XI.

E anni e anni passarono.
I vecchi morirono: i giovani invecchiarono.
Conosciuta la storia di Annesa, la famiglia presso la quale ella doveva andare a servire, non volle più saperne di lei. Ella dovette aspettare un bel po’ prima di trovare servizio, e finalmente fu accolta in una famiglia di piccoli possidenti borghesi: il padrone tentò di sedurla, la padrona ogni volta che tornava dalla predica o dal passeggio e aveva veduto qualche signora più ben vestita di lei, se la prendeva con la serva: un giorno la bastonò.
Non era la vita di penitenza sognata dalla donna colpevole, ma neppure una vita molto allegra; ad ogni modo, il tempo passò; Gantine venne a cercare la sua ex fidanzata, Paulu le scrisse: poi Gantine prese moglie, e Paulu parve rassegnarsi.
Annesa cambiò di padrone: capitò finalmente presso un vecchio sacerdote che tutti chiamavano canonico Farfalla perché camminava così lesto che pareva volasse. Canonico Farfalla godeva fama di astrologo perché ogni notte, dalle piccole finestre della sua casetta posta al confine del paese, guardava a lungo le stelle: quando accadeva qualche fenomeno celeste tutti ricorrevano a lui per spiegazioni.
Era un uomo colto, ma anche molto distratto. In breve Annesa diventò padrona della casetta e poté fare tutto quello che volle. Allora si acquistò fama di donna pietosa: fu veduta dietro tutti i funerali, fu chiamata ad assistere i moribondi, a lavare e vestire i cadaveri; tutti i malati poveri, le partorienti povere, i paralitici poveri, ebbero da lei qualche assistenza.
E così gli anni passarono. Una volta donna Rachele venne a Nuoro per la festa del Redentore; andò a trovare Annesa, l’abbracciò, e piansero assieme; poi la vecchia dama, pallida e triste nel suo scialle nero come la Madonna in cerca del Figliuolo morto, prese la mano della serva e cominciò a lamentarsi.
«I vecchi, tu lo sai, i vecchi sono morti. Rosa è sempre malata; Paulu è invecchiato; soffre di insonnia e di altri malanni. Anch’io, di giorno in giorno, mi curvo sempre più, cercando il posto dov’è la mia fossa. Abbiamo bisogno di una donna fedele, in casa, di una donna affezionata e disinteressata. Abbiamo avuto una serva che ci rubava tutto: Paulu non è buono a niente: Rosa è invalida. Che accadrà di loro, se io morrò?»
Annesa credette che donna Rachele volesse proporle di tornare da lei, e sebbene decisa di rifiutare si sentì battere il cuore. Ma la vecchia non proseguì.
Qualche tempo dopo Annesa seppe che Paulu era ammalato di tifo: poi un giorno, verso la fine di autunno se lo vide comparire davanti come un fantasma. Era diventato davvero il fantasma di se stesso: vecchio, magro, coi capelli bianchi, gli occhi infossati e i denti sporgenti. Durante tutti quegli anni aveva sempre continuato a vivere di ozio, di imbrogli, di vizi: il tifo, poi, gli aveva un po’ ottenebrato la mente, lasciandogli una strana manìa: egli credeva di essere stato complice di Annesa, nell’uccisione del vecchio, e ne provava rimorso. Ella si spaventò, nel vederlo. Egli le raccontò i suoi mali.
«Tutte le notti sogno il vecchio: qualche volta egli mi sembra il nonno Simone, il quale mi impone di venirti a trovare e di costringerti a sposarmi. Che facciamo, Annesa? Non hai rimorsi, tu? Non sogni il vecchio?»
Ella non era mai stata troppo tormentata dai rimorsi: s’era pentita, credeva d’essersi castigata abbastanza con l’abbandonare l’amante e la famiglia dei suoi benefattori, ma dopo i primi tempi non aveva più sognato o veduto il vecchio.
«Che facciamo?», ripeté Paulu. «In casa mia c’è bisogno di una donna fedele e paziente: mia madre è vecchia, anche lei malandata: Rosa è tanto infelice, io sono un cadavere ambulante. Anna, ritorna, se vuoi fare penitenza.»
«Donna Rachele ha paura di me», rispose Annesa; «se ella vuole posso ritornare, ma finché è viva lei non parlarmi di matrimonio.»
«Allora è inutile che tu ritorni», egli rispose tormentato dalla sua idea fissa.
E se ne andò, senza neppure stringerle la mano. L’uno per l’altro, oramai, erano gelidi fantasmi. Un altro anno passò. Egli non la molestò oltre, ma coi suoi rimorsi, le sue paure, la sua idea fissa dovette impressionare donna Rachele, perché un giorno Annesa ricevette una lettera con la quale la vecchia dama la pregava di «ritornare».
Ella abbandonò con dolore la tranquilla casetta dalle cui finestre il canonico Farfalla parlava alle stelle e ritornò. La vecchia casa Decherchi pareva una rovina: la porta tarlata, i balconcini arrugginiti, sfondati, il cornicione coperto di erbe selvatiche, tutto, all’esterno, come nell’interno della casa, tutto era decrepito, pronto a cadere e a seppellire le tre meschine creature che l’abitavano.
Annesa rientrò piangendo in quel luogo di pena: vide donna Rachele coricata sul lettuccio, nella camera da pranzo, e trasalì: accanto al lettuccio stava seduta una vecchietta giallognola, un po’ gobba, con due grandi occhi metallici che avevano uno sguardo strano, diffidente e felino.
«Rosa? Rosa mia!»
Ma Rosa non la riconobbe; e quando seppe che quella piccola donna che sembrava più giovane di lei era Annesa, l’antica figlia di anima, la sua futura matrigna, la guardò con maggiore diffidenza.
«Rosa», pregò donna Rachele, «va in cucina e fa scaldare un po’ di caffè.»
«Posso andare io. Conosco la cucina, mi pare!», esclamò Annesa.
Ma Rosa trasse di saccoccia, con ostentazione, un mazzo di chiavi, aprì il cassetto della tavola, prese lo zucchero e disse:
«Tu non sai, non sai dove sono le provviste. Ora vado io, in cucina; sta lì con la nonna».
E rimise le chiavi in saccoccia. Rimaste sole, donna Rachele disse alla sua antica figlia d’anima:
«Non contrariare la povera Rosa. Ella ci tiene, ad essere la padrona del poco che ancora abbiamo. Non contrariarla, Annesa, figlia mia. Quando ha qualche dispiacere la povera Rosa cade in convulsioni. Non contrariarla».
In quel momento rientrò Paulu: egli era stato a messa: qualcuno l’aveva avvertito dell’arrivo di Annesa.
«Che nuove a Nuoro?», le domandò semplicemente stringendole la mano. «Fa molto caldo?»
«Non molto», ella rispose.
Lo guardò. In un anno egli aveva finito d’invecchiare: aveva i capelli bianchi, i baffi grigi: pareva zio Cosimu Damianu.
«Paulu», disse sottovoce donna Rachele, «avvertivo Annesa di non contrariare la povera Rosa. Pregala, anche tu. Dille che…».
«Ma sì, ma sì!», egli disse con impazienza. «Annesa lo sa già che è tornata qui per far penitenza. Te l’ho già detto, Anna, mi pare. Te l’ho detto, sì o no?»
«Sì, sì», ella rispose.
Come in una sera lontana, ella apre la porta che dà sull’orto e siede sullo scalino di pietra.
La notte è calda, tranquilla, rischiarata appena dal velo biancastro della via lattea; l’orto odora di basilico, il bosco è immobile; la montagna col suo profilo di dorso umano, par che dorma distesa sul deserto infinito del cielo stellato.
Tutti dormono: anche Paulu che soffre di lunghe insonnie nervose. Da qualche giorno, però, egli è tranquillo: la sua coscienza sta per acquetarsi. Domani Annesa avrà un nome: si chiamerà Anna Decherchi. Tutto è pronto per le nozze modeste e melanconiche. Annesa ha preparato tutto, e adesso siede, stanca, sul gradino della porta.
E pensa, o meglio non pensa, ma sente che la sua vera penitenza, la sua vera opera di pietà è finalmente cominciata. Domani ella si chiamerà Annesa Decherchi: l’edera si riallaccerà all’albero e lo coprirà pietosamente con le sue foglie. Pietosamente, poiché il vecchio tronco, oramai, è morto.