oche lontane, attraversa lo spazio con alcunché di guerresco: mi sembrano sentinelle, che si rispondono da un punto all’altro con una cifra d’ordine che il nemico non conosce. Sento quasi che questo nemico sono io: io che esploro cautamente, con tradimento per il mio illuso ospite, il passaggio lungo il muro e la siepe del cortile, via via fino al vialetto del pergolato; e vedo da per tutto l’ombra di Agar, ripensando ai suoi convegni notturni. Non sono geloso; e neppure desidero essere io, una notte, l’ombra che accompagna quella di lei: anzi mi illudo anch’io in un sogno di sollevare fino a me, se è possibile, l’anima di lei; e così, un po’ per istinto, un po’ per forza di volontà, conduco il fidente don Achille fino al muricciolo sopra l’orto, al posto dove un giorno ci si è seduti con padre Leone; e di questi, con una certa torbida curiosità, domando notizie. Don Achille non può che parlar bene del frate, come del resto parla bene di tutti, poiché tutto egli vede attraverso il cristallo della sua indulgente bontà. Così, con la sua calda voce che ha sempre un tono di canto sacro, mi racconta le vicende avventurose di padre Leone, che fu un giorno, come il fondatore del suo ordine, ricco e uomo di mondo, poi indossò il saio e andò scalzo per montagne e deserti; e infine, anche adesso, corre dal suo convento al convento delle suore, e di paese in paese, fino alle coste popolate di pescatori, domandando l’elemosina per i suoi fratelli e le sorelle in Cristo.
– Quanto non fa per quelle povere suore! È il loro sostegno; l’albero maestro, dice lui, che ancora sostiene la barca pericolante. È lui che procura sussidi, che persuade le buone famiglie a mandare le loro bimbe in convento; è lui che bada a queste bimbe, e le indirizza ad una vita di bene.
Penso al tragico risultato della vita della mia povera compagna; ed a quello della vita di Agar…
Ma è poi vero quello che si racconta di lei? mi domando ancora una volta. Quasi senza volerlo, sempre però con un istintivo desiderio di sollievo, domando di Agar: e il prete mi risponde sul tono consueto, ma con più profondità:
– Povera figliuola! È la luce della mia casa; è tutto quello che mi rimane della mia famiglia dispersa: ed è buona, Rinuccia, fin troppo buona, docile, silenziosa. Vive solo per me.
Sarà. Io non ci credo; eppure le parole di lui mi fanno piacere: rivestono la fanciulla di un abito nuovo, non più rosso come quello che di solito ella indossa, ma azzurro, a fiorellini, puro e primaverile, intonato all’atmosfera che mi circonda.
Ma ecco nello stesso momento il suo vestito rosso lampeggiare nell’ombra del vialetto: mi pare un’irrisione ai giochi della mia fantasia, eppure mi desta di nuovo un brivido di gioia. Ella sale verso di noi con una certa ansia, come dopo aver fatto una lunga corsa: si stringe le mani al petto, e pare vi tenga un mazzo di fiori: gli occhi mi ricordano ancora quelli della cerbiatta che fugge.
– Zio, zio, – ella grida, tutta spaventata, non so se per la fortuna che le capita, o il suo ardire di profittarne; – c’è giù un uomo, quello del mulino, Pietro il mugnaio, insomma: dice che la sua nonna è moribonda, e che vuole confessarsi; e ti vuole subito. Così il mugnaio, è giù col biroccino, e ti vuol condurre lui, subito.
Ella rimane lì, a bocca aperta, fissando il sole come le allodole.
È vicina a me: mi pare di sentirne il palpito, fra di gioia e di paura, e che il suo vestito emani il calore di una fiamma. Se don Achille se ne va, basta che io stenda le braccia per attirarla al mio fianco. E don Achille si alza, rigido, pronto come una freccia: ha capito che deve andare subito; c’è da raccogliere un’anima, anche se il suo dovere lo costringe a lasciarne altre in pericolo: ma le altre non pensano che a vivere, e finché si è vivi si fa sempre in tempo a salvarsi. Del resto anche io mi alzo, faccio cenno di seguirlo; ma egli corre giù a precipizio, sparisce dietro il cancelletto del cortile: le oche starnazzano, con un coro che sembra beffardo; io ed Agar restiamo nell’orto, smarriti, beati, ansiosi, come Adamo ed Eva sotto l’albero del bene e del male. Quasi d’intesa ritorniamo su, verso il muricciuolo: si sente la voce del mugnaio che aizza il ronzino del suo biroccio, ed io penso che il mulino è giù, a valle: ci vuole un certo tempo per andare e per tornare, senza contare quello della confessione della vecchia. Abbiamo quindi anche noi, Agar ed io, il tempo di confessarci.
– Se mi permette, signorina, sto ancora un momento con lei, – dico, rimettendomi a sedere sul muricciuolo e tirandomi sulle ginocchia i pantaloni, come se mi trovassi in un salotto. – Non le dispiace? Si sta tanto bene qui.
Si sta bene, sì: e poi si è in vista di tutti, in modo che male non si può fare né sospettare. Ma realmente nessuno ci vede: la terra tutta sembra sgombra di uomini: è come un cielo senza nubi; e l’occhio del sole è quello di Dio. Egli, sì, giudica e vede: e vede che nel mio cuore non c’è l’ombra del male. Ho voglia di stare con Agar come con un uccello, un albero fiorito, un agnellino tiepido e morbido: per provarne piacere, sì, piacere sensuale anche, se vogliamo, ma senza peccato. Del resto anche lei è ben diversa da quella che la dipingono: tutta tèpida sì, ma raccolta in sé; non mi guarda, non si avvicina troppo: è davvero come la fiamma che brucia per sé stessa e dalla quale dipende da te allontanarti. Riprendo dunque:
– Signorina, se lei però ha da fare vada pure. Io, ozioso, se mi permette, resterò qui fino al ritorno di suo zio. Così le custodirò i cavoli e le rape dell’orto: è un mestiere anche questo.
Ella ride, allora, riprendendo respiro: i suoi denti sembrano di madreperla: ho una voglia cruda, infantile, di battere i miei contro questi suoi denti di luce; per gioco, per dispetto, anche, come i passeri che si beccano. È la linfa della stagione, che scorre nel mio sangue, che a poco a poco mi riduce ad uno stato spasmodico di adolescente in fermento di vita.
Agar si piega a strappare un ciuffo d’erba oh, anche lei segue la legge; come gli insetti e le farfalle in amore si riveste dei suoi più attraenti colori, fa vedere le sue forme, si piega e si allunga in istintivo agguato. Attirata come da una calamita, lentamente smovendosi le vesti con un movimento di ali, viene a sedersi accanto a me; può, del resto, essere anche un segno di sicurezza, di confidenza: ad ogni modo io resto immobile; non la guardo più: solo, domando con voce bassa, già trepida del segreto che ci avvince:
– Qual’era la cosa che voleva dirmi l’altro giorno, signorina?
Ella tace: io divento umile, bugiardo.
– Non sono più tornato, perché ho avuto molti contrattempi: ma ho pensato sempre a lei ed a quel che voleva dirmi. Adesso può farlo. Vuole?
Ella tace: io volgo gli occhi e vedo che scuote la testa in segno di diniego: no, è tardi, adesso; ella è stata offesa, ha capito la mia diffidenza, la mia paura; intende benissimo che io mi avvicino al suo corpo, non alla sua anima, e non vuole più parlare. Vuole anche lei divertirsi, giocare con me; ma alla mia volta, solo dal suo semplice modo di scuotere la testa, come un fiore sbattuto dal vento, capisco che il suo segreto è ben più grave di quanto io ne pensi: si tratta forse di Antioco, e la curiosità mia si fa viva, anzi vince anche il languore del mio desiderio.
Di slancio mi stringo a lei, sì, con uno slancio felino; le cingo la vita, l’afferro al fianco con la mano prepotente. Ella deve parlare, subito. Invano tenta di liberarsi, con la sua mano fragile; le afferro anche questa, ed ella non domanda di meglio; non parla però; e per vincerla del tutto la costringo a piegare il viso sulle sue trecce e le bacio la nuca, dove la scriminatura dei suoi capelli scende bianca come un raggio di luna.
Dopo, ella si mise a piangere, nascondendosi il viso col braccio: perché piangeva? Sulle prime mi parve uno sfogo di amore, e, sinceramente turbato, tentai di farle appoggiare la testa sul mio petto; ella si ribellava; rigettò indietro le trecce e cominciò a scuoterle come una criniera di cavallina indomita.
– Ma perché, Rina, – le dissi sottovoce, pronunziando il suo nome con vera tenerezza, – perché fai così. Ti ho offesa? O hai paura di me? Non piangere: mi fai male.
Ella pianse più forte, ma abbandonandosi: ritornò docile; singhiozzava ansando, come una bambina che non può esprimere con le parole il segreto del suo dolore. Lasciai allora che si calmasse; ma vedevo un po’ d’ombra intorno a noi, e ricadevo anch’io nella mia pena, come un uccello ferito che invano ha ritentato il volo.
Infine ella sospirò: si era dissetata, riprendeva coraggio, speranza, dominio. Disse, con una voce rauca che non mi piacque:
– Ho fatto male a lasciarmi baciare da lei, prima di averle detto quello che desideravo dirle: ma lei lo ha fatto per questo; e adesso le dirò tutto; e vedrà che non mi vorrà più bene.
Già, infatti, sentivo di volergliene meno: era come se l’avessi posseduta, e sentissi il disgusto che segue all’ebbrezza.
«Ecco, pensavo, ho guastato tutta la bella giornata: speriamo che la cosa si accomodi».
A testa bassa, ma calma e decisa, ella riprese:
– Lei lo ha già indovinato: si tratta del signor Antioco. Egli sarebbe il mio fidanzato. Lo zio non lo sa, perché Antioco non ha mai voluto fare la sua domanda ufficiale: ma in paese tutti lo sanno: lo avranno certamente riferito anche a lei.
– Veramente… sì… – brontolo io, indispettito contro me stesso per essermi troppo presto abbandonato alle mie manifestazioni amorose. Ella volge un po’ il viso verso di me, e mi guarda di traverso: ha un’aria cattiva, poiché capisce perfettamente tutti i miei pensieri. Ella non è molto intelligente; ma ha l’istinto, la furbizia, l’intuito prodigioso delle donne che vivono solo la vita dei sensi: e non cerca di mentire perché sa che con la verità nuda e crudele si vince meglio che con qualsiasi altra arma.
– Lo so, lo so, – ammette, – le avranno detto che sono stata l’amante di Antioco; le avranno detto di peggio ancora, in questo paese dove tutti parlano male di me, senza che io abbia fatto male a nessuno. A chi ho fatto male io? – domanda a sé stessa, riabbassando la testa. – A nessuno; eppure tutti, uomini e donne, hanno cercato e cercano di nuocermi.
– Anche Antioco? – domando io, ironico e nello stesso tempo geloso.
– Lui più di tutti. È un mascalzone, un vile. Ha profittato di me, come un brigante, alla macchia; come un selvaggio che incontra una donna sola. Ha fatto di me quel che ha voluto, senza volermi bene: come, del resto, non me ne vuole neppure lei.
– Oh, Agar! – esclamai, colpito e di nuovo turbato, di un turbamento ben diverso da quello di prima, – la prego…
– Ecco, mi dà già di nuovo del lei: è ben pentito, – ella riprese; poi parve che non volesse più parlare. A che prò? Siamo già di nuovo lontani, sconosciuti l’uno all’altro, soli con noi stessi. È vero: a che prò continuare? Né io posso farle del bene, né lei può farne a me, con le nostre inutili confidenze. Eppure io insisto; e non so perché lo faccio, se per curiosità banale o per istinto di carità umana; così, come il povero divide il suo pane col più povero di lui, sull’orlo della loro strada di vagabondi; e, in fondo, sento che l’incontro delle nostre diverse miserie, la mia e quella di Agar, non è il solito romanzetto primaverile, il gioco dei sensi che si confonde con quello delle bestie in amore; e neppure il preludio ad un amore più serio ed elevato; ma quasi una lotta di gente che soffre profondamente e riversa l’una sull’altra la propria disperazione, tentando invano di liberarsene. Sì, così: i due poveri; i due poveri che si dividono il pane: poi ciascuno riprenderà la sua via, uno da una parte, l’altro dall’altra; ma sempre per la stessa strada di affanno e di stanchezza dell’umanità. Dissi:
– Agar, mi perdoni se anch’io le ho fatto del male. Non era questa la mia intenzione. Io non sapevo…
– Non è vero, – risponde lei, alzando la voce come si alza un martello. – Non mi prenda per una stupida. Lei sapeva tutto. Tutto le avevano detto, poiché nella casa del suo vecchio santo Paolone, che anche lui ai suoi tempi è stato una buona lana, laggiù si ripetono tutti i pettegolezzi delle donnaccole che lavano i panni sporchi alla fiumana. E lei crede forse che anche oggi il mio nome e il suo non vengano sbattuti dal bastone delle lavandaie? Mi pare di sentirle, tanto più che fra loro oggi c’è anche la nostra vecchia Rosa.
– Ma lasci andare. Che le importa? Sono piccole cose del mondo, alle quali non si deve badare.
– Parole? Intanto formano il nostro destino. E lei è qui appunto perché le hanno parlato male di me, mentre io… mentre io…
Riprese a singhiozzare; eppure la sentivo forte, più forte di me, più di me vicina alla verità. Mi riavvicinai a lei con tutta l’anima.
– Mentre lei?
Ella si tirò in avanti le trecce, e vi si afferrò, come a un punto di appoggio, o ad un laccio che poteva strangolarla ma anche aiutarla a salvarsi.
– Ebbene, le voglio dire tutto. Io pensavo a lei da molto tempo, oh, da molto tempo, anche prima di conoscerla, di sapere che esistesse. Non rida, sa; è proprio così. E l’aspettavo. Ma senta, sì, devo dirle tutto. Io sono figlia di contadini poveri: i miei genitori, i miei fratelli, tutti lavorano la terra; ma lo zio Achille mi ha fatto educare come una signora; fui per molti anni al convento, con la signorina Decobra; sì, con lei che era ricchissima e nobile. E ci si trattava in modo eguale. Dormivamo vicine, nel reparto delle educande aristocratiche; ci si insegnava a suonare, a dipingere, a parlare il francese come fossimo due sorelle. Lei però mi trattava e guardava fredda, perché era fredda con tutti: a volte mi umiliava, anche, mi diceva che ero una stupida, una contadina, e che aveva voglia di battermi. Una volta mi graffiò a sangue. Arrivava a peggio; quando aveva i nervi: mi chiamava «figlia di prete»; mi faceva piangere. Ed io non solo non osavo accusarla, ma ero più contenta dei maltrattamenti che della sua indifferenza. Le volevo bene; un bene quasi morboso: ero come innamorata di lei; e più era cattiva e sdegnosa, più le volevo bene. È il mio carattere, questo, pur troppo. Ma col passare del tempo, con l’abitudine di stare assieme, anche lei si placò: non che mi volesse bene, ma aveva bisogno della mia compagnia, e di farmi le sue confidenze: e queste confidenze, specialmente dopo che ella tornava dalle vacanze, dopo essere stata con la madre al mare o in montagna, diventavano sempre più maliziose e intime. Fu lei, devo dirlo, senza offendere la sua memoria, a insegnarmi le cose dell’amore: come, del resto, avviene quasi sempre fra ragazze tenute all’oscuro di questi segreti. E da noi, nel convento, il mistero sessuale era considerato come una cosa mostruosa, più che infernale. Io aspettavo il ritorno della Pia con ardore indicibile: tremavo tutta quando ella mi raccontava dei giovanotti mezzo nudi che le insegnavano a nuotare: li vedevo tutti belli e perversi, come angeli cacciati dal paradiso: e sognavo giorno e notte di loro. In fondo la mia amica era più quieta e pura di me: conosceva già la vita, e voleva l’amore, sì, ma l’amore vero, forte, grande, disinteressato. Sapeva di essere ricca, e diffidava: eppure diceva che, appunto perché ricca, voleva permettersi un matrimonio d’amore. Non importa che l’uomo fosse povero: purché ella fosse sicura di essere amata per sé stessa. Romanticismo anche questo; tragico romanticismo come poi s’è rivelato. Ogni volta che veniva a trovarla quella scempia vanitosa e chiacchierona della madre, ella le chiedeva denari: per la Madonna, diceva, e invece li nascondeva, confidandomi che voleva comprare un anello da scambiarsi col fidanzato. Questo fidanzato non era ancora in vista; ma ella insisteva nel predire che sarebbe stato povero, nobile, artista; e sopra tutto buono e innamorato di lei. Ed ecco, io sognavo con lei quest’uomo ideale; lo dividevo con lei, lo amavo, lo aspettavo: lo avrei amato per tutta la vita, senza chiedergli niente, non solo, ma senza mai fargli sapere il mio amore, contenta di saperlo felice con Pia. Io mi sarei fatta monaca. Ecco perché, signor Franco, le ho detto che le volevo bene ancora prima di sapere ch’ella esistesse.
Si fermò: aveva finito? Io tacevo, cupo, diffidente, fermo come il cacciatore che aspetta il passaggio della vittima. Sì, una vittima doveva esserci, quella mattina; mi sentivo ribollire tutto, per la profanazione sacrilega che, mi pareva, Agar faceva della povera morta, per quel suo dilaniarne quasi freddamente la memoria, col suo mischiarsi incauto e sfrontato alla sua vita, e così anche alla mia. Era forse un modo di legarmi, di attaccarsi a me come alle sue trecce: e questo appunto tornava ad allontanarmi da lei, anzi a disgustarmi sopra ogni cosa. Dicevo fra me:
«Aspetta un po’, e vedrai che legata sarai tu, come una piccola tigre».
Le cose ch’ella infatti mi disse, furono per me molto crudeli; ma il ferito e l’incatenato rimasi io.
Dopo aver con gesto deciso buttato di nuovo indietro le sue trecce, riprese dunque, con calma:
– Non creda che io voglia parlar male della sventurata Pia: anzi, la difendo. Era tanto infelice, più infelice, più misera e sola di me. E indifesa. Aveva paura di tutto, mentre io ero e sono coraggiosa. Aveva paura dell’acqua, del vento, delle suore: aveva anche la mania dei ladri: sentiva sempre rumori che gli altri non sentivano. E voleva bene solo al padre, perché infelice anche lui; ma il padre non sapeva, non poteva difenderla. So che egli aveva questioni terribili con la moglie, a proposito della povera Pia; e voleva la si ritirasse in casa, ma donna Dionisia non acconsentiva, ed egli si accasciava e si lasciava vincere. Lei sa che, in fin dei conti, i Decobra sono poveri: non hanno che la villa e qualche castagneto: i milioni sono della signora Dionisia; e lei è la padrona di loro tutti. Pia lo sapeva; e odiava la madre; e per dispetto, per disperazione, perché l’avevano messa in convento, non credeva neppure in Dio. Questa è stata la sua maggiore disgrazia: del resto non ci credo neppure io; ma io sono forte, rassegnata, e amo la vita. Se occorre mi farò anche suora; ma morire no. Di quello solo ho paura; della morte, del freddo, del buio. Allora la mia amica diceva: ci sposeremo, finalmente, e saremo libere. Sì, poteva sposarsi lei, che aveva una grossa dote; ma io? Io, ripeto, pensavo a quello che sarebbe stato il suo sposo, e mi contentavo di questo sogno. Ma una volta, dopo le vacanze, ella mi confidò di un suo amore segreto. Era, il giovane, di bassa condizione, se non assolutamente povero, e la famiglia di lei non avrebbe mai acconsentito che si sposassero. Per molto tempo ella si sfogò con me, senza mai dirmi il nome del suo innamorato. Innamorato, poi? Veramente non si parlavano mai, anche perché lei era sorvegliatissima: egli però le aveva scritto, e lei teneva la lettera di lui cucita dentro lo scapolare. Diceva: aspetto di avere ventun anno: allora scappo con lui; ma se mi accorgo ch’egli mi tradisce mi uccido. E parlava di lui con esaltazione; era un giovane di grandissimo ingegno; sarebbe diventato celebre, per amore di lei, che era stato il sogno di lui fin da bambino: l’avrebbe conquistata a dispetto di tutto, portandosela via in un turbine di amore. Cose che si fantasticano in convento; e che fanno tanto male. Infatti, ella venne a sapere che il suo fidanzato ideale s’era preso una donna in casa, e le aveva fatto fare un figlio. Allora, no, ella non si uccise; ma si sposò. Con lei, signor Franco. Non so se ella le volesse veramente bene: un giorno, prima di uscire dal convento, mi chiamò: si salì sulla terrazza, di nascosto delle suore e delle compagne, ed essa si sporse sul parapetto, in modo che io ebbi paura e la afferrai per le vesti: ma ella rideva; era la prima volta che la vedevo ridere così, e ne provai gioia; poi mi accorsi che buttava sul fiume pezzettini di carta: erano la lettera di lui e il denaro ch’ella aveva messo da parte per comprare l’anello del fidanzato… Adesso ella morta: è in pace, – Agar riprese, sempre con calma, già un po’ stanca però del lungo parlare; – ogni notte la vedo in sogno: ogni tanto le porto i fiori al cimitero. Eppure anche io l’ho tradita; poiché l’uomo che amava, e lei lo deve aver già capito, era Antioco; ed egli venne da me, dopo che ella si fu sposata, e si lamentò: diceva che la Pia non aveva saputo aspettarlo, che la storia della serva, di Francesca, insomma, era una calunnia, forse messa in giro dagli stessi Decobra, per distogliere la figlia dalla sua passione: da molti anni egli era perdutamente innamorato di lei; girava di notte intorno al convento per vedere la luce della nostra finestra. Piangeva come un bambino; poi mi baciò le vesti, poiché io ero stata l’amica di Pia: poi mi baciò in bocca, come poco fa ha fatto lei. Infine, una notte, qui, dove ci si era dato convegno, mi prese. Giurava che mi avrebbe sposato; invece si vendicava dell’infelice. Questa è la nostra storia.
Dopo una triste pausa, io domandai:
– E adesso?
Senza che ciò mi destasse sorpresa, poiché ormai conoscevo Agar, ella si mise a ridere: era felice di essersi confessata, e sperava certo nella mia assoluzione: ma il mio viso non la rassicurò, e si rifece anche lei scura, quasi minacciosa.
– Adesso? Non lo so. Lei crede che io, come stupidamente sembra, sia rassegnata e tranquilla: una pecora, insomma; si sbaglia, però. Ho impeti atroci di ribellione; desiderio di vendetta. Se non amassi troppo la vita, e non avessi pena del povero zio, a quest’ora avrei già massacrato Antioco. Ma forse ne sono ancora in tempo: o forse non ne vale la pena. Voglio prima tentare di dimenticare; di vendicarmi in altro modo. Posso anch’io andarmene per il mondo, e trovare fortuna. Qui, certo, non morrò. A meno che… Lei conosce il mio pensiero, – riprese, poiché io tacevo. – E adesso, mi permetta di rivolgerle anche io una domanda: che farà lei?
– Io?
Mi piego; interrogo me stesso: sono quasi felice di dire anch’io la verità.
– Non lo so, Agar: non è in nostro potere fissare la linea della nostra vita. Ciò che so, fermamente, è che non farò male a nessuno: bene, sì, se potrò. Questa è la sola fortuna, nella vita, non quella che lei, Agar, vuole cercare per le vie del mondo. Resterò qui, io, invece; almeno finché la mia opera non sarà compiuta. E l’argine sarà fatto, a tutti i costi: dovessi lavorarlo io con le mie sole mani. E sono contento, anzi, che le cose siano finora andate di traverso, perché io possa ricominciare la lotta, e vincerla. Vedrà.
Ella tornò a rasserenarsi: anzi domandò con malizia:
– E la chiesa?
– Si potrà forse pensare anche alla chiesa: ma quello che mi preme è l’argine. E finché ci sarò io, qui, – dissi, d’un tratto alzando la voce come si fa per intimorire i bambini cattivi, – stia pur certa che lei, ed altri ancora, fileranno dritti.