Prefazione

di Morena Ragone

Sono stati anni importanti, questi ultimi, per il movimento open data italiano.

A partire dalla data, simbolica, del 18 ottobre 2011, con l’inaugurazione del portale italiano dei dati aperti – dati.gov.it – passi avanti ne sono stati fatti tanti.

Un iter di poco più di due anni che ha visto, tra le tappe miliari, la riforma degli articoli 52 e 68 del Codice dell’amministrazione Digitale – con l’introduzione, nel nostro ordinamento, del principio dell’”Open Data by default” sul patrimonio informativo pubblico e di una definizione di “formato di dati di tipo aperto”, perfettamente compiuta nei suoi tre elementi giuridico, tecnico ed economico – la riforma della Public Sector Information directive 2003/98/CE ad opera della direttiva 2013/37/UE – con la valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale europeo – ma, soprattutto ed al di là dei cambiamenti normativi – che, da giurista, non posso fare a meno di notare ed apprezzare – la nascita di una forte ed articolata community attorno ai dati aperti.

Radicata su una serie di realtà ormai ben presenti sulla scena nazionale e non solo – penso a Spaghetti Open Data (SOD), ma anche al gruppo organizatore dell’Open Data Day italiano, alla comunità di Open Street Map quanto alle nuove, piccole ed entusiaste realtà locali – la community è diventata il vero valore aggiunto della scena open data italiana.

Ce ne siamo accorti già all’inizio del 2013, a Bologna, quando, nell’ambito del primo raduno organizzato da SOD, l’hackathon giuridico sulla revisione della PSI scoreboard – un questionario tecnico giuridico che attribuisce un punteggio ai membri UE in ragione di una pluralità di parametri valutativi dell’impatto e della diffusione dei dati aperti all’interno del Paese – ci ha mostrato una realtà fatta di studio, norme, riforme, ma, soprattutto, di attivismo e di gruppi locali, di competenze in rete e di condivisione.

In una parola: openness, un substrato fortemente impiantato sul territorio, quasi completamente misconosciuto, costituito da tanti soggetti che finiscono, singolarmente presi, per fare da insiders all’interno delle singole realtà in cui vivono e lavorano, e che sono direttamente coinvolti da questo processo di cambiamento.

Un cambiamento che è tecnico, giuridico, culturale e che, come ogni cosa bella e plurisfaccettata richiede un processo lungo e complesso.

Ovviamente, è un processo che, per definizione, può avere un punto di partenza convenzionale, ma è privo di punto di arrivo, un processo in fieri.

E visto che “non c’è cammino troppo lungo per chi cammina lentamente, senza sforzarsi; non c’è meta troppo alta per chi vi si prepara con la pazienza” (la citazione è di Jean de La Bruyère, I caratteri, 1688), possiamo dire di essere sulla buona strada.

Ma veniamo alle note dolenti, che, se conosco bene l’autore di questa pubblicazione, non mancheranno di essere evidenziate: non più la penuria di dati – grazie, anche, al decreto “trasparenza” del 14 marzo 2013, n. 33, per diversi aspetti fuorviante nell’associare trasparenza e dati aperti fino a renderli un binomio inscindibile, come in più occasioni e sedi ho rilevato, ma sicuramente avente l’indubbio pregio di obbligare le Pubbliche Amministrazioni a pubblicare molti dataset in formato di dati di tipo aperto ai sensi della nuova definizione del Codice – ma il loro scarso utilizzo per le finalità specifiche cui è finalizzato l’open data. Non (solo e non tanto) trasparenza, quindi, ma riutilizzo dei dati come vera chiave di volta, al tempo stesso, dello sviluppo economico e sociale del Paese.

Crescita, quindi, in tutte le accezioni possibili: la vera sfida dei prossimi anni sarà sì quella di trasformare questa valanga di dati in servizi, ma, soprattutto, quella di far crescere in tutti gli attori coinvolti – pubblico, privati, profit, terzo settore – la consapevolezza del valore di questi dati e della necessità della loro condivisione finalizzata al riutilizzo.

Anche, ovviamente, al di là dei singoli obblighi normativi.