IV.

Ogni tanto nella buona società, si parlava dell’amore di Luisa Cima e di Paolo Herz:
– Sarà una passione fugace, vedrete – diceva un uomo, che se ne intendeva molto – Paolo si stancherà presto.
– Del resto, sembra che l’ami molto poco – soggiungeva uno scettico.
– E Luisa è proprio una creatura nulla. Che ci trova, poi Paolo? – osservava un’amica di Maria.
Costoro e gli altri sbagliavano assai sul conto di Paolo Herz e del suo amore. Egli era preso seriamente. Non sapeva neppur lui come era accaduto. La prima volta che egli aveva vista Luisa Cima gli era parsa nulla. Varie altre volte, il suo giudizio non si era modificato. Una sera, però, ella teneva nelle mani un fiore di asfodelo, dal lungo gambo: e gli aveva parlato prestamente, ridendo, battendogli sul braccio con quel leggiero fiore, guardandolo con tenerezza e con malizia. Egli aveva ripensato a quel viso espressivo, pallidissimo sorridendo di compassione e di compiacenza. Ed è tutto. Più tardi, negli spasimi della passione mortale, perversamente, Luisa Cima gli aveva narrata la leggenda orientale dell’asfodelo e della montagna. Una montagna esiste, salda, forte, incrollabile, in un paese d’Oriente: non l’hanno vinta nè i cataclismi della natura, nè le mani degli uomini. Ma vi è anche un piccolo fiore fatato, l’asfodelo: esso, gracile, tenuto da una mano gracile, batte sulla montagna: e la montagna trema.
– Io possiedo il magico fiore – soggiunse lei ridendo, mostrando tutti i denti fitti e minuti, attraverso le labbra rosee e le gengive esangui.
Ma ciò fu più tardi, molto più tardi! Paolo Herz non ebbe sentore del suo gran periglio, che quando egli era completamente indifeso, senz’arme, senza forza e senza volontà. In realtà, Paolo Herz si lasciò andare a questo amore per Luisa Cima con una spensieratezza baldanzosa di uomo provato dalla passione e che è certo di dominare il proprio destino amoroso. E, in principio, questo amore che in lui doveva mettere radici così profonde e così vitali, non parve, forse, un flirt molto leggiadro e molto fine a cui Luisa si abbandonava con rossori di emozione di novella iniziata, in cui Paolo aveva l’aria di un maestro tranquillo, severo e pieno d’esperienza. Ella manteneva quel suo contegno infantile, di una semplicità assoluta quell’aspetto di creatura debole e vezzosa che si accosta, tremando, alle grandi ore tempestose, che ne è sgomenta ed attratta, che, considerando il pericolo con occhio di dubbio e di paura, pur sembra decisa ad affrontarlo. Quasi quasi, in alcuni momenti, Paolo Herz sentiva una pietà grande di questa donnina che invocava così audacemente e imprudentemente i folli ardori delle supreme febbri, e la guardava con occhio pieno d’indulgenza e di compassione, domandando a se stesso, se non fosse più onesto avvertirla, che le povere bianche dita, dalle unghie così scintillanti, si sarebbero bruciate, a scherzare col fuoco.
La pietà! Era un sentimento che preponderava, nel cuore di Paolo, per Luisa e che, forse, era l’origine di tutti gli altri. Pietà dell’uomo sano per la personcina malatticia, della persona forte per l’essere debole, del carattere saldo e leale per un carattere incerto, puerile, fatto di bizzarre fluttuazioni; pietà per quel volto tenue, per quei capelli troppo morbidi e troppo fini, per quelle cose pallidamente rosee, labbra, gengive, unghie! La pietà, sovra tutto, per questa creatura così piccina e così fragile, che era negata a tutte le lotte gravi dell’esistenza e a tutte le vittorie clamorose, che si doveva contentare di mezzi piaceri, di mezzi amori, di mezzi trionfi, per questa povera piccola cara che a tante, tante cose belle e alte della vita doveva rinunciare. Ah come la perversa leggeva negli occhi di Paolo, il poema amorosissimo di questa pietà, e come sapeva sospingerla e allargarla, come sapeva usarne, perchè questo uomo fosse completamente suo, preso dal pallido viso senza bellezza, dalla piccola persona senza nobiltà di linee, preso da quel tipo così capriccioso e fugace, preso da quella volubilità puerile, preso da quell’insieme di graziose miserie femminili, per la pietà! Come ella sfruttava, a suo favore, questa immensa pietà, facendosi contentare in tutti i suoi capricci, dettando lei tutte le condizioni di quell’amore, imponendo la sua volontà di donna debole, piegando quella volontà di uomo forte, imperiosa nella sua grazia morbosa, inquietante nei suoi turbamenti improvvisi, suggestiva di tutte la stranezze e pallida persuaditrice di ogni bizzarria!
Nè solo la sicura e schietta forza di quest’uomo doveva esser vinta dalla debolezza di quella donna, rinnovando anche una volta, come per migliaia di anni, le antiche favole delle seduzioni ebree e greche, ma la fantasia e i sensi di Paolo Herz dovevano subire le lusinghe più inaspettate, dovevano esser tormentati e carezzati da un’insaziabile curiosità. Colui che aveva assunto per la sua età, per la sua conoscenza della vita, per la sua esperienza dell’amore, la posizione di maestro, di guida, di consigliere, in questo che egli chiamava, senza saper di dire così bene, l’ultimo amore della sua vita, si trovò innanzi a una scolara stupefaciente. Vi era in Luisa Cima un così singolar miscuglio di corruzione spirituale e di giovanile poesia, di candore e di menzogna, di gelido calcolo e di squisita grazia, che Paolo Herz passava di sorpresa in sorpresa, che tornava a casa, dopo i convegni di amore, disgustato, incantato, irritato, estasiato, sempre in preda a una esaltazione. Ella si mostrava a lui in tutte le sue faccie, in tutti gli aspetti di un temperamento egoistico e imperioso ella era impertinente e affettuosa, mai soddisfatta, gelosissima, civettissima, narrando tutte le sue conquiste, violando tutte le delicatezze dell’amore, senza scrupoli, senza carità, disumana, o pure talmente ammaliatrice, che lasciava il suo amante confuso nell’ebbrezza, ebbrezza orribile, ma che importa? Ebbrezza!
Quando egli si accorse che, a trentasei anni, essendo uscito salvo, incolume da due o tre violente passioni, avendo penetrato l’anima femminile in tutte le condizioni e in tutti i paesi con lo sguardo freddo dell’osservatore, avendo saputo molte, troppe, delle verità dell’esistenza, avendo la piena coscienza del proprio valore e del proprio diritto, quando si accorse, dico, che egli apparteneva, spirito e sensi, a quella piccola donna, dalla testina bruna su cui parea si levasse il ciuffetto lucido di penne di un uccellino, e che egli era un suo prigioniero per la vita e per la morte, era tardi, era troppo tardi. Sentì il peso del ferro, ai polsi, ma non più il vigore per iscuoterlo. Atroce scoperta e atroce giornata! Ella era stata, in quel giorno, assolutamente perfida, assolutamente cattiva, con lui: e invano egli aveva voluto, sorridendo, diradare questa mala volontà perversa che animava Luisa Cima. Il piccolo idolo giapponese, ridendo di un crudel riso, mostrava i suoi dentini minuti e le pallide gengive, crollava la testina, scuoteva le spalle e diventava anche più malvagia. Paolo Herz ebbe un moto d’ira, il primo. Partì da quella casa, pensando che ella non lo avrebbe richiamato. No. Canticchiava ella, come un fanciulletto. Suppose che, giunto a casa sua, un biglietto lo avrebbe richiamato. No. Si torturò tutto il pomeriggio, non uscendo, attendendo questo appello. No. Anzi qualcuno gli disse che Luisa Cima era andata alla passeggiata, e che dei giovanotti l’accompagnavano e che ella rideva.
– Rideva?
– Sì, rideva – ripetette l’amico.
Alla sera, come l’ora avanzava, solo, desolato, disperato, Paolo Herz andò alla casa di Luisa Cima affrontando tutti i rischi di questa visita in un’ora insolita. Per fortuna, ella era sola, leggeva, bevendo una tazza di the. Il suo viso era sereno, nè avevano traccie di lacrime i suoi occhi: già egli non l’aveva mai vista piangere. Ella rosicchiava dei biscotti inglesi. Muto, imbarazzato, con un dolor vivo nel volto, Paolo Herz la guardava: ed ella non comprese, non volle comprendere: egli dovette dirle tutta la sua spasimante giornata, di cui Luisa si meravigliava molto, con un’aria di disinvolta innocenza: e infine, quando egli scoppiò in rimproveri e delle lacrime di collera gli sgorgarono dagli occhi, ella trovò modo di dargli tutti i torti e lo obbligò a chiederle perdono. Obbligò? Fu lui che, contrito, compunto, persuaso di aver maltrattato un angelo bianco e piccino, convinto di essere il più ingiusto e il più villano fra gli uomini, s’inginocchiò innanzi a Luisa per impetrare la sua grazia. Con quale stento gli fu accordata, come cadde dall’alto, come parve proprio una degnazione sovrana! Ma la ottenne. Era tardi, quando uscì da quella casa, folle di gioia. Il cielo stellato brillava sul suo capo; i sentori della primavera olezzavano intorno a lui; la terra pareva elastica, sotto il suo passo: e a un tratto, il cielo gli parve funebre, un odore di morte gli salì al cervello e la terra roteò sotto di lui, ed egli intese che era perduto, si sentì perduto, perduto.