I. Sul Tamigi

Una grande pioggia flagellava Londra, in quel pomeriggio di dicembre. Invano il fumo di centinaia di migliaia di comignoli cercava di elevarsi nell’aria, combattendo contro quel diluvio di acqua che piombava dalle nuvole nere. Il fumo era disperso dalla pioggia e ricadeva sulle case, facendole, sui tetti, più nere, più umide, più sudicie.
Nelle vie popolose di Londra quel temporale non impediva che la gran circolazione si sviluppasse in tutte quelle strade e stradette: i veicoli e la gente andavano in giro, dovunque, sotto il flagello della pioggia. Mille tranvai, omnibus, carretti, carrozze di ogni forma, sbucavano da tutte le parti, fuggivano in tutte le direzioni: e i robusti grossi cavalli, avvezzi a quelle vie bagnate, non mettevano piede in fallo. I padroni giravano, avvolti negli impermeabili, col cappuccio rialzato sul cappello: alcuni sotto le lucide cappe degli ombrelli: tutta gente affaccendata ma non affannata, con quell’equilibrio che è la forza massima del carattere inglese.
Dove più ferveva il movimento era nei quartieri centrali della città, nella City, specialmente, dove nessuno si occupava se piovesse o no: e grandissimo era il movimento sulle rive del Tamigi, tutte coperte di edifici, di officine, di stabilimenti industriali. Il Tamigi scorreva nero e minaccioso, pieno di detriti di carbone, di olio, di immondizie, quali la colossale metropoli, di tre milioni d’abitanti, poteva rigettare nel suo fiume. Quelle acque brune e lucide erano attraversate da imbarcazioni di ogni sorta, da vaporetti, da lance, da zattere cariche di legna e di carbone. Strani oggetti venivano a galla, su quelle onde nere come quelle dello Stige; e l’affogare lì dentro, doveva fare più ribrezzo e più paura che in qualunque altro fiume. Eppure ogni giorno, vi sono otto o dieci inglesi che si buttano nel Tamigi: beninteso, alcuni vi cadono nello stato di ubbriachezza. E varie inglesi, anche, vi cadono ogni giorno, cercandovi la morte e il riposo.
Giusto, in quell’ora delle quattro, i due barcaiuoli che erano in vigilanza all’altezza del ponte di Westminster, videro qualche cosa di nero agitarsi sulla spalletta del ponte e cadere con un tonfo sordo, come una balla di roba, nel fiume. Erano troppo avvezzi a questi casi, i barcaiuoli del ponte di Westminster, per meravigliarsene e fecero forza di remi verso il posto dove si era gittato il suicida. Il palombaro che vegliava sempre con loro, si gittò nello stesso gorgo, con un’abilità straordinaria, e risalì a galla, dopo un minuto, portandolo attaccato al suo corpo, avvinghiato, col gesto disperato dei morenti, che non vogliono più morire. Era un uomo, ancora giovine e robusto, ma con un viso consunto evidentemente dai dolori e dalle privazioni; vestiva con pulizia, ma con panni logori da operaio caduto nella miseria. Non dava segno di vita, in fondo alla barca.
I barcaiuoli e il palombaro cercarono di farlo riscuotere, versandogli fra i denti stretti un poco di gin dalle loro borracce: ma il suicida non rinvenne. Poco lontano, era una casetta per gli asfittici, ma i barcaiuoli la trovarono chiusa: era domenica e il custode aveva creduto di festeggiarla, come ogni buon inglese. Interdetti, seccati di quel carico, malgrado che ad ogni suicida salvato essi guadagnassero una bella somma, essi risalirono verso il ponte di Westminster e discesi a terra, portarono seco quell’uomo esanime. Subito si fermò della folla in quella bellissima strada che rasenta il palazzo di Sua Maestà Britannica; e una voce si ripetè, fra la folla:
— Un medico, un medico! —
Pareva che non ve ne fosse neppure uno tra la folla e intanto l’uomo giaceva per terra, sempre svenuto, pallido, tutto intriso di acqua. Il grido di soccorso si ripetè:
— Un medico, un medico! —
Un elegantissimo cab che si avanzava tutto nero e azzurro, con filetti di argento, con un bellissimo cavallo baio, si arrestò, a un tratto: e un signore schiuse le due porticine di cristallo dell’hansom, scendendone, sotto la pioggia.
— Ecco il medico, — disse una voce sottile e fischiante.
La folla si separò subito, per dare il passo all’uomo dell’arte. Costui era piccolo e deforme; sotto la preziosa pelliccia di volpe azzurra che si arrovesciava nel colletto e nei polsi, si vedeva una gobba molto prominente. Anche il viso di quel medico era bruttissimo: scialbo, con pochi peli radi e incolori sulle guance smunte e sulle labbra. Quello che più colpiva in lui, era lo sguardo: uno sguardo di occhi verdi, lucidi e limpidi come il cristallo verde: uno sguardo acuto e penetrante che pareva dissolvesse il mistero di qualunque anima. Egli si accostò al suicida e lo fissò, senza chinarsi su lui. Domandò, ai barcaiuoli:
— Annegato?
— Sì.
— Disgrazia?
— Suicidio.
— Da quanto tempo?
— Da una mezz’ora.
— Che avete fatto?
— Gli abbiamo dato del gin.
— Ha bevuto?
— Sì, ma è restato così. —
Allora, con una grande tranquillità, senza cavarsi i guanti, senza sbottonare la sua ricca pelliccia, egli si curvò sul suicida e lo guardò a lungo. Nessuna espressione sul viso di quello strano medico. La folla lo guardava, stupefatta, sembrandole che ogni momento trascorso aggravasse lo stato di quel miserabile suicida, giacente là, per terra. Ma la meraviglia crebbe in tutti gli astanti, quando il medico si tolse lentamente i guanti mostrando due mani lunghe, magre, ossute e bianche: delle mani quasi cadaveriche, che facevano sgomento, come quegli occhi di cristallo verde.
— Alzatelo, — egli ordinò ai due barcaiuoli.
Costoro presero il suicida e lo tirarono su, tenendolo sotto le braccia. Allora, il medico gobbo dagli occhi verdi, appoggiò le due mani alle tempie del suicida svenuto e si chinò leggermente su lui, guardandolo. Costui non si mosse, ma parve che un leggiero rossore venisse a colorire le sue guance, mentre il suo corpo pesava ancora sulle braccia dei barcaiuoli.
Il dottore si staccò un minuto dall’annegato, levando le mani dalle tempie. Si vedeva che le labbra del gobbo si muovevano, come se tremassero o se parlassero, pianissimo. Di nuovo, si curvò sull’esanime e gli appoggiò le mani sulle tempie, parlandogli, adesso, nel volto, affrettatamente.
Allora, si vide una cosa strana. Lo svenuto mosse le braccia e le gambe, un poco: levò la testa, aprendo gli occhi, voltandoli in giro, ma come senza sguardo.
— Come vi sentite? — chiese il medico, in inglese.
— Bene, — disse il suicida, senza voltarsi a lui, a voce bassa e senza espressione.
Adesso, il medico non gli teneva più applicate le dita sulle tempie, ma gli aveva preso una mano e gliela carezzava, lentamente, fra le sue. La folla, stupefatta, malgrado che fosse inglese, si stringeva sempre più intorno all’operaio e al medico.
— Perchè avete fatto questo? — gli domandò il dottore, non lasciando di carezzargli la mano.
— Perchè ero povero, — disse il rinvenuto sempre a voce bassa e come se parlasse in sogno.
— Non potete lavorare?
— Non ho trovato più lavoro, da due mesi.
— Che fate?
— Il tipografo.
— Siete inglese?
— No, austriaco, galliziano.
— Cattolico?
— No.
— Protestante?
— No.
— Luterano?
— No. —
Un silenzio si fece. La folla, già un po’ diradata, guardava con diffidenza l’operaio che aveva tentato di morire. Il dottore si curvò all’orecchio del suicida e parve che gli facesse una interrogazione. Costui trasalì, spalancò anche più gli occhi e come se facesse uno sforzo per rispondere, disse:
— Sì. —
Il dottore represse un moto delle labbra. Poi, gli disse:
— Vi sentite meglio?
— Così. …
— Provate ad alzarvi.
— Non posso.
— Provate, — insistette il medico, con voce imperiosa.
— Sono tutto spezzato, nelle ossa: debbo avere qualche cosa d’infranto, — gemette il suicida.
— Non avete nulla di rotto; anche se lo aveste, vi dico di camminare! — replicò con tono di dominatore, il medico.
Il poveretto, difatti, lamentandosi, fece uno sforzo e si levò; vacillava; lo sorressero. Il medico gli strinse di nuovo la mano, trattenendola un poco fra le sue e ordinò:
— Camminate, camminate. —
Difatti, l’uomo camminò. Oramai, la folla si era dileguata, sorpresa di questo medico che guariva la gente senza medicina e che la faceva camminare per forza. L’uomo, inconsciamente, camminava quasi addormentato.
— Sentite, — disse il medico richiamandolo. — Non avete nè denaro, nè casa?
— No: niente.
— Eccovi dei denari, — soggiunse il dottore aprendo la sua pelliccia e cavando una banconota dal suo portafoglio. — Venite a trovarmi. Come vi chiamate?
— Angelo Henner.
— Che avete detto?
— Mi chiamo Angelo Henner.
— Non è possibile! — disse il medico impallidendo.
— Eppure così è, — mormorò il misero, con la sua voce monotona, di uomo che dorme e sogna.
— Henner, Henner?
— Sì: Henner.
— Dove abitate?
— In via Huxley, numero diciannove. Ma verrò io, da voi, se permettete.
— No, no. Vi cercherò, addio.
— Grazie, signore.
— Non cambierete casa, almeno?
— No, signore.
— Aspettatemi: verrò in via Huxley, — soggiunse affrettatamente il medico.
E prima di andarsene, donò del denaro ai due barcaiuoli che, oramai, erano restati i soli spettatori di quella scena. Però, prima di risalire nel suo cab, il dottore prese le due mani dell’operaio salvato, le tenne fra le sue un momento, parlando a voce pianissima e guardando negli occhi il giovane Angelo Henner. Costui si scosse, di nuovo, e senza parlare, senza salutare, riprese la sua via, come un’automa.
Il dottore risalì nell’hansom-cab e dette l’indirizzo di casa. Richiudendo le due porte a cristalli, tirò anche le tendine. Voleva rimanere un poco isolato, nella sua carrozza. Difatti, solo, una orribile angoscia si dipinse sul suo volto.
— L’ho salvato io! L’ho salvato io! — disse, parlando a voce alta, come uno che farnetichi.
Egli si passò due o tre volte la mano sulla fronte, quasi a discacciarne i pensieri gravi e dolorosi che lo offuscavano. Ma più scorreva il tempo e più il suo volto si imponeva, pensando allo stranissimo caso che gli era occorso.
— Lui! Proprio lui! Misero, senza lavoro, senza pane, suicida. —
E come un sottil velo di lacrime intorbidò quegli occhi verdi e cristallini. Marcus Henner quasi piangeva.
Quando l’hansom-cab di Marcus Henner giunse al superbo palazzo che egli abitava, in Broadway, il quartiere ricco e aristocratico, il volto del medico gobbo si era ricomposto, sotto uno sforzo di volontà. Egli aveva dominato tutta la interna angoscia, come era solito di vincere la volontà altrui. Solo, un resto di pallore rendeva più tetro il suo viso e più profondi i segni scuri, sotto gli occhi.
La veloce e fine carrozza entrò come una freccia sotto il maestoso arco del portone: il guardaportone dette un colpo sul gong indiano che era sul primo pianerottolo di marmo e il singolare suono si ripercosse per l’ampia scala, dove, in cima al primo piano, sotto una pesante portiera di broccato, erano immobili due staffieri, in livrea. Nella vasta anticamera tappezzata di un rosso scuro non vi era nessuno; in un alto caminetto ardeva un fuoco vivissimo e un’aura calda, eguale, carezzava il volto. Marcus Henner si fermò in anticamera, un minuto, come se pensasse qualche cosa: poi, decisamente, entrò in una seconda stanza. Anche questa era messa con un lusso principesco: ed era, viceversa, piena di gente che aspettava, seduta nelle poltrone, nei seggioloni, sui divani. Erano persone di tutte le età e di tutte le condizioni, vecchi, giovani, fanciulli, poveri e ricchi: per lo più delle facce pallide, dei corpi abbattuti, stanchi, delle fronti preoccupate e delle bocche senza sorriso. Erano i malati del dottor Marcus Henner che, da un’ora e mezzo, aspettavano pazientemente che rientrasse.
Appena egli apparve, molti fra coloro si levarono, cercarono di prendergli la mano, di parlargli, di raccontargli una parte delle loro miserie: fra cui una donna smorta, magra, con una bocca dolente e livida. Ma egli, senza salutare, senza fermarsi, attraversò quella sala, chiuso nella sua pelliccia, con un’aria di persona che non veda e non senta nulla. La porta si richiuse dietro a coloro che vi si accalcavano, e, attraversando altri due salotti deserti, si trovò nel suo studio.
Ampio, austero, tutto in legno scolpito, lo studio era illuminato da un vasto finestrone che dava sopra una serra, dove erano coltivati i fiori più rari; intorno intorno, vi erano delle grandi librerie di quercia zeppe di libri, di grossi libri per lo più legati in pergamena, con certe cifre strane, in rosso o in azzurro. La grande tavola da scrivere era coperta di libri e di carte; un enorme calamaio di cristallo di rocca era aperto, sulla tavola. Del resto, nessun istrumento medico, nessuna fiala, niente, proprio niente che rammentasse la professione che Marcus Henner esercitava. Solo, contro il finestrone, vi era un seggiolone di cuoio nero, messo in tale luce che chi vi si sedeva, la riceveva tutta sul volto. Viceversa, Marcus Henner sedeva presso il tavolino, in penombra.
In quel giorno, giunto nella stanza da studio, egli si tolse i guanti e la pelliccia, gittandoli sopra un divano: e si lasciò cadere sopra una sedia, come sfinito. Ma anche questo sfinimento durò poco. Marcus Henner si rialzò e, andando verso il muro, toccò un campanello.
Nella parete di contro, si schiuse una porta segreta che era perfettamente mascherata e apparve un uomo, vestito di nero, con una cravatta bianca, un tipo fra il notaio e il maggiordomo. Era magro, alto, allampanato: due fedine bianche bianche, accuratissime, incorniciavano il suo viso. Gli occhietti grigi avevano una grave vivacità. Stette ritto in mezzo alla camera, senza parlare, aspettando che Marcus Henner gli dirigesse la parola. Costui, ora, stava seduto al suo solito posto e pensava.
— Lewis, che vi è di nuovo? — disse, infine.
— Interrogatemi, Eccellenza; e vi dirò.
— Lettere?
— Varie.
— Da dove?
— Dall’Austria, dalla Germania, dal Belgio.
— E. … nulla dall’Italia?
— Nulla.
— È strano!
— È stranissimo, Eccellenza.
— Bisognerebbe mandare qualcuno, colà.
— Vostra Eccellenza dovrebbe andare.
— Non posso, — disse Marcus Henner, reprimendo un moto di collera.
— Allora, io.
— Neppure: ho bisogno di te.
— Allora, nessuno.
— Nessuno! Purtroppo, nessuno, — disse Henner.
— Debbo telegrafare?
— No, mai. Ti dirò, poi. È venuto nessuno?
— L’anticamera è piena di gente.
— Ho visto: non voglio ricevere nessuno, oggi.
— Eccellenza. … è meglio ricevere.
— No.
— Vi è qualcuno che può interessarvi.
— Sì?
— Allora riceverò tutti.
— È arrivata gente dalla Russia.
— Poveri?
— Sembrano.
— Fa dar loro da mangiare, da dormire; li vedrò questa notte. —
Seguì un silenzio. Si vedeva che Marcus Henner, pensoso e preoccupato, voleva chieder qualche cosa, ma non si decideva. Poi, si decise.
— E. … Maria? —
Lewis aprì le braccia, con un atto desolato.
— Sempre lo stesso umore?
— Sempre.
— Non cede?
— Non cederà mai, mai. Morirà piuttosto, — disse Lewis, con una certa forza.
— Non voglio che muoia, — disse Henner, con voce lenta.
— Sapete che ha tentato di morire.
— Lo so. Che ha fatto, stamane?
— Ha pregato, molto.
— Inevitabile! E poi?
— Ha scritto.
— Sempre quel suo giornale?
— Sì: sono delle lettere, come sapete.
— Dirette alla stessa persona?
— Alla stessa.
— È terribile! — esclamò Marcus Henner.
— Che cosa ella fa di queste lettere? — disse Marcus Henner, appoggiando la fronte alla mano e come interrogando sè stesso.
Lewis fece un cenno largo, con le braccia.
— È possibile che non si ritrovino? — soggiunse il dottore gobbo, sempre come se parlasse a sè stesso.
— Vostra Eccellenza, se volesse. …
— Io? Io?
— Vostra Eccellenza può tutto, — disse, con tono umile, il maggiordomo, che era, allora, in funzioni di confidente.
Il gobbo crollò il capo, senza rispondere. Poi, riprese:
— Queste lettere si dovrebbero ritrovare. …
— Lewis tacque.
— Sei certo, Lewis, che ella non le imposti?
— Come lo potrebbe? O voi, o io, o Giustina, le stiamo sempre vicini.
— Abbia corrotto qualcuno?
— Indagherò, ma non lo credo. Tutti qui sono legati a voi.
— Ma non mi amano!
— Vi temono e vi rispettano.
— Ma non m’ama nessuno! — replicò, con amarezza, Marcus Henner.
— Io sono sinceramente devoto, Eccellenza, — protestò.
— La devozione è un sentimento diverso dall’amore, Lewis, — disse il gobbo. — E dire che ho, anche io, un cuore! —
Un velo di lacrime appannò i cristallini occhi di Henner. Ma egli si scosse subito e disse a Lewis:
— Conosci un uomo svelto e fidato, per una missione delicata?
— Sì. … avrei qualcuno. Ma debbo cercarlo.
— Non sai dove è?
— No: ho qualche traccia.
— Cercalo subito.
— Subito. E dopo?
— Me lo condurrai.
— Posso chiedere che missione avrà?
— Deve andare in Italia.
— Ah!
— Desidero che tutti i monasteri, tutti i conventi, tutti i ritiri sieno visitati, per ritrovare le tracce di Rachele Cabib.
— Per alcuni vi è clausura.
— S’infrange.
— Sarebbe grave, Eccellenza.
— Altre cose gravi abbiamo fatte!
— A Vostra Eccellenza è permesso tutto.
— Ritengo che Rachele ci sia stata sottratta dai suoi sentimenti religiosi, e che si sia data al Signore.
— Eppure, si è cercato bene. …
— Non bene, — disse duramente Marcus Henner.
— Suo padre va ramingando di paese in paese.
— Il vecchio è imbecillito. Trovami quest’uomo, Lewis. Lo pagherò bene.
— Un poliziotto, Vostra Grazia.
— Sta bene. In secondo, avere notizie e subito della contessa Clara Loredana.
— In viaggio. …
— Sì, ma dove si trova, ora, che cosa fa, perchè non si decide, che aspetta? Sapere questo!
— Scrivere?
— No, mai. Mandare qualcuno, appena saputa la sua direzione.
— Vincent?
— Sì.
— Istruzioni larghe?
— Larghissime.
— Altro?
— Tenersi pronti a partire, — disse Marcus Henner, dopo aver pensato un poco.
— Partire?
— Sì.
— La signora. …
— La signora obbedirà.
— Vostra Eccellenza sa farsi obbedire, ma la signora ne soffrirà.
— Non importa.
— Quando andò via dall’Italia, che pianto!
— Piangerà ancora. Le donne sono fatte per piangere, — e la sua voce era sempre più dura.
— Poveretta! — disse Lewis, quasi involontariamente.
— La compatisci? La compatisci? — disse Marcus Henner, levandosi con ira.
Lewis tacque, abbassando gli occhi.
— Va via, — gli disse il padrone.
— Vostra Eccellenza mi perdoni. … — balbettava.
— Va via!
— Nessuno ama quella disgraziata. … — mormorò Lewis.
— Esci! — comandò il dottore.
Il maggiordomo escì, senza osare di aggiungere altro.
Il dottore restò tutto pensoso, dopo la scomparsa di Lewis. Certo, rimescolava in sè i più strani pensieri, giacchè l’espressione del suo volto si mutava sempre. Infine, si levò da sedere e andò a una libreria, cavandone uno dei grossi volumi in pergamena; lo appoggiò sopra un leggìo, alto quanto la sua deforme persona, e lo sfogliò. Lesse qualche foglio, in piedi, ritto innanzi a quel mobile; aveva la testa appoggiata alla mano, come se meditasse, anche. Lasciò il libro e si avvicinò di nuovo al tavolino da scrivere.
Da una cassaforte, perfettamente dissimulata nel muro, come era la porta per cui era entrato Lewis, egli, col capo nascosto nel vano, cavò fuori un sottil foglio di pergamena gialla come quella del volume, un pennellino e una fialetta piena a metà di un liquido rosso.
Lentamente, cominciando dal piede del foglio e andando da destra verso sinistra, egli cominciò a scrivere, cioè a dipingere dei caratteri, col pennellino, su quella pergamena: e tutta la sua attenzione si portava sulla sua opera, i suoi occhi verdi scrutavano quel foglio, quelle parole vergate. Ogni tanto bagnava il pennellino nel liquido. Pareva sangue. Mentre scriveva, fu bussato alla porta dello studio, pian piano.
— Avanti, — disse Marcus Henner, neppure levando la testa dalla pergamena che stava miniando.
Un cameriere entrò, in grande livrea.
— Che vuoi, John?
— Vi è molta gente, fuori, Eccellenza: e aspetta da gran tempo.
— Non voglio veder nessuno, oggi.
— Eppure Vostra Eccellenza ha dato una quantità di appuntamenti per oggi.
— È vero; manda via tutti quanti.
— Eccellenza. …
— Che è? Non replicare!
— Vi è quella povera signora. … Mistress Jackson, quella infelice, così bella, così giovane e così malata.
— Inguaribile, — disse Henner, abbassando di nuovo il capo sulla carta.
— Anche per voi, Eccellenza?
— Anche per me!
— Voi che potete tutto?
— La tisi è più forte di me.
— Voi non siete un medico come tutti gli altri, — disse John, guardando il suo padrone con occhio di ammirazione.
— È vero, — disse Henner — ma non posso guarire mistress Jackson.
— Poveretta!
— T’interessa tanto?
— È una mia cugina, Eccellenza.
— Tu l’ami?
— No, Eccellenza, ma le voglio bene come a una sorella. Fatela entrare, ve ne scongiuro!
— Ma perchè?
— Perchè non crede che in voi, perchè solo voi potete aiutarla a sopportare i suoi mali! … È un’opera di carità.
— Debbo ingannarla, dunque?
— In carità, Eccellenza!
— Sta bene. Falla entrare!
— E gli altri?
— Manda via tutti!
— Anche lord Hicksbury?
— Anche!
— Anche lady Clarence Blackwood?
— Anche, anche! Solo mistress Jackson, perchè è una tua protetta.
— Chiedetemi la vita, Eccellenza, e ve la darò.
— Te la chiederò, forse, un giorno, — disse Marcus Henner abbassando di nuovo il capo sulla sua pergamena.
Aveva da scrivere ancora qualche poco, poiché quando si bussò di nuovo alla porta, non a quella segreta, ma a quella da cui era entrato ed escito John, egli disse di entrare, senza levare il capo. John entrò innanzi e dietro a lui una giovane donna, semplicemente vestita di nero.
Ella si sedette, con aria stanca. Era bianca bianca, con una carnagione perlacea fine: le venucce azzurre si disegnavano penosamente sulle tempie, sul collo, persino intorno alla bocca. Pareva che, mettendo una candela dietro il suo volto, esso si rendesse trasparente. Era magra, con certi grandi innocenti occhi azzurri e certe labbra pallidamente rosee: era bellina, carina, con un’aria di gioventù fragile e malaticcia. Vestiva con semplicità, ma decentemente: teneva le mani inguantate, incrociate in grembo. John che l’aveva introdotta, in silenzio, se ne era andato via egualmente, mettendosi un dito sulle labbra, per raccomandarle di tacere, fino a che Marcus Henner avesse finito di scrivere. Difatti, ella attese pazientemente. Egli scrisse ancora, con quei suoi strani caratteri rossi, sulla pergamena: aspettò che si asciugassero e ripose il foglio in una cartella di pelle che chiuse a chiave. Poi, levò il capo:
— Ebbene, mistress Jackson? — disse con voce conciliante.
— Signor Henner. … — disse quella, con una voce debole e velata, dove tutta la strada della tisi si rivelava.
— Non andate meglio?
— No.
— Avete avuto qualche altro fenomeno?
— Nessuno: ma sono malata, dottore, molto malata.
— Non vi fissate. Voi state meglio.
— Dottore, io morirò di questo, se non mi aiutate, — ella disse, cercando dar forza alla sua povera voce.
— Voi non morrete e io non posso, non debbo far altro, — mormorò Marcus Henner, guardandola fissamente, come per calmarne l’agitazione.
— Morrò, se non mi aiutate, — replicò ella, con la ostinazione dei malati.
— Che volete da me, mistress Jackson?
— Non voglio morire, ecco!
— Siete giovane, vivrete.
— Ho bisogno di vivere, dottore!
— Avete una famiglia numerosa?
— No, solo mio marito.
— Senza figliuoli?
— Senza, per grazia di Dio! Sarebbero tisici, pensate, come me, come mia madre! No, no. Mai questa tortura ad altri esseri viventi, a innocenti! Ma voglio vivere, per lui!
— Chi è questo lui?
— Mio marito, Emilio Jackson.
— Lo amate tanto?
— Lo adoro.
— E vi ama?
— Mi adora! — e aveva detto ciò col singolare ardore che mettono gli etici in queste cose dell’amore.
— Possibile, che vi adoriate tanto! — disse Marcus Henner con un sogghigno.
— Oh tanto! — esclamò la poveretta, congiungendo le mani.
— Esiste, dunque, l’amore? — chiese Marcus Henner, a voce bassa.
— Esiste: voi non ci credete? — domandò timidamente la tisica.
— No.
— Non siete mai stato amato? — disse l’altra.
— Mai, — rispose lui, recisamente.
— Come è possibile? Voi così pieno di talento e di cuore? Voi, il grande medico? Voi, il grande scienziato?
— Mai, mai, — replicò lui, abbassando la testa sul petto.
— Le donne non hanno cuore, — mormorò Elisa Jackson, a voce bassa.
— Sono brutto, sono deforme. … — disse lui, con tono triste.
— Non conta! Siete un salvatore dell’umanità, siete il Maestro! Ah salvatemi, ve ne scongiuro! — disse Elisa, con le lagrime agli occhi.
— Mia buona mistress Elisa, la vostra immaginazione è più malata del vostro corpo, — disse Marcus Henner, alzandosi e venendo a lei.
— Guarite il mio corpo e la mia fantasia guarirà subito, — replicò la tisica, ostinatamente.
— Non pensate tanto, — disse Henner, a voce bassa, prendendo una mano della signora Jackson e carezzandola.
— Vorrei. … — disse costei, a voce bassa come quella del medico.
— Bisogna pensare di non aver nulla, di stare perfettamente bene, di essere giovane e bella, per mister Emilio Jackson. … — riprese, lentamente, con voce che s’insinuava singolarmente, Marcus Henner.
Adesso, lo strano dottore gobbo aveva preso ambedue le mani di mistress Elisa Jackson e vi passava le dita sopra, con una carezza lenta e molle. Costei socchiudeva gli occhi, un poco, come se cadesse in un sopore, ma li riapriva subito: il bell’azzurro delle pupille nuotava in un grande languore.
— Come vi sentite? — le disse, piano, all’orecchio, il medico gobbo, sfiorandole la guancia con l’alito.
— Meglio, — ella disse, con gli occhi socchiusi.
— Credete di esser guarita? — replicò Marcus Henner, parlandole nel volto, con voce bassa, ma imperiosa.
Una singolare espressione di contrasto si manifestò sul viso di mistress Elisa Jackson. Pareva che una metà del suo essere acconsentisse a quello che diceva il dottore e che un’altra metà vi si opponesse. Non rispose. Una pena estrema agitava quel corpo e quel viso.
Allora il medico le si sedette dirimpetto, con le sue ginocchia contro le ginocchia della donna mezzo addormentata, guardandola coi suoi occhi cristallini e verdi, applicandole, a intervallo, le sue mani scarne e ossute sulle tempie.
A poco a poco, il senso d’inquietudine che regnava sulla fisonomia di Elisa Jackson si venne dileguando: ella chiuse gli occhi e una serenità le si diffuse sul volto. Allora, Marcus Henner si staccò un poco da lei e la guardò, con occhio d’ammirazione.
Immersa in quel letargo, Elisa Jackson era veramente graziosissima, con la testa un po’ inclinata sopra una spalla; il gentile volto era bianco come un giglio e un leggiero colorito roseo vi saliva, a traverso la finezza della pelle. La bella bocca, un po’ pallida, era schiusa sui denti bianchi e lucidi; e quasi sorrideva.
Stette qualche tempo, Marcus Henner, a guardare quella donnina, presa oramai completamente dal sonno ipnotico. Poi, le riprese le mani. Elisa Jackson gliele strinse lievemente e il sorriso delle sue labbra aumentò:
— Emilio, Emilio, — disse, con voce fioca e tenera.
Il viso di Marcus Henner si contrasse, quasi una emozione invincibile lo dominasse. Due volte, il suo viso si chinò sul viso della dormiente, ma se ne staccò subito.
— Emilio, ti amo, — mormorò la ipnotizzata, sorridendo sempre più.
Allora l’espressione singolare del viso di Marcus Henner si accrebbe. Non resistendo, si curvò su Elisa Jackson e la baciò lungamente sulla bocca. Appena si sollevava da quel bacio, con gli occhi lampeggianti di desiderio, che fu bussato alla grande porta.
— Chi è? — disse, con voce malferma.
— Io, John.
— Entra pure. —
Il cameriere entrò, e subito vide l’addormentata, in dolce atto, così bella e gentile.
— La state guarendo, è vero, Eccellenza? — disse il servo.
— Almeno, crederà di esser guarita, — mormorò Marcus Henner.
E si accostò alla dormiente, prendendole novellamente le mani. Pareva calmissimo, ora; ma i suoi occhi verdi, ogni tanto, lampeggiavano.
— Elisa Jackson?
— Dottore?
— Mi sentite?
— Sì.
— Mi comprendete?
— Sì.
— Volete obbedirmi?
— Sì.
— Dormirete, qui, un altro quarto d’ora.
— Sta bene.
— Quando vi sveglierete, io non vi sarò. Ve ne andrete via, convinta di non avere nessun male.
— Va bene.
— Se durante i due giorni in cui dovrà durare l’obbedienza, vi viene in mente di esser malata, scaccerete questo pensiero.
— Sì.
— Direte a vostro marito e a tutti, di sentirvi benissimo.
— Sì.
— Tornerete qui, fra due giorni.
— Va bene. —
Tutte le risposte erano state date con voce precisa e chiara. Il medico strisciò ancora una volta le sue mani lungo le tempie di Elisa Jackson e poi la lasciò. John lo guardava in atto di profonda ammirazione.
— È un miracolo, un vero miracolo, — mormorò.
— Dio è grande, — rispose il dottore, a bassa voce.
Poi, andò a riprendere il foglio di pergamena scritto tutto di sua mano.
— John, — disse — io vado di là, dalla signora Maria. Tu resta qui, sino a che Elisa Jackson sia risvegliata: l’accompagnerai fuori. Se vengono lettere, telegrammi, posali sul mio tavolino.
— Non debbo venire, di là?
— No, per nessuna ragione. —
Marcus Henner introdusse una chiavettina in un fregio di legno, ad altezza di uomo, nella sua libreria e un pezzo di questa si aprì, come una porta: egli sparve colà dentro e alle sue spalle la falsa libreria si richiuse. Egli si trovò nell’anticamera di un vasto e sontuoso appartamento; era deserto e così deserti tre o quattro saloni, ammobiliati con un lusso principesco, pieni di quadri preziosi, di fiori rari, di oggetti d’arte di prim’ordine. Però, tutto questo era un po’ freddo, come se la mancanza di una donna influisse a dare a quel lusso un aspetto glaciale. Con lo stesso passo eguale, Marcus Henner attraversò una serra a cristalli, ricca di piante d’ogni paese, tutta velata di leggierissimi stoini, con tre e quattro voliere di uccelli. Poi, penetrò in una stanza da letto, anche essa deserta.
Quella stanza da letto era vasta, con due ampie finestre, tutte velate ermeticamente di bianco. Le pareti erano coperte da una singolare stoffa di raso bianco dove correva un sottile e lucido disegno a fili d’argento; identici erano gli elegantissimi mobili in legno stuccato di bianco, con qualche filo d’argento; il letto, basso, era coperto da una meravigliosa coltre di merletto di Venezia su trasparente di raso bianco; sul tappeto erano gittate delle bianche e morbide pelli d’orso bianco. Tutto era candido e tutto era argenteo, in quella camera, degna di una regina; i candelabri, lo specchio, tutto il servizio di toilette era in argento, un delicato lavoro di arte; i mille oggetti sparsi dappertutto, armonizzavano col candore della camera.
Lo strano era che in quella stanza, dove, evidentemente viveva una donna, non corresse il soffio di un profumo, non un fiore fosse immerso nell’acqua di un vaso. Mancava, singolar cosa, qualunque immagine a capo del letto; non una figura di madonna, non un crocifisso, non una piletta, nulla. E un’altra bizzarra cosa vi era in quella camera. I grandi finestroni erano triplicemente velati, di seta bianca, di merletto e di certe larghe tendine di raso ricamato in argento, tanto che non si sarebbe mai nulla potuto vedere, di fuori, di quello che accadeva nella stanza; più, a osservare bene, quei cristalli erano fissi. Era un carcere, dunque, la camera di quella regina assente?
Marcus Henner si trattenne un poco in quella camera: aveva le sopracciglia aggrottate, come uomo che pensi troppo a un soggetto che gravemente lo affanni. Girò lo sguardo intorno intorno, e un amaro sorriso gli sfiorò le labbra. Attese un minuto e poi si accostò a una parete, sollevando una portiera che la ricopriva; vi era una piccola porta, dietro. Tentò la maniglia, ma la porticina resistette, come se fosse chiusa a chiave.
— Sempre così, — disse, a mezza voce, Marcus Henner.
Bussò, piano, con le dita, una sola volta. Nessuna voce rispose, dall’interno. Un profondo sospiro sollevò il suo petto ed egli bussò ancora, un po’ più forte. Nulla!
— Maria! — egli disse, piano, curvandosi al buco della serratura.
Nessuna risposta.
— Maria, Maria! — ripetè lui, più forte.
Nessuna risposta.
— Maria, perchè non mi rispondete? — disse lui, parlando sempre presso il buco della chiave.
Niente, niente.
— Debbo io infrangere la porta? Sapete che posso farlo! — esclamò lui, con una voce dove fremeva l’ira repressa.
Un passo si udì; qualcuno si avvicinò alla porta.
— Maria, aprite! — disse Marcus, imperioso.
Una voce debole, rispose, di dentro:
— Che volete, Marcus Henner?
— Vedervi, parlarvi.
— No, — rispose la voce fioca.
— Eppure vi vedrò, vi parlerò.
— Lasciatemi in pace! — mormorò la voce stanca e fievole.
— Non voglio turbare la vostra pace; debbo parlarvi, apritemi.
— Non voglio, — mormorò la voce, tristemente, ma fermamente.
— Vorrete!
— No.
— Maria, a che vi opponete? Siete in mio potere, lo sapete.
— Non aprirò.
— Non oggi, ma questa sera; non questa sera, domani. La mia pazienza è più forte della vostra resistenza. —
Un gemito si udì, dall’altra parte. Chi avesse bene guardato Marcus Henner, lo avrebbe visto impallidire, a quel lamento.
— Maria! Maria! — chiamò ancora, a voce bassa.
— Non siete andato ancora via?
— Non andrò. Aspetto che mi apriate. Fatelo, non voglio tormentarvi. Debbo dirvi qualche cosa che vi preme.
— Qualche cosa che mi preme? — disse la voce muliebre, diventata un po’ più forte.
— Sì.
— Che cosa?
— Apritemi e lo saprete.
— Voi m’ingannate.
— Non v’inganno.
— Siete maestro in tranelli, Marcus Henner, — replicò la voce femminile, improvvisamente irata.
— Maria! Apritemi; vi ho da parlare. …
— Di che? Di che?
— Di una persona che amate. —
S’intese un lieve scricchiolìo della porta, come se un corpo che vacillasse vi si fosse appoggiato.
— Io non amo nessuno, — mormorò la voce, diventata di nuovo debolissima.
— Il solo essere che amate.
— Il solo!
— Sì, il solo. Io ne ho notizie.
— Avete notizie? — la voce tremava tanto che quasi balbettava.
— Sì, aprite. —
Vi fu un minuto di silenzio. Poi la chiave stridette nella serratura e la porticina si aprì. Marcus Henner entrò nella stanza di cui, sino allora, gli era stato vietato l’ingresso. Era una camera piccola, in paragone dell’ampia stanza da letto a cui era accanto; anche la sua sola finestra era velata di bianco, fittamente, e le imposte non avevano maniglia.
Del resto, la più nuda, la più povera semplicità regnava in quell’ambiente. Le pareti non avevano nè stoffe, nè carta da parati: erano dipinte di bianco di calce, senz’altro.
Un piccolo letto di ferro, come quello di una educanda, formava il mobile principale; si componeva di un sol materasso e di un sol cuscino, con una coltre di lana rozza. Sul pavimento non vi era tappeto; l’ammattonato era nudo e freddo. Vi era un tavolino da scrivere, un armadietto che formava anche scansia da libri, un inginocchiatoio e due sedie, niente altro. Sull’inginocchiatoio di legno semplice era un crocifisso: sopra, sul muro, sospesa una immagine della Vergine. E sul cuscino era appoggiato un libro pio, che la donna aveva lasciato aperto, l’Imitazione di Cristo.
La persona che aveva aperta, così a malincuore e pure così ansiosa, si teneva ritta, presso l’inginocchiatoio da cui si era levata. Era tutta vestita di lana bianca, con una veste ad ampie pieghe, dal collo sino ai piedi, claustrale; era una donna alta e snella, ma, attraverso le molli pieghe della sua ieratica veste, il corpo non arrivava a delinearsi. Sul viso ella portava una espressione di orrore e di affanno. Marcus Henner guardò quella donna con occhi pieni di amore e di ira.
— Maria, Maria, perchè mi fate questo? — le chiese, avanzandosi verso lei.
Ella si arretrò, sino al muro, dicendogli:
— Non vi accostate!
— Non temete, non mi avvicino, — disse amaramente il medico.
— Se vi avvicinate, sapete bene quello che farò, — disse Maria, con tono fermo, malgrado la fievolezza della sua voce.
— Voi vi uccidereste? Voi, una così ardente cristiana? — ghignò Marcus Henner, guardando il crocifisso con occhi biechi.
— Morirei per la mia fede e Dio mi assolverebbe, — disse la donna subitamente esaltata.
— Maria, non voglio farvi nulla. Calmatevi.
— Ditemi quello che dovete dirmi e andatevene, — dichiarò lei, aggrottando le sottili sopracciglia nere.
— Mi scaccerete voi sempre? — mormorò Henner, passandosi la mano fra la chioma incolta.
— Sempre.
— Vi faccio paura?
— Mi fate ribrezzo.
Come l’altra, — disse, pianissimo, Marcus Henner.
— Che dite?
— Nulla. Mi lagno del destino.
— Siete voi, che volete forzare il destino, Henner, — disse la donna, con voce più tranquilla.
— Io vi amo da quindici anni, Maria! — esclamò il gobbo, con gli occhi a un tratto fosforescenti.
— Allora come adesso, è inutile, — diss’ella, quietamente, crollando il capo.
— Morirò io senz’avere una parola di bene, da voi?
— Di carità, sì: di amore, mai, — disse la donna, a occhi bassi.
— Non so che farmene, della vostra pietà. Io voglio il vostro amore.
— Io sono vecchia, Henner.
— Per me, avete sempre venti anni.
— Io sono di Dio, lo sapete.
— E di un’altra, — ghignò il gobbo.
— Sì, — disse la donna. — Non volevate parlarmi di lei?
— Io? Volevo parlarvi di me.
— Mi avete ingannata, dunque? Per entrare qui dentro? Per torturarmi con la vostra presenza?
— Maria!
— Io ho bisogno di stare sola con Dio! Andatevene!
— Maria, Maria, non mi spingete agli estremi! — mormorò il gobbo.
— E che? Mi uccidereste?
— No.
— Che cosa, allora?
— Nulla, Maria, ma non mi mandate via, così.
— Che volete?
— Uno sguardo, un sorriso, un bacio! — disse Marcus Henner, accostandosi a lei.
— Mai, mai!
— Siate buona, io vi adoro, — e le si avvicinava e cercava di prendere una mano.
— Non mi toccate! — gridò lei, stringendosi al muro, con un senso di alto ribrezzo.
— Ma che vi ho fatto, dunque, io? Che vi ho fatto? Perchè siete così ingiusta e crudele? — gridò Marcus Henner.
Avete voi dimenticato? — ella disse, a voce bassa, guardandolo negli occhi.
E fece un gesto, come se volesse svolgere la sua persona dalle pieghe del suo vestito, fluttuanti. Egli rabbrividì.
— No, no! — gridò, fermandola, con le mani distese.
— Che temete? Sono un povero essere senza difesa, — ella disse, avanzandosi verso lui, levando la mano.
— Per pietà, Maria! — gridò lui, arrestandola.
— Il vostro delitto vi fa dunque inorridire? — chiese lei, lentamente.
— Sì, — disse lui, a capo basso, a occhi chiusi.
— Ve ne pentite?
— Sì.
— Perchè lo commetteste?
— Per amore.
— Oh, Dio, tu lo ascolti! — ella pregò, levando gli occhi.
— Non nominate il vostro Dio!
— Pregatelo, pregatelo!
— No, Maria.
— Solo lui può perdonarvi, può darvi la pace. Pregatelo.
— Mi dovrebbe dare il vostro amore.
— No. Egli non può permettere un sacrilegio!
— Quale sacrilegio?
— Voi siete un empio, un ebreo.
— Non disprezzate il Dio d’Israele: era il vostro!
— Era!
— Fatale, maledetto giorno! — bestemmiò lui.
— Parlatemi di lei, — disse a un tratto, la donna.
— Di lei? Non so nulla. …
— È morta, è vero?
— Non è morta.
— Voi mentite, essa è morta; voi mentite per trattenermi in vita!
— Vi giuro che non è morta.
— Ma dove è?
— Non lo so.
— Cercatela!
— La cerco, — disse lui, sorridendo amaramente.
— Trovatela!
— E mi amerete? — mormorò Henner, accostandosi a lei.
— Pregherò per voi.
— Non mi basta.
— Trovatela, trovatela!
— Sia in capo al mondo, la troverò, — disse lui cupamente.
— Preme anche a voi?
— Sì, — diss’egli, con forza.
— Dio! — diss’ella, impallidendo di gioia. — E quando l’avrete trovata, che farete? — chiese Maria, avanzandosi di nuovo verso Marcus Henner.
Costui tacque: aveva abbassata la testa sul petto, come sotto il peso di un grave pensiero.
— Marcus Henner, che farete voi di lei? — ripetè la donna, con voce più forte, con accento più vibrato.
— Nulla, Maria, nulla! — esclamò il gobbo, con accento desolato.
— La condurrete voi a me?
— Se vorrà venirci!
— Credete che si neghi di venire da me?
— Negherà di venire, con me!
— E perchè, Marcus Henner? — domandò Maria, che aveva preso l’aspetto di una vera inquisitrice.
— Non me lo chiedete!
— Dite il perchè! Voglio saperlo: debbo saperlo.
— Ella mi odia, — confessò Henner, a voce bassa, con collera e con dolore.
— Come me!
— Come voi.
— Quanto me? — disse Maria, guardando negli occhi verdi il deforme.
— Non so. … più, forse! — disse lui, con la faccia fra le mani.
— Di più, è impossibile, — ella rispose, piano, lampeggiando dai bruni occhi, in cui era scomparsa la natìa dolcezza e il languore.
— Tanto, tanto, mi odiate? — gridò lui, avanzandosi presso Maria.
— Enormemente.
— E siete buona? E siete una cristiana?
— Ogni giorno chiedo perdono a Dio di questo peccato, mi umilio, mi pento; ma subito, rifaccio il peccato.
— Ma che vi ho fatto, infine, che vi ho fatto?
— E lo domandate? E osate domandarmelo?
— Io vi ho adorata, Maria.
— Voi adoravate un’altra.
— Voi, sempre voi, ebrea, cristiana, a quindici anni, a venti, a trentacinque, vi ho adorata, Maria.
— Io amava un altro uomo e voi mi avete tolta a lui!
— Egli è morto, — disse Marcus Henner, tetramente.
— Morto, morto, il mio amore! — gridò Maria con accento di disperazione.
— I morti non risorgono, — replicò Henner, guardando Maria negli occhi.
— Morto per voi!
— Io non l’ho ucciso, — disse, a voce bassa, Marcus Henner, mentre ancora i suoi occhi fissavano quelli di Maria, con una intensità profonda.
— Osate negarlo? Egli osa negarlo! Oh Dio, voi lo ascoltate, dunque?
— Non l’ho ucciso, — ripetè Henner.
— Voi siete un assassino, Marcus Henner. Voi avete teso a Jehan Straube il più orribile tranello, ed egli vi è caduto. —
Il gobbo tacque.
— Oh Jehan, Jehan, amore mio! — diss’ella, singultando — tu hai creduto alla mia morte.
— Egli vi credette, infatti, — mormorò Marcus Henner, con un sorriso feroce che non seppe padroneggiare.
— Vi credette! Tu, tu, mostro, gli facesti vedere che io era morta.
— Egli lo vide, io non lo ingannai.
— Scellerato, scellerato! Tu commettesti un’infamia, adoperando la tua terribile arte di medico, che il Nemico degli Uomini ti ha insegnata. …
— Maria, io sono un Maestro; tutto mi è dato di fare!
— Non tutto, — ella disse.
— Tutto.
— Non già farti amare da chi ti odia, — diss’ella, guardandolo con occhi di sfida.
— Maria, non mi provocare!
— Non già avere una donna che ti si rifiuta! — ella gridò, al colmo dell’eccitamento.
— Maria! — gridò lui, con tale espressione spaventosa, negli occhi, che ella si arretrò.
— Dio è grande, Dio è giusto, Dio è buono, — esclamò lei.
Un atroce sghignazzìo uscì dalle labbra di Marcus Henner.
— Jehan Straube è morto, ma tu non mi hai avuta, ma io ti odio! Quindici anni di carcere, è vero, ma l’odio, sempre l’odio: quindici anni di viaggi, di fughe, di dimore nei paesi più lontani e più strani, quindici anni senza casa, senza patria, senza nessuno di coloro che amo, in tuo possesso, ma non tua, mai, mai! —
Il gobbo non faceva che guardarla, ora.
— Tu mi dài un appartamento regale, dei servi, delle schiave, dei vestiti magnifici, dei pranzi sontuosi, ma io disprezzo le tue ricchezze e il tuo lusso, venuto da vie diaboliche. Ma io non dormo nelle stanze principesche che tu mi prepari, io mi contento di una cella monacale; io non indosso le stoffe di velluto e di seta che tu mi doni, mi basta una veste di lana bianca; io non comando ai servi e alle schiave, poichè esse sono le tue spie! —
Marcus Henner guardava Maria. La voce già forte, di lei, sul principio di queste invettive, si era venuta abbassando, come se le mancasse il fiato e l’anima. Ella che fissava sempre con coraggio Marcus Henner, adesso, ogni tanto, abbassava le palpebre, come se fosse stanca. Due o tre volte ella vacillò, come se cadesse, e con uno sforzo, tentò di reggersi, tentò di riprendere il suo discorso:
— Tu puoi carcerarmi. … puoi circondarmi di spie. … puoi vegliare su me, come sopra un condannato a morte. … non mi avrai. … non ti amerò. … —
Ma già, sotto la potenza dello sguardo di Marcus Henner, ella balbettava: uno smarrimento strano si dipingeva nei suoi occhi che, a volte, erano socchiusi, come se non potessero reggere le palpebre sollevate, a volte si spalancavano, stralunati, come se vedessero un orribile spettacolo. Adesso, Marcus Henner concentrava tale una forza di volontà nel suo sguardo che ella chiuse gli occhi e sarebbe crollata, se egli non si fosse trovato pronto a sostenerla. Due o tre volte, mentre egli le passava lentamente le dita sulle tempie, una espressione di dolore si manifestò su quel volto. Ma subito si diradava.
Ma, di nuovo, egli strinse fra le sue mani fredde e scarne la fronte di Maria che era immersa nel sonno ipnotico, ma che non aveva perduta perfettamente la coscienza. Pian piano, la lotta che i due principî, della vita e del sonno, facevano fra loro, parve si dileguasse completamente e una perfetta serenità regnò sulla fisonomia di Maria, come, poco prima, su quella di Elisa Jackson. Anche il volto pallido di Maria si era trasfigurato e le linee convulse di una fibra sempre in orgasmo avevano subìto una trasformazione.
Il volto bello, ma consunto dai dolori, dalle preghiere, aveva riacquistato come una giovenilità novella; un amabile sorriso era vagante sulle labbra della dormiente, come se ella sognasse il più bel sogno.
Quando la vide addormentata perfettamente, Marcus Henner cinse con le magre ma poderose braccia il corpo di quella donna, e sollevandolo senza nessuno sforzo, lo trasportò nella principesca camera, deponendolo sopra un divano. Poi, le compose le vesti, intorno, come a un bimbo che si è addormentato, e le ravviò i capelli sulla fronte. Il divano era basso: Marcus Henner s’inginocchiò sul tappeto bianco, formato da una pelle d’orso di Russia, e si mise a parlare all’addormentata, piano:
— Maria?
— Che vuoi? — disse la voce dell’ipnotizzata, senz’asprezza, ma parlante nel sonno, come di lontano.
— Mi senti?
— Ti sento.
— Mi comprendi?
— Ti comprendo.
— Sai che cosa voglio, da te? —
Come un’ombra scura passò sulla fronte della dormiente.
— Sai che cosa voglio? — replicò il medico, a voce bassa, ma con forza.
— Lo so, — disse la ipnotizzata, dopo un minuto di silenzio.
— E che cosa è? —
Ancora una nuvola su quella fronte pura!
— Tu vuoi, Marcus Henner, che io ti ami, — disse la dormiente, dopo un grave sforzo per trovare la voce.
— Sei disposta a obbedirmi? —
Un profondo sospiro escì dal petto di Maria.
— Vuoi obbedirmi? — disse, duramente il gobbo, tenendo il suo viso presso quello dell’ipnotizzata.
— Sì, — disse finalmente costei con voce fievole.
Un diabolico sorriso di trionfo aleggiò sulla mostruosa faccia di Marcus Henner. Ancora una battaglia che egli vinceva contro la volontà di quella donna e contro il proprio destino!
— Sei pronta? — disse.
— Sì.
— Rinneghi l’odio per me? Fa’ uno sforzo su te stessa, scaccia questo sentimento per obbedirmi. Lo rinneghi? —
Il viso della ipnotizzata si fece pallidissimo; ella scosse la testa, come se volesse sottrarsi al fascino ipnotico. Ma egli le passò subito le dita sulla fronte.
— Rinneghi, rinneghi?
— Rinnego.
— Ah! — egli fece, con un sospiro di soddisfazione.
E si curvò su lei a comandarla.
— Devi amarmi, intendi? Vinci, vinci il tuo cuore che ancora si dibatte, senti la mia volontà, senti il dominio che io esercito sulla tua volontà! —
Dicendo queste cose il gobbo aveva negli occhi verdi e nella voce tanto imperio, tanto fluido di dominazione, che un genio infernale pareva sprizzasse dal suo sguardo e dalle sue parole. Distesa, tutta bianca nelle sue vesti, Maria, inerme, indifesa, subiva tutto il fascino malvagio di quell’uomo terribile.
— Ami ancora Jehan Straube? — le chiese, con un ghigno d’ironia.
— No, — disse lei, dopo una esitazione.
— Lo hai scacciato dal tuo cuore?
— Scacciato.
— Dimenticato?
— Se vuoi, lo dimenticherò.
— Lo voglio. —
Ella tacque.
— Mi ami? — egli le chiese, inginocchiato innanzi a lei, con uno sguardo ardente.
— Ti amo, — ella rispose, a voce fioca.
— Ripetilo!
— Ti amo.
— Quanto?
— Moltissimo.
— Ami solo me?
— Solo te.
— Ti piaccio?
— Mi piaci.
— Non mi vedi brutto, vecchio, deforme, laido?
— No. …
— Ti sembro bello, giovane, robusto, elegante?
— Sì.
— Vuoi solo me, è vero? — disse lui.
Di nuovo, una espressione di orribile sofferenza si dipinse sul viso di Maria: e Marcus Henner digrignò i denti dalla rabbia.
— Vuoi me? — le ripetè.
Ella tacque. Funereo silenzio! Egli comprese che quella vita si poteva spezzare, forse, in quel sonno, ma non piegarsi al furore della sua volontà.
— Dimmi che mi ami, — replicò.
— Ti amo, — disse lei.
— Per sempre?
— Per sempre.
— Devi adorarmi.
— Ti adoro.
— Dammi un bacio, — comandò lui.
Un sussulto nervoso attraversò tutto il corpo di Maria che parve si ribellasse a quell’ordine.
— Dammi un bacio, — egli comandò, parlandole nel volto, applicandole le mani alle tempie.
Ma, invece di veder tornare la calma su quel corpo, dei lunghi fremiti convulsi lo contorsero.
— Dio, Dio, anche nel sonno! — gridò Marcus Henner, mostrando i pugni al cielo.
Ma riprese l’opera di fascinazione, furibondo, deciso a vincere quella resistenza che oltrepassava i limiti ordinari; deciso a spezzare quella volontà. Con gli occhi fissi su quel volto, alitandole in viso, stringendole le tempie, egli le ripetè:
— Dammi un bacio. —
Due volte, la infelicissima ipnotizzata si sollevò con la persona, come per dare un bacio a Marcus Henner, ma due volte un movimento convulso la rigettò indietro.
— Dio non vuole! — egli gridò, nel colmo dell’ira — ma io sono più forte di Dio! —
Le sue lunghe dita ossute strinsero quelle tempie, come se volessero schiacciarle; i suoi occhi divennero ardenti come due carbonchi ed egli disse alla donna, per la quarta volta:
— Dammi un bacio. —
Allora avvenne una cosa terribile. Quel corpo abbandonato al sonno ipnotico, vinto da una fascinazione terribile, diventato lo schiavo di quel corpo dagli occhi verdi, quel corpo che era suo, di cui egli poteva fare quel che voleva e che egli teneva pronto, lì, su quel divano, si levò, di scatto, parve più alto, fantomatico, nelle vesti bianche. E gli occhi di quella ipnotizzata si spalancarono, grandi, vitrei, senza sguardo. Ella gridò, avendo superato il fascino:
— No, assassino! —
E Marcus Henner, a un tratto accasciato, diventato un cencio, avendo consumato tutta la sua volontà, cadde a terra, lungo disteso, con le braccia aperte, piangendo sulla sua sventura.