I.

Era un sabato sera, la vigilia della festa di San Basilio, patrono del paese di Barunèi. In lontananza risonavano confusi rumori; qualche scoppio di razzo, un rullo di tamburo, grida di fanciulli; ma nella straducola in pendio, selciata di grossi ciottoli, ancora illuminata dal crepuscolo roseo, s’udiva solo la voce nasale di don Simone Decherchi.
«Intanto il fanciullo è scomparso», diceva il vecchio nobile, che stava seduto davanti alla porta della sua casa e discuteva con un altro vecchio, ziu Cosimu Damianu, suocero d’un suo figlio. «Chi l’ha veduto? Dov’è andato? Nessuno lo sa. La gente dubita che l’abbia ucciso il padre… E tutto questo perché non c’è più timor di Dio, più onestà… Ai miei tempi la gente non osava neppure figurarsi che un padre potesse uccidere il figlio.»
«Timor di Dio, certo, la gente non ne ha più», ribatté ziu Cosimu, la cui voce rassomigliava a quella di don Simone: «ma questo non vuol dire. La Storia Sacra, persino, ha esempi di calunnie terribili contro poveri innocenti. Il ragazzo scomparso, poi, il figlio di Santus il pastore, era un vero diavoletto. A tredici anni rubava come un vecchio ladro, e Santus non ne poteva più. Lo ha bastonato, e il ragazzo è scomparso, se n’è andato in giro per il mondo. Prima di partire disse al vecchio pastore compagno di suo padre: andrò come la piuma va per l’aria, e non mi rivedrete più».
Don Simone scuoteva la testa, incredulo, e guardava lontano, verso lo sfondo della strada. Una figurina nera si avanzava, rasentando i muri delle basse casette grigie e nere.
Un’altra figurina di fanciulla paesana si delineava sullo sfondo giallognolo d’una porticina illuminata, e pareva intenta alle chiacchiere dei due vecchi.
Attraverso la porta spalancata della casa di don Simone si vedeva un andito e in fondo all’andito un’altra porta con uno sfondo di bosco.
La casa Decherchi era antica, forse medioevale; la porta grande e nera con l’architrave a sesto acuto, il cornicione, i due balconcini di ferro che minacciavano di cadere, la rendevano ben diversa dalle altre casette meschine del villaggio. Pareva una casa lacerata, malata, ma che conservasse una certa aria di grandezza ed anche di prepotenza. Quei muri scrostati che lasciavano vedere le pietre corrose, quella porta nera tarlata, ricoverata sotto il suo arco come un nobile decaduto sotto il suo titolo, quel cornicione sul quale cresceva l’euforbia, quella coperta da letto, logora e lucida, di antico damasco verdognolo, che pendeva melanconicamente da un balconcino del piano superiore, avevano qualche cosa di triste e di fiero, ed anche di misterioso, e richiamavano l’ammirazione dei paesani abituati a considerare la famiglia Decherchi come la più antica e nobile del paese.
Don Simone rassomigliava alla sua casa: vestiva in borghese, ma conservava la berretta sarda, e i bottoni d’oro al collo della camicia; anche lui cadente e fiero, alto e curvo, sdentato e con gli occhi neri scintillanti. I capelli folti candidissimi, la barba corta e bianca a punta, davano al suo viso olivastro, dal naso grande e i pomelli sporgenti, un risalto caratteristico, fra di patriarca e di vecchio soldato di ventura.
E ziu Cosimu Damianu, che conviveva coi Decherchi, rassomigliava a don Simone. La stessa statura, gli stessi capelli bianchi, gli stessi lineamenti, la stessa voce; ma un non so che di rozzo, di primitivo, e il costume paesano, rivelavano in lui il vecchio plebeo, il lavoratore umile e paziente, sul quale la lunga convivenza con un uomo superiore come don Simone aveva operato una specie di suggestione fisica e morale.
«Dieci giorni passarono e il ragazzo non tornò», continuava a raccontare. «Allora il padre si mise in viaggio, andò fino ad Ozieri, andò fino alla Gallura. Incontrò un pastore e gli domandò: “Per caso, hai veduto un ragazzo con gli occhi celesti e un neo sulla fronte?”. “Perdio, sì, l’ho veduto: è servetto in uno stazzo della Gallura”, rispose il pastore. Allora Santus, rassicurato, se ne tornò in paese. Ed ecco che ora la gente stupida va dicendo delle cose orribili, e la giustizia dà retta ai pettegolezzi delle donnicciuole, e il povero padre è perseguitato da tutti. Ora dicono che è ripartito in cerca del figlio.»
Don Simone scuoteva la testa, e sorrideva un po’ beffardo: ziu Cosimu era stato sempre un uomo ingenuo! Ma senza offendersi per l’evidente ironia del vecchio nobile, il paesano domandò, animandosi:
«Ma, figlio di Sant’Antonio, perché ti ostini a pensar sempre male del prossimo?».
L’altro cessò di sorridere: si fece serio, quasi cupo.
«I tempi son cattivi. Non c’è timor di Dio, e tutto è possibile, ora. I giovani non credono in Dio, e noi vecchi… noi siamo come la pasta frolla, vedi così…» e con la mano accennava a tirare qualche cosa di molle, di frollo; «lasciamo correre trenta giorni per un mese, e… tutto va a rotoli.»
«Questo, forse, è vero!», esclamò ziu Cosimu: e cominciò a battere il suo bastone su un ciottolo e non parlò più. Don Simone lo guardò e sorrise di nuovo.
«Io sono come la giustizia: penso sempre la peggio e spesso indovino… Ne vedremo, se vivremo, Cosimu Damià!»
L’altro continuò a picchiare il bastone per terra: ed entrambi, uno triste, l’altro sorridente, pensarono alla stessa cosa, o meglio alla stessa persona.
Intanto una donna anziana, avvolta in un lungo scialle nero frangiato e ricamato, dopo aver salito il pendio della strada s’era fermata presso i due vecchi.
«Dov’è Rosa?», domandò, aprendo alquanto i lembi dello scialle.
«Dev’essere nel cortile, con Annesa», rispose ziu Cosimu.
«Dio, che caldo: in chiesa si soffocava», riprese la donna, che era alta, con gli occhi neri cerchiati, e il viso stretto da due bende di capelli che parevano di raso grigio.
Ziu Cosimu la guardò e scosse la testa. Così alta e cerea, col suo scialle nero, la sua figliuola diletta gli sembrava la Madonna addolorata.
«In chiesa si soffocava?», disse con lieve rimprovero. «È per questo che non tornavi più? Che frugavi ancora, laggiù?»
«Mi confessavo: domani ci sarà la comunione generale», rispose semplicemente la donna; poi s’avviò per entrare, ma prima si volse ancora e disse: «Paolo non è tornato? Non è tornato a quest’ora, non arriverà più, per stasera. Ora prepareremo la cena».
«Che abbiamo da mangiare, Rachele?», domandò sbadigliando don Simone.
«Abbiamo ancora le trote, babbai[1], e poi friggeremo delle uova. Meno male, non abbiamo ospiti.»
«Eh! possono arrivare ancora!», esclamò ziu Cosimu, non senza amarezza. «L’albergo è povero, ma è ancora comodo per quelli che non vogliono pagare!»
«Avevamo le trote e non ricordavo!», esclamò don Simone, rallegrandosi all’idea della buona cenetta. «E se arrivano ospiti ce n’è anche per loro! Sì, ricordo, per la festa arrivavano molti ospiti; c’è stato un anno che ne abbiamo avuti dieci o dodici. Ora la gente non va più alle feste, non vuol sentire più a parlare di santi.»
«Adesso la gente è povera, Simone mio; vive lo stesso anche senza feste.»
«Anche la lepre corre sempre, sebbene non vada in chiesa», disse il vecchio nobile, cominciando a irritarsi per le contraddizioni di ziu Cosimu.
E mentre i due nonni continuavano la loro discussione, donna Rachele attraversò l’andito ed entrò nella camera in fondo, attigua alla cucina.
L’ultimo barlume del crepuscolo penetrava ancora dalla finestra che guardava sull’orto. Mentre donna Rachele si levava e piegava lo scialle, una voce dispettosa disse:
«Rachele, ma potresti accenderlo, un lume! Mi lasciate solo, mi lasciate al buio come un morto…».
«Zio, è ancora giorno, e si sta più freschi senza lume», ella rispose con la sua voce dolce e le parole lente. «Adesso accendo subito. Annesa» disse poi, affacciandosi all’uscio di cucina «che stacci ancora la farina? Smetti, è tardi. E Rosa dov’è?»
«Eccola lì, in cortile», rispose una voce velata e quasi fiebile. «Ora finisco.»
Donna Rachele accese il lume, e lo depose sulla grande tavola di quercia che nereggiava in fondo alla stanza, tra l’uscio dell’andito e la finestra. E la vasta camera, alquanto bassa e affumicata, col soffitto di legno sostenuto da grosse travi, apparve ancora più triste alla luce giallognola del lume ad olio. Anche là dentro tutto era vecchio e cadente: ma il canapè antico, dalla stoffa lacerata, la tavola di quercia, l’armadio tarlato, il guindolo, la cassapanca scolpita, e insomma tutti i mobili conservavano nella loro miseria, nella loro vecchiaia, qualche cosa di nobile e distinto. Su un lettuccio, in fondo alla camera, stava seduto, appoggiato ai cuscini di cotonina a quadrati bianchi e rossi, un vecchio asmatico che respirava penosamente.
«Si sta freschi, sì, si sta freschi», egli riprese a borbottare con voce ansante e dispettosa; «potessi star fresco almeno! Annesa, figlia del demonio, se tu mi portassi almeno un po’ d’acqua!»
«Annesa, porta un po’ d’acqua a zio Zua», pregò donna Rachele, attraversando la cucina ancora più vasta e affumicata della camera.
La donna, che aveva avvicinato alla porta il canestro della farina, s’alzò, si scosse le vesti, prese la brocca dell’acqua e ne versò un bicchiere.
«Annesa, la porti o no quest’acqua?», ripeteva il vecchio asmatico, con voce quasi stridente.
Annesa entrò, s’avvicinò al lettuccio, il vecchio bevette, la donna lo guardò. Mai figure umane s’erano rassomigliate meno di quei due.
Ella era piccola e sottile; pareva una bambina. La luce del lume dava un tono di bronzo dorato al suo viso olivastro e rotondo, del quale la fossetta sul mento accresceva la grazia infantile. La bocca un po’ grande, dai denti bianchissimi, serrati, eguali, aveva una lieve espressione di beffa crudele, mentre gli occhi azzurri sotto le grandi palpebre livide, erano dolci e tristi. Qualche cosa di beffardo e di soave, un sorriso di vecchia cattiva e uno sguardo di bambina triste, erano in quel viso di serva taciturna e malaticcia, la cui testa si piegava all’indietro quasi abbandonandosi al peso d’una enorme treccia biondastra attorcigliata sulla nuca. Il collo lungo e meno bruno del viso usciva nudo dalla camicia scollata: il corsetto paesano si chiudeva su un piccolo seno: e tutto era grazioso, agile, giovanile, attraente, in quella donna della quale soltanto le mani lunghe e scarne svelavano l’età matura.
La figura del vecchio asmatico ricordava invece qualche antico eremita moribondo in una caverna.
Il suo viso, raggrinzito da una sofferenza intensa, dava l’idea d’una maschera di cartapecora. Tutto era giallognolo e come affumicato, in quella figura triste e cupa: e il petto peloso e ansante, che la camicia slacciata lasciava scoperto, e i capelli arruffati, la barba giallastra, le mani nodose, e tutte le membra, che si disegnavano scheletrite sotto il lenzuolo, avevano un brivido di angoscia.
Egli lo diceva sempre:
«Io vivo solo per tremare di dolore».
Ogni cosa gli dava fastidio, ed egli era di grande fastidio a tutti, pareva vivesse solo per far pesare la sua sofferenza sugli altri.
«Annesa», gemette mentre la donna si allontanava col bicchiere vuoto in mano, «chiudi la finestra. Non vedi quante zanzare? Così possano pungerti i diavoli, come mi pungono le zanzare.»
Ma Annesa non rispose, non chiuse la finestra; tornò in cucina, depose il bicchiere accanto alla brocca, poi uscì nel cortile, ed accese il fuoco in un angolo sotto la tettoia. D’estate, perché il calore ed il fumo non penetrassero nella camera ove giaceva il vecchio asmatico, ella cucinava fuori, in quell’angolo di tettoia trasformato in cucina.
Una pace triste regnava nel cortile lungo e stretto, in gran parte ingombro di una catasta di legna da ardere. La luna nuova, che cadeva sul cielo ancora biancastro, di là del muro sgretolato, illuminava l’angolo della tettoia. S’udivano voci lontane, scoppi di razzi e un suono di corno, rauco ed incerto, che tentava un motivo solenne:

Va, pensiero, sull’ali dorate…

Annesa mise il treppiede nero sul fuoco e mentre donna Rachele andava nella di-spensa per riempire d’olio la padella, una bambina di sei o sette anni, con una enorme testa coperta di radi capelli biondastri, s’affacciò alla porticina socchiusa dell’orto.
«Annesa, Annesa, vieni; di qui si vedono bene i razzi», gridò con una vocina di vecchia sdentata.
«Rientra tu, piuttosto, Rosa: è tardi, ti morsicherà le gambe qualche lucertola…»
«Non è vero», riprese la vocina, un po’ tremula. «Vieni, Annesa, vieni…»
«No ti ho detto. Rientra. Ci sono anche le rane, lo sai bene…»
La bambina entrò, s’avanzò paurosa fino alla tettoia. Un goffo vestitino rosso, guarnito di merletti gialli, rendeva più sgraziata la sua figurina deforme, e più brutto il suo visino scialbo di vecchietta senza denti, schiacciato dalla fronte idrocefala smisurata e sporgente.
«Siedi lì», disse Annesa, «i razzi si vedono anche stando qui.»
Qualche razzo, infatti, attraversava come un cordone d’oro il cielo pallido, e pareva volesse raggiunger la luna; poi d’un tratto scoppiava, dividendosi in mille scintille rosse azzurre e violette.
Rosa, seduta sul carro sardo, in mezzo al cortile, fremeva di piacere e chinava la testa, con la paura e la speranza che quella pioggia meravigliosa cadesse su lei.
«Almeno una, di quelle scintille», gridò, chinando la fronte enorme e stendendo la manina. «Ne vorrei una! Quella d’oro: deve essere una stella!»
«Mattina!», disse la nonna, che ritornava con la padella colma d’olio.
Annesa mise la padella sul treppiede e la dama rientrò per apparecchiare la tavola.
«Cadono molto lontano?», riprese la bambina. «Sì? Nel bosco? Dove sono le lucertole?»
«Oh, più lontano, certo», rispose la donna, che aveva cominciato a friggere le trote.
«Dove, più lontano? Nello stradale? Ti pare che qualcuna cada vicino al babbo mio? E se gli cade addosso?»
«Chi sa!», disse Annesa pensierosa. «Credi tu, Rosa, che egli possa tornare stasera?»
«Io, sì, lo credo!», esclamò vivacemente la bambina. «E tu, Anna?»
«Io non so», disse la donna, già pentita d’aver parlato. «Egli torna quando vuole.»
«Egli è il padrone, vero? Egli è tanto forte, egli può comandare a tutti, vero?», interrogò Rosa, ma con accento che non ammetteva una risposta negativa. «Egli può fare quello che vuole; può fare anche da cattivo, vero? Nessuno lo castiga, vero?»
«Vero, vero», ammise la donna con voce grave.
Poi entrambe, la bambina sul carro, Annesa davanti al fuoco, tacquero pensierose.
«Annesa», gridò d’un tratto Rosa, «eccolo, viene! Sento il passo del cavallo.»
Ma l’altra scosse la testa. No, non era il passo del cavallo di Paulu Decherchi. Ella lo conosceva bene, quel passo un po’ cadenzato di cavallo che ritornava stanco dopo un lungo viaggio. Eppure il passo di cavallo avvertito da Rosa si fermò davanti al portone.
«Credo sia un ospite», disse Annesa con dispetto. «Speriamo sia il primo e l’ultimo.»
Ma donna Rachele uscì di nuovo nel cortile, porse ad Annesa alcune uova che teneva nel grembiale, e disse con gioia:
«Lo dicevo, che non era tempo da disperare. Ecco un ospite».
«Bella notizia!», rimbeccò l’altra.
«Apri il portone, Annesa. Non è bella una festa se non si hanno ospiti in casa.»
La donna mise le uova accanto al fuoco e andò ad aprire.
Un paesano basso e tarchiato con una folta barba bruna, era smontato di cavallo e salutava i nonni ancora seduti davanti alla porta.
«Stanno bene, che Sant’Anna li conservi!»
«Benissimo», rispose don Simone. «Non vedi che sembriamo due giovincelli di primo pelo?»
«E Paulu, Paulu, dov’è?»
«Paulu tornerà forse domani mattina: è andato a Nuoro per affari.»
«Donna Rachele, come sta? Annesa, sei tu?», disse l’ospite, entrando nel cortile e tirandosi dietro il cavallo. «Come, non hai ancora preso marito? Dove leghiamo il cavallo? Qui, sotto la tettoia?»
«Sì, fa da te», rispose donna Rachele. «Fa il tuo comodo come se fossi in casa tua. Lega il cavallo qui sotto la tettoia, perché la stalla è ingombra di sacchi di paglia.»
Annesa provò quasi gusto al sentir donna Rachele mentire.
«Sì», pensò con amarezza «la festa non è bella senza ospiti, ma intanto anche i santi devono dire qualche bugia perché il tetto della stalla è rovinato e non si trovano i soldi per accomodarlo…»
«Le tue sorelle stanno bene?», domandò poi donna Rachele, aiutando l’ospite a legare il cavallo. «E la tua mamma?»
«Tutti bene, tutte fresche come rose», esclamò l’uomo, traendo un cestino dalla bisaccia. «Ecco, questo, appunto, lo manda mia madre.»
«Oh, non occorreva disturbarvi», disse la dama prendendo il cestino.
E rientrò nella cucina, seguita dall’ospite, mentre Annesa, triste e beffarda, si piegava davanti al fuoco e batteva leggermente un uovo sulla pietra che serviva da focolare.
Rosa scese pesantemente dal carro e rientrò anche lei, curiosa di sapere cosa c’era dentro il cestino.
Nella camera del vecchio asmatico, che serviva anche da sala da pranzo, la tavola era apparecchiata per quattro: donna Rachele mise un’altra posata, e l’ospite si avvicinò a zio Zua.
«Come va, come va?», gli domandò, guardandolo curiosamente.
Il vecchio ansava e con una mano si palpava il petto, sul quale teneva, appesa ad un cordoncino unto, una medaglia al valor militare.
«Male, male», rispose, guardando fisso l’ospite, che non aveva subito riconosciuto. «Ah, sei tu, Ballore Spanu. Ti riconosco benissimo, adesso. E le tue sorelle hanno preso marito?»
«Finora no», rispose l’uomo, un po’ seccato per questa domanda.
In quel momento i due nonni rientrarono, trascinandosi dietro le sedie, e si misero a tavola, assieme con l’ospite, donna Rachele e la bimba.
«Questa è la figlia di Paulu?», domandò l’uomo, guardando Rosa. «Ha questa sola bambina? Non pensa a riprender moglie?»
«Oh, no», rispose donna Rachele, con un sorriso triste. «È stato troppo sfortunato la prima volta; per ora non pensa affatto al matrimonio. Sì, questa è la sua unica bambina. Ma serviti, Ballore, tu non mangi niente? Prendi questa trota, vedi, questa.»
«E il vostro parroco, quel vecchio prete che una volta subì una grassazione, è vivo ancora?», domandò ziu Cosimu.
«Altro se vive! È vegeto anche…»
Mentre così chiacchieravano, si sentì picchiare al portone.
«Deve essere un altro ospite», disse donna Rachele, «ho sentito il passo di un cavallo.»
«È forse babbai», gridò Rosa, e scese dalla sedia e corse a vedere.
Un altro ospite parlamentava con Annesa davanti al portone. Era un uomo scarno e nero, miseramente vestito. La donna non lo conosceva e lo guardava con evidente ostilità.
«È questa la casa di don Simone Decherchi?», diceva l’ospite. «Io sono di Aritzu, mi chiamo Melchiorre Obinu e sono figlioccio di Pasquale Sole, grande amico di don Simone. Il mio padrino mi ha dato una lettera per il suo amico.»
«L’osteria è aperta!», borbottò Annesa, ma andò ad avvertire don Simone che il figlioccio del suo amico domandava ospitalità, e il vecchio nobile per tutta risposta ordinò di mettere un’altra posata a tavola.
Ma il nuovo ospite volle restare in cucina, e appena Annesa gli mise davanti un canestro con pane, formaggio, lardo, cominciò a mangiare con avidità. Doveva essere molto povero: era vestito quasi miseramente, e i suoi grandi occhi tristi parevano gli occhi stanchi di un malato. Annesa lo guardava e sentiva cadere il suo dispetto. Dopo tutto, poiché i Decherchi si ostinavano ad aprire la loro casa a tutti, meglio dar da mangiare ai poveri che ai ricchi scrocconi come quel Ballore Spanu.
«Ecco, mangia questa trota», disse offrendogli una parte della sua cena. «Adesso ti darò anche da bere.»
«Dio te lo paghi, sorella mia», egli rispose, sempre mangiando.
«Sei venuto per la festa?»
«Sì, sono venuto per vendere sproni e briglie.»
Annesa gli versò da bere.
«Dio te lo paghi, sorella mia.»
Egli bevette, la guardò, e parve vederla solo allora.
I capelli di lei, sopratutto, attirarono i suoi sguardi.
«Sei la serva, tu?», domandò.
«Sì.»
«Ma sei del paese, tu? Mi pare di no.»
«Infatti non lo sono.»
«Sei forestiera?»
«Sì, sono forestiera.»
«Di dove sei?»
«D’un paese del mondo…»
Ella andò nella camera attigua, poi uscì nel cortile, rientrò.
L’ospite povero profittò dell’assenza di lei per versarsi un altro bicchiere di vino, e diventò allegro, quasi insolente.
«Sei fidanzata?», chiese alla donna, quando essa tornò. «Se no, guarda se ti convengo. Son venuto per vendere sproni e briglie e per cercarmi una sposa.»
Ma questo scherzo non garbò ad Annesa, che ridiventò triste e beffarda:
«Puoi mettere una delle tue briglie al collo di qualche donna, e così trascinartela dietro fino al tuo paese».
«No, davvero», insisté l’altro, «fammi sapere se hai o no il fidanzato. Dal modo aspro con cui mi parli, parrebbe di no: o è molto brutto.»
«E invece t’inganni, fratello caro: il mio sposo è molto più bello di te.»
«Fammelo conoscere.»
«Perché no? Aspetta.»
Ella rientrò nella sala da pranzo, e dopo le trote servì le uova fritte con cipolle, e in ultimo una focaccia di pasta e formaggio fresco.
«Non aspettavamo ospiti», si scusava donna Rachele, rivolgendosi con evidente umiliazione a Ballore Spanu. «Perdona, dunque, Ballore, se ti trattiamo male.»
«Voi mi trattate come un principe», rispondeva l’ospite, e mangiava e beveva allegramente.
Anche i due nonni scherzavano, Don Simone era, o sembrava, lieto e sereno come Ballore l’aveva sempre conosciuto: nel riso di ziu Cosimu strideva invece qualche nota triste; e anche il vecchio asmatico, che masticava lentamente la polpa rosea d’una trota, prendeva parte alla conversazione, e sogghignava quando l’ospite parlava di Paulu.
«Non c’è che dire, avevamo due testoline sventate, io e suo figlio, donna Raché!», diceva Ballore Spanu. «Ricordo, una volta Paulu venne a trovarmi al mio paese, ed entrambi partimmo assieme, e per un mese le nostre famiglie non seppero nulla di noi. Andammo di festa in festa, di villaggio in villaggio, sempre a cavallo. Che teste, Dio mio! Come si è pazzi, in gioventù!»
«Buone lane», mormorò l’asmatico.
«Sì, ricordo», disse donna Rachele. «E che tormento! Credevamo vi avessero arrestati.»
«Perché arrestati?», gridò l’ospite quasi offeso. «Questo poi, no! Eravamo due teste matte, sì, ma due galantuomini, questo possiamo dirlo ben forte. Però, bisogna confessarlo, abbiamo sprecato molti denari…»
«Perciò…», cominciò il vecchio asmatico con la sua voce dispettosa; ma Annesa gli porse da bere e lo guardò fisso, ed egli non osò proseguire. D’altronde Ballore Spanu sapeva bene che le pazzie giovanili di Paulu avevano finito di rovinare la famiglia: non occorreva ripeterlo.
Un’ombra passò sul viso cereo di donna Rachele, e ziu Cosimu disse:
«Paulu è buono, buono come il pane, ma è stato sempre un giovane troppo allegro e spregiudicato. Egli non ha mai avuto timore di Dio; si è sempre divertito, ha goduto la vita in tutti i modi».
«Si vede che non era destinato a farsi frate!», esclamò l’ospite. «Eppoi bisogna godere finché si è giovani…»
«Scusa, io godo anche ora che son vecchio», osservò don Simone, con accento beffardo. Egli non amava si parlasse male del nipote, con gli estranei, e cercò di cambiare discorso.
«Zua Deché», esclamò, rivolgendosi all’infermo, «non è vero che i giovani devono essere più saggi dei vecchi?»
Il vecchio ansò forte, cercò di sollevarsi, gridò irritato:
«La gioventù? Io sono stato giovane, ma sono stato sempre serio. In Crimea ho conosciuto un capitano francese che mi diceva sempre: voi avete cento anni, sardignolo!… E… e… La Marmora dopo la battaglia… e… e…».
Un colpo di tosse non lo lasciò proseguire: donna Rachele gli andò vicino, gli sollevò il capo, gli accennò di calmarsi.
«Figlio di Sant’Antonio», disse ziu Cosimu, sollevando le mani, «perché arrabbiarti così? Vedi che ti fa male?»
Ma l’asmatico si ostinava a parlare, e non poteva, e solo qualche parola si distingueva fra i suoi gemiti sibilanti.
«Io… Vittorio Emanuele… la medaglia… Balaclava… Ho lavorato sempre… io… mentre gli altri…»
Annesa andava e veniva. Era divenuta pallidissima, e guardava il vecchio con uno sguardo di odio, ma stringeva le labbra per non gridare contro di lui.
Invano l’ospite povero, quando ella rientrava in cucina, cercava di scherzare e di farla chiacchierare: ella taceva, d’un tratto uscì nel cortile e stette parecchio tempo fuori.
Egli allora si versò un altro bicchiere di vino e si guardò attorno cercando una stuoja su cui potersi coricare; poi gli parve di sentir Annesa parlare con un uomo, nel cortile, e tese l’orecchio.
«Egli sparla di don Paulu», diceva la donna, «e gli altri lo lasciano dire… Ah, se potessi, lo butterei giù dal letto…»
«Ma lascialo dire», rispose una voce d’uomo. «Chi non vede che egli è rimbambito?»
Poi le voci tacquero. L’ospite credette di sentire lo scoccar di un bacio, e fremette pensando alla bella bocca di Annesa.
Un giovane servo, coi capelli neri divisi sulla fronte, il viso scuro imberbe e gli occhi dolci entrò in cucina.
«Salute, l’ospite», disse; e sedette davanti al canestro delle vivande.
«Salute abbi», rispose l’altro, guardandolo maliziosamente, «sei il servo, tu?»
«Sì, sono il servo, Annesa, mi darai da mangiare? Sono tornato tardi, perché sono stato a vedere i fuochi artificiali. Che cosa bella! Pareva che tutte le stelle del cielo cadessero giù sulla terra. Fossero state almeno buone da mangiare!»
E rideva come un fanciullo, socchiudendo i begli occhi castanei, e mostrando due fila di denti minuti e bianchissimi.
Ma Annesa era di cattivo umore: gli porse da mangiare e tornò fuori.
«Che ragazza seria», disse l’ospite seguendola con gli occhi. «Bella, ma seria.»
«Ohè, è inutile che tu la guardi», esclamò il servo, che era molto brillo. «Non fa per te.»
«Lo so: è la tua fidanzata.»
«Come lo sai?»
«Me lo ha detto lei! E ho sentito che vi baciavate!…»
«Ah, te lo ha detto lei?», riprese il servo con gioia. «È vero; siamo fidanzati. Io e lei siamo qui, più che servi, figli di famiglia. Annesa anzi è figlia d’anima[2] della famiglia Decherchi.»
E siccome l’ospite povero s’interessava vivamente alle sue chiacchiere, proseguì, con boria:
«Devi sapere che don Simone è stato quasi sempre sindaco di questo paese. Non si contano le opere buone che ha fatto. Tutti i poveri potevano dirsi suoi figli, tanto egli li soccorreva e li amava. Ora avvenne che molti anni fa, io allora non masticavo ancora il pane, capitò alla festa un vecchio mendicante accompagnato da una bambina di tre anni. Un bel momento quest’uomo fu trovato morto, dietro la chiesa. La bambina piangeva, ma non sapeva dire chi era. Allora don Simone la prese con sé, la portò qui, la fece allevare in famiglia. Molti dicono che Annesa è continentale: altri credono che il vecchio mendicante l’abbia rubata».
L’ospite ascoltava con curiosità, ma le ultime parole del servo lo fecero sorridere.
«Chi sa», disse beffardo, «ella forse è figlia del re!»
«Sta zitto», pregò allora il servo. «I miei tre vecchi padroni son chiamati i Tre Re.»
«Perché?»
«Così, perché sono tre e sono vecchi.»
«Ce n’è uno malato. È fratello di don Simone?»
«Oh, no», protestò il servo, sporgendo le labbra con disprezzo. «È un parente. È un uomo che è stato alla guerra ed ha tanti denari. Ma avaro! Vedi, muore così, coi pugni stretti. Sta qui da due anni, ed ha fatto testamento in favore di Rosa, la figlia di don Paulu.»
«Don Paulu è figlio di don Simone?»
«No, è suo nipote: è figlio di don Priamu, che è morto.»
«I tuoi padroni son molto ricchi, vero?»
«Sì», mentì il servo, «sono ancora ricchi; prima lo erano molto di più.»
Ma in quel momento rientrò Annesa, e il giovane chiacchierone cambiò discorso.
«Anna, costui non vuol credere che l’anno venturo noi due ci sposeremo. Non è vero che siamo cresciuti assieme in questa casa, come parenti?»
«E allora beviamo alla vostra buona fortuna», disse l’ospite; e bevette un po’ di vino rimasto nel suo bicchiere.
«Tu ci porterai un’altra bottiglia, Annesa? Sì, sì, va!», supplicò il servo, tendendo alla donna la bottiglia vuota; ma Annesa gli voltò le spalle e volle rientrare nella stanza dove i vecchi padroni e l’ospite ricco chiacchieravano e ridevano.
Ma mentre ella scendeva lo scalino dell’uscio, un passo cadenzato di cavallo risonò nella straducola deserta: ella si fermò, ascoltando, poi disse, rivolta al servo:
«Gantine, è don Paulu!», e attraversò di corsa la cucina dimenticandosi persino di deporre un piatto che teneva in mano.
Poco dopo entrò in cucina un uomo ancora giovane, alto e svelto, tutto vestito di nero, da borghese, col cappello duro.
Gantine balzò in piedi.
«No», gli disse Paulu, dopo aver salutato l’ospite con un cenno del capo, «non levar la sella al cavallo, che è tutto sudato. Lascialo un momento respirare; lo porti poi da ziu Castigu e domani mattina all’alba conducilo al pascolo.»
E mise un piede su uno sgabello per levarsi lo sprone.
L’ospite povero guardava con curiosità: e gli pareva che servo e padrone si rassomigliassero: lo stesso viso bruno, gli occhi lunghi e dolci, la stessa bocca dai labbri sporgenti; senonché Paulu sopravanzava di tutta la testa il servo, e aveva un’aria triste e preoccupata, mentre Gantine sembrava allegro e spensierato. E la bocca del giovine servo era rossa e sorridente, mentre le labbra di Paulu erano pallide, quasi grigie.
«Sì», pensava il venditore di briglie, «adesso ricordo: il mio padrino Pascale Sole mi diceva un giorno che i Decherchi avevano preso in casa, come servo, il figlio illegittimo d’uno di essi, Don Paulu e Gantine devono essere fratelli…»
«Ecco», disse il vedovo, porgendo lo sprone a Gantine, «attaccalo al muro.»
Ed entrò nella camera attigua, dove l’ospite ricco lo accolse con una esclamazione di gioia. Paulu gli strinse la mano, e parve rallegrarsi nel rivedere il suo antico compagno di avventure; ma donna Rachele e i nonni guardarono il vedovo e si accorsero subito che egli non recava buone notizie.


  1. Babbo.
  2. Figlia adottiva.