VI.

Chérie era lunga distesa, sulle pelliccie bianche e morbide che coprivano un gran divano basso: e la sua testolina bionda arruffata si affondava nei piccoli e molli cuscini di seta bianca. Una gran vestaglia di mussolina di seta, tutta nera, a piegoline fitte, dal capo ai piedi, la vestiva mollemente e appena lasciava vedere, nelle sue onde nere smorte, i lunghi e sottili piedi, calzati di finissime scarpette nere, quasi senza tacco. Ella era sola: e non faceva nulla. Non si annoiava neppure. Teneva le braccia incrociate dietro il capo e guardava il soffitto a cassettoni del suo magnifico salone, così austero nel suo addobbo e nel suo mobilio. Ella non fumava, non dormiva, non sonnecchiava, non sognava: stava, così. Erano le tre pomeridiane, pioveva e il cielo era basso, plumbeo e triste. Paolo Herz entrò.
– Oh caro uomo, vi si rivede! – ella disse, con una espressione molto gentile e non mancante di cordialità.
– Non ero morto – egli rispose, formando un pallido sorriso.
– Non l’ho mai pensato. Lontano, eh? – e gli dette la mano.
Egli baciò quella mano, lievemente, ma la trattenne un pochino sotto le sue labbra.
– Lontano, sì.
– Un gran viaggio? Dove?
– Che viaggio! Una dimora in provincia, niente altro, Chérie.
– Noiosa?
– No.
– Triste, allora?
– … sì.
– Eravate voi, triste? – domandò ella, con la sua meravigliosa voce cantante un’armonia strana.
-… non so. Credo… credo che sia stato io, triste – Paolo Herz soggiunse, vagamente.
– E vi siete consolato, Paolo?
– M’immagino di no… certamente, no.
– Eh! passerà – ella mormorò, con un tono di voce profondo e toccante.
– Questo dite voi, Chérie?
– È così. Passerà.
Un silenzio. Egli era seduto accanto a lei, ma non vicinissimo. Adesso, ella teneva le braccia e le mani abbandonate lungo la persona. Sul nero, le mani erano candidissime: ma troppo gemmate.
– Dove siete stata, voi, Chérie?
– A Saint-Moritz.
– Bello, è vero? Ci manco da tre anni.
– Bellissimo. Ma quell’aria mi ha fatto male, un poco.
– Qualche cosa può farvi male, Chérie?
– Pare. Ci respiravo male. Credereste, Paolo? Vi è stato un medico malinconico che pretende essere ammalato il mio cuore.
– Il vostro cuore, Chérie? – e un po’ di sorpresa gli si dipinse sul volto.
– Supponete che io non abbia cuore Herz? Quando vi voglio tanto bene – e la disinvoltura era velata da una espressione sincera.
– Anche io ve ne voglio moltissimo; ma ciò non prova nulla.
– Nulla.
– Come può essere ammalato, il vostro cuore? Siete così florida e leggiadra!
– Vi piaccio, eh? – diss’ella, con un sincero moto di soddisfazione, che quasi, escludeva la civetteria.
– Assai.
– Meno male – mormorò la donna, con un discreto sorriso.
– Cioè?
– Era tempo che vi piacessi un poco, abbastanza, moltissimo – ella proferì, con la bella voce toccante.
– Non è mai tardi – egli soggiunse, con galanteria.
– Allora, è inteso che mi fate la corte? – disse Chérie, ridendo e battendo le mani.
– È inteso.
– Continuate, allora.
Egli la guardò trasognato, e tacque. Chérie si era subitamente fatta pensosa.
– Siete stata sola, a Saint-Moritz? – e fece uno sforzo per parlare.
– Solissima.
– E Carlo?
– Carlo è partito – ella disse, a bassa voce, voltando il capo in là.
– E da quando?
– Da luglio.
A quella data, egli fece un fugace atto di sorpresa.
– Ritornerà presto?
– No: non presto – e le candide dita scherzavano con una gran croce di turchesi che le pendeva sul petto.
– Ma ritorna?
– Forse, no.
– Dove è andato?
– In Australia.
– E perchè?
– Era rovinato, poveretto – e la sua voce aveva una schietta intonazione di pietà.
– Poveretto!
– È incredibile quello che io spendo, senza accorgermene – confessò Chérie candidamente.
– Vi voleva ancor bene, quando è partito?
– Un pochino, credo.
– E voi?
– Anche io, un pochino.
– E… dunque?
– A che serviva, restare? Egli avrebbe sofferto molto più: e mi secca, far soffrire.
– Siete buona, voi.
– Non sempre, non sempre. Ma tutti siamo capaci di far male.
– Tutti, tutti – egli ripetette, pian piano.
Ella lo guardava, ora coi suoi begli occhi di un così largo e fluido azzurro.
– Vi ha scritto, dall’Australia?
– Due volte, delle lunghe lettere.
– Gli avete risposto?
– Non troppo – ella disse, lealmente.
– Perchè non troppo?
– A che lusingarlo?
– Il cuore è già occupato, di nuovo?
– No – dichiarò Chérie, semplicemente.
– E che fate?
– Mi riposo.
– Perchè non amate un poco me?
– Io vi amo – ella disse, con chiarezza – ma non serve.
– È una cosa molto graziosa essere amato – mormorò lui, prendendo una delle mani di Chérie e tenendola fra le sue, senza stringerla, giuocando con le bianche dita troppo gemmate.
– Vi piace, Paolo?
– Non mi è mai piaciuto altro nella vita.
– L’amore?
– Essere amato, quando amavo.
– E vi è sempre accaduto, è vero?
– L’ho supposto – egli disse, con un sorriso fra ironico e mesto. Ma chi ne sa nulla!
– E ora?
– Ora… ora vuota, Chérie – soggiunse lui, con un sogghigno, per indicare che quella freddura non era il segnale dell’allegria.
– Non vi amano?
– No.
– E perchè?
– Non ne sono degno, pare.
– Poveretto, poveretto – disse la biondissima, con la sua cara voce armoniosa.
– Brava, compatitemi pure così. Ditemi delle altre parole di pietà, con la medesima voce.
– Vi fan bene?
– La vostra voce è balsamica.
– Se la ferita è troppo profonda, essa non guarisce, povero Paolo – diss’ella, additando il cuore e sfiorandolo lievemente con la mano.
– Provate, provate.
– E se sbaglio la cura?
– Ciò non guasterà l’alta vostra reputazione sanitaria, Chérie.
– Mi seccherebbe, non guarirvi – mormorò, un po’ pensosa.
– Perchè? Per amor proprio?
– Non so. Credete di essere il primo, venuto da me, in un giorno di tristezza, a piangere il suo dolore e a chiedere dei sorrisi?
– Non ignoro la vostra missione di consolatrice universale. Ma io non piango, vedete. Sono sulla via della guarigione.
– Da quando?
– Da tre quarti d’ora.
– Benissimo, benissimo, fatemi la corte – e rise un poco.
– Mi accettate?
– Si accetta sempre un corteggiatore.
– Poco buona, Chérie, in questo momento!
– Io? – ella domandò, distratta, mentre egli le aveva preso le due mani e le baciava, ora l’una, ora l’altra, con piccoli baci che parevano dei soffi.
– Le vostre mani sono più buone delle vostre parole – e si chinò per darle un bacio sulle labbra.
Ma ella, con moto vivace, sebbene senza ira, lo schivò.
– Cattiva! – egli disse con molta dolcezza, ma con una vera emozione nella voce.
– Pessima – Chérie aggiunse, ridendo.
– Me ne vado – e si alzò, Paolo, senza guardarla.
Ella lo seguì, con gli occhi, attentamente; ma quando ebbe fatto pochi passi verso la porta, lo richiamò:
– Paolo, Paolo!
Qual voce, in quelle due sillabe! Che melodia tenue e soave! Egli ritornò e venne ad inginocchiarsi presso il gran divano bianco dove ella giaceva.
– Scellerata creatura, mi richiami, adesso? – e tentò novellamente di baciarla.
La resistenza fu più debole. Un leggiero rossore si distendeva sulle guancie e sulla fronte della bellissima creatura.
– Che vuoi, dunque? – ella domandò, a bassa voce, levando la testina, per guardarlo negli occhi.
– Che tu mi voglia bene, un poco.
– Io te ne voglio.
– Come agli altri tuoi amici?
-… già.
– Diversamente, voglio.
– Tu vuoi essere amato, pour tout de bon?
– Sì, cara.
– Si dice Chérie e non cara.
– Chérie, Chérie, Chérie!
– Il mio cuore è malato, non posso amarti.
– Sono bugie dei medici.
– Ti assicuro… pare che io lo abbia consumato.
– Consumalo un pochino per me, Chérie.
– Paolo, Paolo, io sono stata malata a Saint-Moritz.
– Chérie, tu sempre così allegra, fai la Margherita Gauthier, adesso?
– È una sciocchezza, io sto benone – proclamò ella, con un grande scoppio di risa. I bianchissimi denti scintillavano, fra le labbra umide.
– Ridi, ridi ancora un poco – egli le disse ansiosamente, tutto rinfrescato, tutto confortato da quella florida gioventù, da quella gaiezza serena, da quella bellezza deliziosa.
– Io morirò in una risata, sembra… – e rise ancora, così seducentemente, che egli restò incantato.
– Tu sei la giovinezza; tu non puoi morire. Chérie, Chérie, tu avrai sempre venti anni!
– Si ha venti anni, quando qualcuno ci ama.
– Ti ama il mondo intiero, io credo.
– Ma no.
– Fa malissimo, allora.
– Tu non mi ami, intanto.
– Io? No. Ti adoro.
– Voi mentite, signore – ella gridò, con un tono del Padrone delle ferriere.
– Io ve lo giuro, signora marchesa – disse lui, imitandola.
– Su che lo giurate voi, dunque?
– Su quanto ho di più caro al mondo, signora, l’onore.
– Non sugli avi vostri?
– Sì, su quei tedeschi che non ho mai conosciuti, su quegli Herz che non erano neppure dei filosofi.
– Ma che ti hanno lasciata una bella fortuna, Paolo.
– Essa è vostra, Chérie.
– No, no, non mi parlar di denaro, mi secchi – e impallidì, preoccupatissima.
– Se vai in collera, sono pronto a dichiararmi un pezzente. Voi siete amata da un gentiluomo povero, Chérie, poverissimo.
– Giura che mi ami!
– Io, Paolo Herz, sul mio onore e sulla mia coscienza, giuro di amare di ardente amore la signora Chérie…
– Da quando?
– Da un’ora e sette minuti, lo giuro, con l’aiuto dell’orologio.
– Scrivi ciò – ella disse, levandosi, portandolo presso un grande tavolino di legno scolpito, dove era un immenso calamaio dell’Impero. Gli dette un largo foglio di carta bianca, una penna d’oca e chinandosi su lui, ripetette:
– Scrivi.
Ma mentre si chinava, ella non seppe schivarsi ed egli la baciò fuggevolmente. Nè quelle labbra potettero frenare un sorriso.
– Scrivi, scrivi – disse la bella voce, un po’ velata,
Invero, egli ebbe un minuto di esitazione, prima di scrivere: un leggiero pallore gli si distese sul volto: e parve che innanzi ai suoi occhi fluttuasse una immagine. Ma nell’aureola bionda dei capelli arruffati di Chérie tante scintille correvano gaiamente, attraverso il fiore rosso della bocca schiusa come un anello, i bianchissimi denti guardavano, guardavano ridendo e infondendo giocondità. Paolo Herz ebbe come una sferzata, come un sussulto di vita: una fiamma lieve fece dileguare il pallore del suo viso; egli scrisse, rapidamente. In piedi, fissando sulla carta quei suoi grandi occhi, che nuotavano nell’azzurro, Chérie seguiva quella mano rapida che scriveva. Con un gesto immediato, ella versò sulle poche righe un’arena micacea, azzurra a scagliette d’oro, e ripiegato il foglio, lo ripose. Va bene? – egli domandò, voltandosi e sorridendo.
– Benissimo – ella rispose, con voce lenta, come pensando ad altro – È scritto, adesso.
– Quello che è scritto, è scritto – e si levò, portando negli occhi il desiderio di quella giovinezza, di quella bellezza.
Mutamente, con dolcezza, ella si sciolse da quel tentativo di abbraccio,
– Perchè no, perchè no? – egli domandò, con ansia, con tristezza.
– Così – ella disse, con una smorfietta graziosa.
– Se ho scritto!
– Tanto meglio.
– Siete voi una volgare civetta, Chérie?
– Non so… non mi pare. Sono civetta molto, questo è certo.
– Io vi domandavo un po’ di cuore, mia cara!
– Malato?
– Come me lo volete dare. Un pochino, mi basta.
– Tutto, sarebbe troppo, è vero? e lo guardò negli occhi, volendoli scrutare.
– Quello che tu vuoi, cara – esclamò lui, un po’ follemente.
– Tutto, per poco tempo, allora? – -e di nuovo gli rivolse uno sguardo scrutatore.
– Tutto, sempre, diletta! – esclamò Paolo Herz, che adorava quella donna poichè gli piaceva enormemente.
– Vieni questa sera – ella disse, presto, con una completa, tenera e appassionata dedizione, nella voce.
– A che ora?
– Alle undici.
Fu un soffio, quella voce, sulle due ultime parole; un soffio che era una carezza, un bacio, un abbandono. Egli s’inchinò profondamente, innanzi a lei: le prese la mano, che ella gli stendeva e la baciò appena, sfiorandola sulle dita ripiegate.

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Nel cadente pomeriggio di autunno e nella sera, Paolo Herz portò nei sensi e nel cuore una ebbrezza di vita traboccante, come da tanto tempo non aveva mai provata. Una improvvisa primavera era rifiorita nella sua anima e gli parvero persino odorosi e voluttuosi i pallidi crisantemi, e ricche e appassionate perfino le povere rose thea, fiori di novembre, che egli mandò, da tre o quattro fiorai, in casa di Chérie. Tutto un novello calore gli inondava il sangue e gli saliva, a sbuffi, al cervello, come se, debole e convalescente, egli avesse bevuto un bicchiere di vino generoso. Egli andò per le vie a piedi, guardando la gente e sorridendo ad essa, come se la conoscesse: si fermò a una quantità di vetrine, incantato delle cose belle che serravano, e volendo cercarne una bellissima per donarla a Chérie. Un bisogno pazzo lo assaliva di parlare, di ridere, di spendere molto denaro, di vivere largamente, con quella donna accanto, immersa nelle più raffinate e più ardenti eleganze: un rigoglio di giovinezza eccitava tutto il suo organismo e gli dava un bisogno assoluto di esser felice materialmente e moralmente, nelle braccia di quella donna così giovane e così bella, dalla voce così toccante, dalle parole così voluttuosamente tenere e non scevre di malinconia.
Innamoratissimo! In quelle non molte ore che lo dividevano dalle undici di sera, egli ebbe quasi sempre la allucinazione fresca e fiammante, insieme, della persona di Chérie. Ora pareva che lo guardassero quei grandi occhi azzurri, dalla cornea non bianca, tutta a riflessi azzurri, dalle ombre azzurre, sotto le palpebre: e gli sembravano un mare di dolcezza, senza nessuna velatura di malizia, di perfidia, di quelle malaugurate cose odiose, che tante volte appariscono, spesso involontariamente, negli altri occhi femminili. Ora pareva che, innanzi a sè, si muovesse l’alta persona un po’ troppo alta, ma così veramente flessuosa: e l’innamoratissimo pensava che, Chérie, quando era sdraiata sul gran divano, sembrava più piccola, pur conservando la grazia e la nobiltà della sua figura. Talvolta, in una allucinazione anche più palpabile, sotto i suoi occhi, a breve distanza, gli sembrava che apparissero e sparissero quelle mani bianche dalle dita troppo cariche di pietre preziose, dalle vene di una delicata tinta fra l’azzurro e il violaceo, dove vi fosse anche del grigio: e più ancora, più ancora, egli ebbe, due o tre volte, la sensazione di quel bacio, di quel solo bacio, che egli aveva dato sulla bella bocca e dalla quale lo aveva ricevuto, trovandovi il senso fuggevole, ma profondo di un aroma misterioso. Egli si sorprese, o piuttosto non si sorprese punto, anzi si dilettò a pronunziare spesso il nome della diletta, con lentezza e con passione, con una costante espressione di desiderio e d’invocazione:
– Chérie, Chérie, Chérie!
Egli andò in una trattoria di prim’ordine, verso le otto; e si ordinò un pranzo squisito. Aveva un grande appetito, egli che non mangiava da tanto tempo che per cibarsi: gli amici si accostarono a lui, scambiò saluti, parole, scherzi con tutti: offrì del kummel, delle sigarette. Rise molto.
Ma temendo di sospingere troppo l’ebrezza che lo teneva dal pomeriggio, non volle bere vino e liquori: viceversa, fumò molto, cercando addormentar l’impazienza dei suoi nervi, volendo dimenticare l’ora del convegno, per ricordarla, ad un tratto, quando fosse prossima, con immensa delizia. Innamoratissimo, anche quando uscì nel freddo e nell’ombra della via e rientrò nella sua casa deserta: egli ardeva di passione, come un giovanotto ventenne al suo primo convegno d’amore e si andò a guardare nello specchio, per vedere se era abbastanza bello per quella bellissima donna.
Due ore ancora, lo dividevano dal convegno di Chérie. Egli aveva già fatto per le vie dei giri rapidi e lieti, incantato della serata di autunno, seguendo con lo sguardo le donne che passavano, udendo con delizia dei piccoli brani di colloqui d’amore, da qualche coppia che passava. Era il momento in cui tutti si recavano ai teatri, ai caffè, ai ritrovi serali: e gli pareva di scorgere, a Paolo Herz, nel volto di tutti quanti, come un desiderio intenso e frettoloso, un pallor d’ansietà, la voglia di arrivar presto dove era il proprio amore, il proprio vizio, la propria consuetudine. Egli stesso, ogni tanto, fremeva d’impazienza: ma era una impazienza voluttuosa e tranquilla, insieme; qualche cosa di profondamente desideroso, ma di placido nella certezza della imminente soddisfazione. Pure, quell’andare per le vie, tutto solo e rapido nella sua estasi, a un certo punto gli spiacque. Temette che quell’ardore giovanile onde vibravano gaiamente le sue vene, svanisse al contatto troppo prolungato dell’aria notturna: egli voleva conservare, intatta, tutta la rinnovata fiamma messagli nel sangue, nei nervi, nel cuore da Chérie. Rientrò a casa sua; avrebbe aspettato, sdraiato, tentando di leggere – avrebbe potuto leggere? – tentando di sognare – oh, avrebbe certo sognato! – sino all’ora di recarsi direttamente dalla bella e ammaliante donna.
Subito, in casa, fece accendere dal suo servo tutti i lumi: non amava le penombre, quel suo rigoglio di vita: aveva necessità di chiarore largo, di visioni nitide e precise. Si gittò in una poltrona, prese un libro: ma i suoi occhi s’immobilizzarono sovra le righe nere, senza intenderle: e ancora la snella figura vestita di bianco gli riapparve nell’aureola bionda e scintillante dei suoi capelli arruffati di bimba, col collo un po’ gracile fra i merletti della vestaglia e il passo ritmico, ondeggiante senza rumore.
– Chérie, Chérie – egli mormorò in preda a uno struggimento di tenerezza.
E immediatamente un ricordo lo colpì. Questo innamoramento così improvviso e completo, questo vivido abbandono dello spirito, e questo ardore dei sensi, egli l’avea provato un’altra volta. Aveva venti anni allora, e una giovinezza appena sfiorata da certi amoretti fugaci, da certi capricci molto intensi, ma molto brevi. Una bellissima donna gli era apparsa, allora: ma quasi vicina ai quarant’anni, espertissima della vita e delle sue passioni, ella aveva guardato con indulgenza, niente altro, il trasporto amoroso di Paolo Herz. In verità egli aveva delirato per questa donna, più vecchia di lui di circa venti anni; egli si era rotolato sul letto, singhiozzando e mordendo i cuscini nel dolore dell’amore non corrisposto; egli aveva voluto morire, perchè Beatrice Somma non voleva amarlo. Infine un giorno la bella donna si decise: fu per pietà, fu per lassezza di combattere, fu perchè il suo cuore aveva subito un estremo assalto di tenerezza?
Chi sa! Ella disse di sì. Si rammentava bene, Paolo Herz, che ebbrezza era stata la sua, noi giorno del primo appuntamento, e come egli aveva avuto la febbre vorace dell’impazienza, spezzando il suo orologio, andando per le vie come folle. Poi… che era accaduto, poi? In un momento di maggiore impeto d’amore, donna Beatrice gli aveva detto, malinconicamente:
– Non giurare, non giurare: verrà giorno in cui non saprai se io sia morta o viva.
Lo sapeva egli, forse, se donna Beatrice Somma fosse morta o viva? La sua passione, soddisfatta, era durata assai poco: ella l’aveva veduta finire, con viso calmo in apparenza, ma forse straziata da questo ultimo errore che aveva commesso. Era partita donna Beatrice; sparita. Morta o viva? Aveva delirato per lei: per lei aveva desiderato la morte: ma non ne sapeva nulla.
Questo inaspettato ricordo gli fu increscioso. Malgrado la pienezza dell’entusiasmo amoroso che aveva per Chérie, vi era in un cantuccio del suo spirito un segreto terrore che questo entusiasmo si diminuisse o svanisse, per qualche ragione misteriosa, per qualche insidia. Aveva paura di un’insidia, che gli togliesse quel vivace germoglio di tenerezza, quel fiore di simpatia irresistibile, quell’ampiezza di vita morale e fisica che lo esaltava, da varie ore. Scacciò la immagine di donna Beatrice Somma, quasi con un atto meccanico, passandosi le dita sulla fronte si raccolse un momento e tutta la scena del pomeriggio, con Chérie, gli riapparve, da quel sorriso buono e amichevole dell’entrata, fino a quel bacio varie volte conteso e infine concesso; da quelle vaghe parole di conforto, che ella gli aveva detto con una voce così ammaliante, sino a quel sì, che consentiva, e che era stato un alito, più che una parola. Subito, riarse del trasporto più violento, con un’allucinazione amorosa replicata e sempre più nitida: e maledisse l’ora che non fuggiva abbastanza presto, consumando, invece, in lui, tutto questo entusiasmo.
– Chérie, Chérie, Chérie – andava dicendo, per la casa, mentre riprendeva i guanti e il bastone, mentre si rimetteva il soprabito.
Andò a piedi, piano. La città, adesso, era molto meno popolata: tutti erano nei teatri, e nei ritrovi, quelli che facevano ora tarda: e quelli che rientravano presto, erano rientrati. Nella via, a capo basso, egli pensava alla imminente notte di amore che andava a ritrovare, lassù, presso una creatura squisita nel piacere e nell’amore, così bella e così fine: così buona nel fondo del suo carattere e così inconscia del male che commetteva. Un batticuore gli cresceva nel petto: così nel giorno in cui era andato da donna Beatrice Somma e che rimproverato dolcemente da costei, che fosse più tardi del convenuto, egli aveva infranto il suo orologio, sotto il piede rabbioso! Lo stesso palpito: e dopo, non aveva egli desiderato, tenacemente, che nessun orologio esistesse più, perchè donna Beatrice non conoscesse mai l’ora, mai più, e non si accorgesse dei suoi continui ritardi? Che fastidiose memorie!
Il villino di Chérie era immerso nell’ombra: egli suonò il campanello del cancello: esso si schiuse, senza che nessuno comparisse ad aprirlo. Cautamente egli camminò sul terreno del viale: palpitava, d’ansietà. Nessuno, nell’immensa anticamera vuota: egli lasciò il cappello e il soprabito e penetrò nel salone, pieno di tenui penombre. Chérie era sdraiata sullo stesso largo divano, come al mattino: era tutta vestita di nero, di una seta molle e opaca, una vestaglia a forma di tunica, le cui ampie maniche si rovesciavano, lasciando le braccia nude sino alle spalle. Non un anello nelle perfette mani, incrociate dietro la testa. Ella lo salutò, egli era pallidissimo: pallidissimo.