V.

Tutti gli anni donna Rachele faceva chiamare qualche donna del vicinato, per aiutare Annesa a preparare il pranzo dei poveri.
Quell’anno, però, Annesa disse che non voleva aiuto da nessuno. Era già troppa la spesa del pranzo; parecchi scudi che ella diceva «buttati ai cani ed ai corvi».
Anche Paulu ogni anno protestava, e il giorno del pranzo dei poveri non tornava a casa per non arrabbiarsi nel veder la madre affaticarsi e abbassarsi a servire sei pezzenti miserabili.
Ma donna Rachele, con la sua santa pazienza, lasciava borbottare i «ragazzi» e aspettava quasi con ansia quel giorno per lei benedetto. Pensava:
«Gesù nostro Signore lavava i piedi ai poveri. Anch’io vorrei fare altrettanto coi poveri seduti alla mia mensa».
Da anni ed anni, forse anzi da secoli, una dama Decherchi compiva il sacro obbligo di servire con le sue mani «sei poveri modesti, di cui possibilmente fosse celata l’indigenza».
E donna Rachele s’era sempre opposta alla vendita della tanca gravata di quel canone, appunto perché aveva cara la pietosa cerimonia.
Così la tanca era rimasta l’ultima: ma ora bisognava rassegnarsi alla violenza inesorabile degli eventi. Pazienza. D’altronde Paulu non era tornato ancora, e l’ultima speranza di donna Rachele e dei nonni era riposta in lui.
«Basta, l’anno venturo sarò forse morta. Pensiamo a fare bene il nostro dovere quest’anno», diceva la pia donna ad Annesa inquieta e nervosa.
Quasi tutti gli anni i sei «poveri modesti», che convenivano segretamente al pranzo, erano gli stessi. E nonostante il mistero che li circondava, buona parte degli abitanti di Barunèi sapeva che il tal giorno e alla tale ora i sei tali mangiavano con forchette d’argento e serviti da una dama. Ogni anno la sera del pranzo il messo, che era mezzo matto, si divertiva a passare davanti alle case dei poveri, chiamandoli a nome e rivolgendo loro qualche scherzo umiliante:
«Chircu Pira, vieni fuori! Di’, mangi anche stasera colla posata d’argento?»,
«Matteu Bette? Che ne dici, è meglio mangiar la minestra col cucchiaio d’argento o col cucchiaio di legno?»
«Ti lecchi ancora le dita, Miale Caschitta?»
La vigilia del pranzo zia Anna, la vecchia cugina di donna Rachele, si offrì per aiutare Annesa.
«Così vedrò di scegliermi uno sposo fra i vostri ricchi invitati», disse scherzando.
«Vieni pure», rispose la vedova. «Ma bada che a tavola devo servire io sola. Non voglio che tu mi aiuti.»
«Come si fa, allora? Non posso guardare gli invitati.»
La mattina per tempo zia Anna ritornò, e subito ricominciò a scherzare. Disse che uno degli invitati, un certo Matteu Corbu, detto ventre di leone, l’aveva una volta chiesta in matrimonio.
«Non l’ho voluto perché era un mangione: tanto è vero che s’è mangiato tutto; avrebbe finito di mangiarsi anche la moglie.»
Ma Annesa non badava a zia Anna. Cucinava e pensava con angoscia a Paulu assente da tre giorni. Dove era? Perché non tornava? Le parole di lui le ritornavano in mente con sempre più cupa minaccia.
«È l’ultimo viaggio questo: o trovo o non torno!»
Ogni tanto, quando nella straducola risonava il passo d’un cavallo, ella palpitava: ma non era il passo del cavallo baio: la speranza svaniva, l’inquietudine cresceva. Come al solito, ella vestiva decentemente, pulita, pettinata con cura: ma donna Rachele, che entrava ed usciva dalla camera alla cucina e da questa al cortile dove era stato acceso il fuoco per cuocere la pasta, e arrostire la carne, notava in lei qualche cosa d’insolito e di strano.
«A momenti sei pallida, a momenti il tuo viso è infiammato», le disse sfiorandole con le dita la fronte. «Che hai? Sei malata? sei stanca?»
«Ma niente! È il calore del fuoco», disse Annesa irritata.
Anche zia Anna la guardò e non scherzò più. Dagli occhi dolci e tristi di Annesa era scomparsa la solita mansuetudine: a momenti splendevano d’una luce selvaggia, fissi e incoscienti come gli occhi d’un allucinato.
«La ragazza oggi è di malumore; lasciamola tranquilla. È in collera perché non voleva che quest’anno si desse il pranzo», confidò donna Rachele alla cugina.
Zia Anna, veramente, non dava torto ad Annesa. Dal momento che fra pochi giorni la tanca doveva essere messa all’asta, era stupido soddisfare il canone. Ma non disse nulla e continuò a girare lo spiedo sulla brace fumante.
Nella camera del vecchio asmatico la tavola era già apparecchiata: sulla tovaglia giallognola le ultime sei posate d’argento stavano accanto ai piatti bianchi sparsi di fiorellini rossi.
Già due invitati, due vecchi fratelli, Chircu e Predu Pira, sedevano davanti al lettuccio dell’asmatico. Erano due vecchi disgraziati, di buona famiglia, che avevano tentato sempre qualche negozio, qualche impresa, e sempre fallito. Vestivano decentemente, in borghese, ma i loro visi bianchi, cascanti, le mani scarne, gli occhi pieni di tristezza, narravano una lunga storia di dolore e di stenti: poveri modesti, veramente, dei quali però l’indigenza era ben nota; e donna Rachele li aveva invitati per far piacere a ziu Zua, del quale il meno vecchio, Chircu, era stato amico intimo. Mentre si aspettavano gli altri invitati, ziu Zua profittava dei momenti in cui donna Rachele usciva nel cortile per parlare male dei suoi parenti. La sua voce bassa ed ansante si spandeva come un gemito nella camera melanconica. Dalla finestra socchiusa penetrava un filo di luce grigia, un odore di foglie umide: tutto era triste là dentro, il vecchio cadaverico, la tovaglia giallognola, i due fratelli dal viso bianco di fame.
Ziu Zua parlava male di tutti, persino di Rosa.
«Cosimu Damianu è andato in campagna, oggi: vuol lavorare, il vecchio fannullone. Adesso, adesso! Adesso che la sua bocca è vicina alla fossa. Vuol lavorare adesso, dopo che è vissuto tutta la vita alle spalle degli altri. E don Simone è andato a spasso: ha bisogno di camminare, per farsi venir l’appetito, il vecchio nobile. Passeggia, passeggia pure, caro mio; l’anno venturo l’invitato sarai tu al pranzo dei poveri, invitato dal nuovo padrone della tua tanca
I due vecchi sorrisero tristemente: ma il più anziano, al quale l’asmatico riusciva alquanto odioso, per fargli dispetto disse:
«Paulu porterà oggi i denari: dicono sia andato a Nuoro, dove…».
«Taci», interruppe ziu Zua, cercando di sollevarsi sul guanciale, e animandosi cupamente al ricordo di Paulu. «Corni porterà, quel vagabondo, quel giramondo; chi gli fa più credito? Tutti ridono di lui. Ah, tutti, sì, tutti… ah…»
La collera lo soffocava. Il vecchio Pira s’alzò e gli accomodò il cuscino sulle spalle.
«Non adirarti, così, Zua: ti fa male.»
«Mi adiro, sì, perché, vedi, tutti credono che egli sia in viaggio per affari suoi, per… Basta, invece… ah, ah…»
«Invece è in giro per divertirsi, lo sappiamo», disse Chircu Pira, cercando di calmare l’amico. «Lo sappiamo.»
«Sì, vecchi miei. È andato alla festa di Sant’Isidoro. E si è fatto prestare i denari. Ah, non pensa che fra cinque giorni si farà la prima asta della casa e della tanca: non ci pensa, come del resto nessuno ci pensa, qui. Oh, son tutti allegri: se ne infischiano, loro! Vedete don Simone? Egli se ne va a passeggio, per farsi venir l’appetito. Sperano forse che io muoia, entro questi cinque giorni: ma la mia pelle è dura, e dentro la mia pelle ci stanno sette anime, come le ha il gatto. Non morrò, vecchi miei, e se morrò, c’è qualcuno che verrà… verrà a vedere… ah!»
«Che cosa verrà a vedere? Zua, non adirarti», ripeté il vecchio amico, «ti farà male.»
Ma l’altro fratello insisté:
«Che verrà a vedere?».
Ma l’asmatico s’era già pentito delle sue parole, e non volle dire altro.
«Quante mosche», si lamentò, scuotendo lentamente la mano intorno al cui polso teneva il rosario. «Che brutta giornata! Quando fa questo caldo afoso, soffro tanto: ieri notte credevo davvero di soffocare. E quell’asina di Annesa, buona anche quella, mala fata la porti, mi guardava come se avesse voluto… Ah, ecco che vengono…»
Qualcuno entrò; s’udì nell’andito il riso melanconico di Rosa. Ed ecco la testa enorme, gli occhi vivi e il vestitino rosso e azzurro della bimba: e dietro di lei il vestito nero, il bastone, il berretto di don Simone.
Il vecchio nobile sembrava più allegro del solito, scherzava con la bambina, tirandole la cocca del fazzoletto che le avvolgeva la testa, e dicendole infantilmente:
«Avanti, puledrina, Cammina».
Ziu Zua lo guardò con disprezzo.
Poi giunsero gli altri invitati, dei quali uno solo era giovanissimo, cieco sin dall’infanzia. Don Simone sedette a tavola coi poveri, cosa che non aveva fatto mai, e volle Rosa al suo fianco.
«Donna Rachele», gridò, scherzando, «siamo pronti. Avete sbagliato il numero, però, quest’anno: invece di sei avete invitato sette poveri; anzi sette e mezzo.»
Rigida e pallida, nel suo costume nero, donna Rachele entrò, portando un largo piatto colmo di maccheroni; sorrideva, ma quando vide il vecchio suocero seduto fra i poveri commensali trasalì; e lagrime amare inumidirono i suoi occhi. Egli però la guardava sorridendo, con gli occhi pieni di gioia, ed ella pensò:
«Pare che voglia dirmi qualche cosa. Una buona notizia, forse? Che gli abbia scritto Paulu?».
Durante il pranzo don Simone scherzò, ma la sua presenza intimidiva alquanto gli invitati; egli cominciò a prenderli in giro bonariamente.

Matteu, brente ‘e leone,
chi pares una balena,
a denotte duas chenas
e una colassione,[1]

disse a Matteu Corbu, il vecchietto mangione che si vantava d’aver una volta divorato un intero agnello.
La quartina esilarò gli invitati; credendo di far piacere al padrone di casa, alcuni cominciarono a perseguitare il vecchietto coi loro scherzi.
«La tua canzone favorita, in gioventù, qual era, Matteu?», domandò zio Chircu. «Ricordati bene.»
Ma il vecchietto, che pareva un piccolo San Pietro, calvo e coi capelli lunghi sulla nuca, mangiava tranquillamente e taceva. Accanto a lui Niculinu il cieco palpava la tovaglia e sorrideva.
«Tu non ricordi? Ebbene, Matteu? Sei sordo? Io la ricordo, però, la tua canzone:

Si sar muntagnas fin de maccarrones.
E i sar baddes de casu frattadu…[2]

Rosa ascoltava avidamente: d’un tratto scoppiò a ridere e volle dire una cosa nell’orecchio a don Simone.
«Ma che vuoi? Non ti sento, Rosa.»
«Andiamo, ve la dirò in cucina.»
Scese pesantemente dalla sedia e tirò la giacca del nonno: egli si alzò e la seguì in cucina.
«Fategli ripetere la canzonetta dei maccheroni, nonno.»
«Diavoletta, mi hai fatto venir qui per questo? Ah, diavoletta!»
Ella scappò, egli la rincorse fino al cortile. Zia Anna era in cucina, Annesa serviva il vecchio asmatico; donna Rachele uscì nel cortile e si chinò per togliere lo spiedo dal focolare: don Simone allora le disse rapidamente:
«Prete Virdis m’ha confidato una cosa, ma in gran segreto. Egli ha convinto Zua a comprar la casa e la tanca; così tutto si accomoderà. Ma per amor di Dio, non parlarne con nessuno, nemmeno con Annesa».
«Andiamo, Rosa», disse poi alla bambina. «Faremo ripetere la canzonetta.»
Quando la vedova entrò, portando l’arrosto, tutti si accorsero che ella aveva mutato aspetto: una gioia quasi febbrile le animava lo sguardo, parole di amore e di dolcezza le uscivano dalle labbra lievemente colorate. Anche Annesa s’accorse di quest’eccitazione, ma l’attribuì al piacere quasi mistico che la santa donna provava nel servire i poveri; e la sua tristezza e la sua irritazione crebbero. A momenti anche lei pensava male dei suoi benefattori; sì davvero, faceva rabbia vederli così incoscienti e allegri alla vigilia della loro completa rovina. E Paulu che non tornava. Dov’era Paulu? Il pensiero di Annesa lo cercava, lo seguiva, per l’immensità deserta delle tancas, attraverso i sentieri melanconici, sotto quel cielo cupo e minaccioso che anche sopra di lei, sopra la sua testa dolente, pareva pesasse come una volta di pietra.
I commensali parlavano di Niculinu il cieco.
«Dice che da qualche tempo a questa parte gli pare, in certi giorni, di veder come un barlume lontano. Fino all’età di tre anni non è stato cieco: lo è diventato dopo una grave malattia. Ultimamente è andato alla festa del Redentore, a Nuoro, e crede di riacquistare lentamente la vista. Non è vero, Niculinu?»
Il cieco per tutta risposta si fece il segno della croce.
«In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», esclamò donna Rachele, segnandosi anche lei. «Dio è onnipotente e può tutto: sia sempre lodato il suo santo nome.»
E batté la mano sulla spalla di Niculinu, quasi per significargli che anche lei fino a quel momento era stata come cieca, mentre adesso cominciava a intravedere un lontano barlume di speranza. Ah sì: ella ricominciava a sperare nella bontà umana, e questa speranza era la cagione della sua gioia: avrebbe voluto avvicinarsi al lettuccio del vecchio asmatico e dire:
«Zua Decherchi, ti ringrazio, non perché ci serbi la casa e l’ultimo pezzo di terra, ma perché ti dimostri buono mentre tutti ti credevamo malvagio».
Ma don Simone la guardava ed ella capiva che doveva tenere il segreto.
E lo tenne, ma durante il pomeriggio prodigò mille attenzioni al vecchio asmatico: egli ne indovinò la causa, e s’irritò maggiormente: e la sua irritazione inasprì quella di Annesa.
La giornata diventava sempre più cupa e triste; il tuono rumoreggiava in lontananza, dietro la montagna livida e nera. Qualche cosa di angoscioso e di tragico gravava nell’aria.
Finito il pranzo, i poveri se n’andarono, tutto rientrò nell’ordine e nel silenzio melanconico di prima. Solo, di tanto in tanto, zio Zua gemeva, e se Annesa attraversava la camera, quel gemito diventava simile a un ringhio.
Ella lavorava e taceva: rimise le stoviglie, le posate, spazzò la cucina e il cortile; poi andò alla fonte, con l’anfora sul capo, e si fermò a lungo davanti ai paracarri, guardando le lontananze della valle. Sotto il cielo grigio solcato di nuvole d’un nero terreo, la valle si sprofondava come un precipizio, le roccie sembravano pronte a rovesciarsi le une sulle altre; il bosco della montagna si confondeva con le nubi sempre più basse.
E Paulu non veniva. Annesa soffriva un terribile mal di capo; le pareva che l’anfora fosse una delle roccie che, nel suo capogiro, ella vedeva quasi muoversi e precipitare: e il tuono le risonava dentro la testa, con un rombo continuo. Stava per avviarsi di nuovo, quando vide Santus il pastore e altri tre uomini e un fanciullo avanzarsi sullo stradale. Aveva la febbre, o il fanciullo che si avvicinava, preceduto da due vecchi e seguito dal padre e da un altro paesano, era veramente il figlio smarrito di Santus? La curiosità le fece per un po’ dimenticare il suo affanno: si tolse la brocca dal capo, la depose sui paracarri e attese. Il gruppo s’avvicinava; la voce di Santus, alta e allegra, arrivava sempre più distinta nel silenzio dello stradale solitario.
«Perdio, lo conduco subito dal brigadiere: poi se vuol scappare scappi pure e vada al diavolo.»
Il fanciullo taceva, Annesa guardava; e non si stupì quando Santus gridò:
«Annesa, ohè, Annesa! Ecco qui l’uccellino scappato. Lo vedi? Guardalo bene: anche tu puoi dire che è lui?».
«E dove sei stato, tutto questo tempo?», ella domandò quando i paesani le furono vicini.
Il ragazzetto la fissò coi suoi occhi azzurri cattivi, ma non rispose.
«Abbiamo incontrato don Paulu», le fece sapere il pastore; «stanotte non tornerà in paese: non lo aspettate.»
Annesa, che si rimetteva sul capo la brocca vibrò tutta, e per nascondere il suo turbamento lasciò che i paesani passassero oltre. Ma le parve che Santus si voltasse e si fermasse poi ad aspettarla.
«Egli deve dirmi qualche cosa» pensò raggiungendolo.
Gli altri precedevano di qualche passo.
«Dove hai veduto don Paulu?», ella domandò sottovoce.
«Nei salti di Magudas: era diretto a quel paese. Anzi, mi diede un bigliettino per te, per darlo a don Simone, forse…», aggiunse il pastore, ch’era un buon uomo, ma non senza malizia. E le mise in mano il biglietto che aveva destramente levato dalla borsa della cintura.
Annesa strinse nel pugno il pezzetto di carta: una brace non l’avrebbe scottata di più. Il pastore parlava, ella non sentiva. Sentiva solo il rombo dei tuoni in lontananza: e le pareva che dentro il pugno stringesse non un pezzetto di carta, ma un cuore pulsante, un’anima che urlava e spasimava. Che avveniva? Paulu non le aveva mai scritto. Perché le scriveva, adesso? Una buona o una cattiva notizia? Ella non dubitò che un istante: la notizia doveva essere triste. Ed ebbe paura di apprenderla troppo presto.
Una donnina seduta a cavalcioni su un cavallino bianco raggiunse la comitiva, e riconoscendo il figlio di Santus cominciò a dar gridi di sorpresa e di gioia.
«Eccolo, sì; è lui! Ah, come sono contenta! No, non era possibile che un abitante di Barunèi avesse ucciso il suo figliuolo: il nostro paese ne sarebbe rimasto infamato: anche nelle “canzoni” dei girovaghi sarebbe stato nominato e infamato, il nostro Barunèi.»
«Sta zitta, Anna Pica», gridò Santus. «La tua lingua sembra un coltello.»
Annesa si fermò, come s’erano fermati gli altri, ma sentiva solo il rombo del tuono, e dentro il pugno la carta fatale: null’altro esisteva per lei, gli altri si mossero; attraversarono il paese: ella li seguì, si trovò in mezzo alla folla che a poco a poco s’era radunata intorno al pastore, stette ad ascoltare, sorrise. Una fiamma improvvisa, un tuono fortissimo, alcune goccie di pioggia fecero correre la gente di qua e di là: ella si trovò quasi sola in fondo alla straducola che conduceva alla casa dei suoi benefattori, e s’avviò correndo.
Donna Rachele era andata con Rosa alla novena; solo il gemito del vecchio asmatico, quel giorno più cupo e agitato del solito, animava la casa deserta. La luce metallica dei lampi inondava ogni tanto la camera buia, l’andito silenzioso.
Annesa depose la brocca, sempre stringendo nei pugno il biglietto; poi uscì nel cortile e lesse a stento il triste messaggio: «ricordati ciò che ti dissi prima di partire…». Un lampo terribile, un tuono fragoroso riempirono di terrore il cielo: ella credette che il fulmine fosse piombato sopra di lei, e gemette come gemeva il vecchio.
«Egli non ha trovato. Egli si ucciderà. Questa volta, questa volta è davvero. Fra due, fra tre giorni, quando non ci sarà più speranza, egli morrà. È così.»
Un nuovo rombo formidabile, il bagliore azzurro d’un lampo, un altro tuono ancora, riempirono il cortile di luce e d’orrore: la pioggia scrosciò furiosa. Ella rientrò in cucina e appoggiò la fronte alla porta chiusa, pensando che se Paulu a quell’ora viaggiava, doveva bagnarsi tutto. E per alcun tempo questo pensiero l’inquietò più che la minaccia del biglietto: un tremito nervoso l’agitava tutta; le pareva di sentir la pioggia scorrerle lungo le spalle, bagnarle la schiena e tutta la persona, giù, giù, fino ai piedi.
E non poteva gridare, non poteva piangere: un nodo isterico le stringeva la gola. Fuori cresceva la furia del temporale, la pioggia batteva contro la porta, i tuoni rombavano con ira nemica. Ed ella, con la testa contro la porta, pensava a Paulu smarrito nella tristezza della sera tempestosa, percosso dall’ira cieca dell’uragano, e le pareva che anche la natura, oramai, si unisse alla sorte, agli uomini, per incrudelire contro il disgraziato. Fuori, dentro, nella casa, intorno alla casa, nella vastità dei campi e dello spazio, un esercito di forze nemiche si divertiva a perseguitare un essere solo, un uomo debole e infelice. Nessuno lo aiutava, nessuno lo difendeva: neppure la madre, che non si affannava per lui, che sorrideva perché i poveri sedevano alla sua mensa mentre il figlio suo, più povero e misero dell’ultimo dei mendicanti, errava di paese in paese, in cerca di fortuna e d’aiuto.
«Nessuno, nessuno», gemeva Annesa, sfregando la fronte contro la porta come la pecora verminosa contro il tronco della quercia. «Nessuno, nessuno! Soltanto la serva pensa a te, Paulu Decherchi, disgraziato fanciullo. Ma che può una serva contro la padrona di tutte le creature umane, contro la sorte?»
«Annesa, demonia!», gridò ziu Zua, che da un quarto d’ora chiamava invano. «Annesa maledetta, accendi il lume.»
Ella entrò nella camera, ma non accese il lume. Un crepuscolo torbido penetrava dalla finestra, descrivendo un cerchio di luce grigiastra che arrivava appena ai piedi del lettuccio di ziu Zua: ma di tanto in tanto il bagliore dei lampi illuminava la camera, e allora pareva che la figura del vecchio balzasse dall’ombra, e poi ripiombasse di nuovo in un luogo di tenebre e di mistero.
Annesa lo guardò a lungo con occhi allucinati: le pareva che egli fosse già morto ma urlasse e imprecasse ancora. E da quel momento fu assalita da una specie di ossessione: avvicinarsi al vecchio e strangolarlo, farlo tacere finalmente, ripiombarlo per sempre nell’abisso d’ombra dal quale egli usciva ogni tanto urlando.
Ferma sull’uscio di cucina stese alquanto le braccia, contraendo le dita: un gemito le uscì dalla bocca chiusa. Allora il vecchio credette che ella avesse paura del temporale e abbassò la voce.
«Annesa», supplicò, «ma accendilo questo lume! Vedi che anche tu hai paura. Vedi come mi hanno lasciato solo. Chissà dove saranno! Anche Rosa è fuori: si bagneranno tutti.»
Ella ritornò in cucina e accese il lume: ricordò che Paulu aveva preso con sé il cappotto, e il pensiero che egli potesse coprirsi la confortò. Allora sospirò, con un senso di sollievo simile a quello che provano i bambini nel sentire che l’eroe della fiaba, sorpreso dall’uragano, ha trovato una casetta nel bosco. E rientrò col lume nella camera del vecchio.

Il temporale infuriò fino a sera inoltrata; poi d’un tratto il cielo si rasserenò; le ultime nuvole, come squarciate dall’ultimo tuono, s’aprirono, si lacerarono, scesero giù dietro la montagna. La luna grande e triste apparve sopra il bosco nel silenzio improvviso e nella melanconia della notte umida.
Donna Rachele, la bimba, i vecchi nonni, che erano rimasti in chiesa finché non aveva cominciato a spiovere, rientrarono, andarono a letto subito dopo cena.
Annesa rimase sola in cucina, dove aveva acceso il fuoco perché l’acqua inondava ancora la tettoia. Le pareva fosse d’inverno. Il chiarore del fuoco illuminava le pareti brune, tremolava sul pavimento umido, macchiato dall’impronta delle scarpe infangate di don Simone e di zio Cosimu. Ella sentiva brividi di freddo e sbadigliava nervosamente.
Dopo aver rimesso in ordine la cucina, rientrò nella camera e accese il lumino da notte che mise per terra, nell’angolo dietro l’uscio. Ed ecco che di nuovo la figura di zio Zua, assopito ma più anelante e agitato del solito, parve sprofondarsi nella penombra. In punta di piedi Annesa si avvicinò parecchie volte al letto, preparò la coperta sul canapè, ma non si coricò. Le pareva che avesse ancora qualche cosa da fare. Che cosa? Che cosa? Non sapeva, non ricordava.
Ritornò a sedersi accanto al focolare, si piegò verso la fiamma e rilesse il biglietto di Paulu: poi lo bruciò. E per lungo tempo rimase immobile, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, fissando gli occhi sulle brace fra le quali il foglietto, nero e attortigliato come una foglia secca, si trasformava lentamente in cenere.
Qualche cosa entro di lei si consumava così. La coscienza e la ragione l’abbandonavano: un velo scendeva intorno a lei, la separava dalla realtà, la circondava d’ombra e di terrore. Ella non ricordò mai quanto tempo stette così, piegata su se stessa, in uno stato di incoscienza. Sognava e lottava per svegliarsi, ma l’incubo era più forte di lei. Ci fu un momento in cui ella si alzò e s’avvicinò all’uscio della camera: il vecchio dormiva; intorno alla tavola sedevano ancora i sei poveri, e non mangiavano, non parlavano ma la fissavano con occhi melanconici. Specialmente Niculinu, il cieco, la guardava fisso, coi suoi grandi occhi biancastri dalle grosse palpebre livide.
Ella tornò al suo posto e chiuse gli occhi: ma non cessò di vedere gli occhi lattiginosi e le palpebre gonfie del cieco. Più infelice di lui che diceva di ricordare la luce e i colori come un sogno lontano della sua infanzia, ella non ricordava nulla dei suoi primi anni: non una voce saliva per lei dalla profondità oscura della sua origine, non una figura si disegnava nel suo passato.
«Io non ho padre, né madre, né parenti,» pensava nel suo delirio. «I miei benefattori sono stati i miei nemici. Nessuno piangerà per me. Io non ho che lui, come lui non ha che me. Siamo due ciechi che ci sosteniamo a vicenda: ma egli è più forte di me, e se io cadrò egli non cadrà.»
E le sembrava che realmente ella e Paulu fossero ciechi, ella aveva gli occhi bianchi e le palpebre pesanti come quelle di Niculinu; e davanti a sé non vedeva che una muraglia rossa e infocata il cui riverbero la bruciava tutta. Rumori misteriosi le risonavano dentro le orecchie; credeva di sentire ancora la pioggia scrosciare contro la porta, e il tuono riempire la notte d’un fracasso spaventevole: l’uragano assediava la casa, la prendeva d’assalto, come una torma di grassatori, e voleva devastarla.
Poi una figura uscì dalla camera del vecchio, strisciò lungo la parete, sedette accanto al focolare. Ella non poteva volgersi, ma sentiva il fantasma al suo fianco: sul principio le parve il cieco, poi d’un tratto si sentì sfiorare la mano da una mano dura e calda che le sembrò quella di Gantine. La mano salì fino al viso di lei, glielo carezzò; le prese il mento, le strinse la gola… Davanti a lei balzò una figura gialla, con due occhi ardenti e una lunga barba grigia fra i cui peli umidi s’apriva una bocca nera e contorta. Era zio Zua. Egli la strangolava.
Ella si svegliò, piena di terrore, e rimase lungo tempo immobile, vinta da uno spavento indicibile. Finalmente poté alzarsi e andò ancora a spiare dietro l’uscio. Le figure dei sei poveri erano sparite: il vecchio dormiva, con le spalle e la testa abbandonate sui guanciali, e le mani sul lenzuolo. Il suo affanno s’era calmato: egli stava così immobile e quieto che pareva morto. Sola cosa viva, in quella camera sepolcrale, era la fiammella nel lumino che pareva si fosse nascosta da sé dietro l’uscio.
Annesa entrò, s’avvicinò al letto, guardò il vecchio. Un momento, un po’ di forza, un po’ di coraggio e tutto era finito.
Ma la forza e il coraggio le mancarono: provò un senso di gelo, un tremito convulso, e le sue dita si contrassero. No, non poteva, non poteva.
Ritornò in cucina, aprì la porta e uscì nel cortile. Allora si accorse con meraviglia che l’uragano era cessato: la luna saliva limpida sul cielo azzurro chiaro come un cristallo; i vetri delle finestre, il lastrico del cortile, le tegole della tettoia avevano un riflesso d’argento. E nel silenzio profondo non si sentiva più neppure il canto dei grilli, né quello dell’usignuolo che ogni notte veniva nel bosco in fondo all’orto.
La furia dell’uragano aveva spento anche la loro voce. E pareva che gli abitanti del villaggio, nero ed umido sotto la luna, fossero tutti scomparsi come i loro leggendari vicini del paese distrutto. Ma questo silenzio, questa morte di tutte le cose, invece di calmare Annesa la eccitarono ancora. Nessuno poteva spiarla, nessuno poteva vedere ciò che ella faceva. Il mondo esterno coi suoi ammonimenti e i suoi pericoli non esisteva più per lei: e nel suo mondo interno, tutto era di nuovo tenebre. L’ossessione la riprese, la ripiombò in uno stato di semi-incoscienza febbrile; ella però lottò ancora contro il cieco impulso che la guidava. Rientrò nella camera, uscì di nuovo nel cortile: andava e veniva come una spola, tessendo una trama spaventevole.
A lungo l’istinto della conservazione fu più forte della sua manìa, infine parve salvarla. Chiuse la porta, spense la candela, sedette sull’orlo del canapè e si piegò per levarsi le scarpe. Ma il vecchio sospirò e s’agitò, ed ella rimase un istante curva, ascoltando; poi si sollevò lentamente. Era meglio non spogliarsi, gli accessi d’asma, che da qualche notte tormentavano il vecchio, potevano da un momento all’altro ricominciare. Poiché bisognava alzarsi per curarlo, era meglio coricarsi vestita.
Ella si corica dunque, e si tira la coperta fin sul viso. Un brivido di freddo la scuote dai piedi alla testa, l’orribile verità le ritorna in cuore.
Ella si è coricata vestita, non per esser pronta ad aiutare il vecchio, ma per aiutare la morte, se l’accesso ritorna: un piccolo sforzo, una mano sulla bocca del malato, il calmante rovesciato sul tavolino, e tutto sarà finito.
Il suo cuore batteva convulso; ella cercava di respingere ancora la tentazione diabolica e tuttavia aspettava. E sentiva che la sua attesa era simile all’attesa del sicario dietro le macchie.
Rivedeva la figura del vecchio come le era apparsa la notte prima, durante l’accesso: egli sembrava agonizzante, stralunava gli occhi e apriva la bocca avida d’aria.
«Basta forse ch’io non lo aiuti a sollevarsi; basta che io non gli dia il calmante. Egli deve morire stanotte; altrimenti muore l’altro. Bisogna che Paulu domani sappia che il vecchio è morto. È tempo. È tempo.»
Il suo desiderio era così forte che le pareva impossibile non dovesse avverarsi. Poiché il vecchio doveva morire, doveva morire subito. Fra venti, fra dieci, fra due giorni sarebbe stato troppo tardi: la notizia della sua morte doveva raggiungere Paulu al più presto possibile. O l’uno o l’altro.
Le pareva che il destino della disgraziata famiglia stesse in mani sue: nel suo delirio arrivava a dirsi che avrebbe commesso un più grave delitto di quello meditato, se non riusciva a impedire la morte di Paulu, la rovina ultima dei suoi benefattori. O l’uno o l’altro; o l’uno o gli altri.
Di tratto in tratto risonava nella straducola qualche passo di cavallo stanco; poi il silenzio regnava più intenso.
L’ora passava. La stanchezza, la febbre, l’insonnia ricominciarono a far delirare Annesa; le figure dei sei poveri ripresero il loro posto intorno alla tavola: gli occhi bianchi e gravi del cieco fissavano il lettuccio del vecchio asmatico, la testa enorme di Rosa cominciò a oscillare sull’esile collo della bimba, dal quale pareva volesse staccarsi; donna Rachele s’avanzava con un vassoio in mano, e rideva, come da anni ed anni la febbricitante non l’aveva veduta più ridere; e questa letizia insolita, da vecchia improvvisamente impazzita, esasperava Annesa. Nel suo sogno febbrile ella guardava il vecchio e pensava:
«Con tutta questa gente, anche se l’accesso ritorna, come posso fare io? Tutti mi guardano; anche Niculinu vede. Non se ne vanno dunque?».
Non se n’andavano perché infuriava ancora il temporale; i tuoni scuotevano tutta la casa, un filo d’acqua penetrava dal soffitto e cadeva sulle spalle di Annesa, dandole un raccapriccio nervoso; ed ella aspettava sempre, e nel sogno delirante la sua attesa diventava un’attesa misteriosa, piena di terrore e d’angoscia. Chi doveva arrivare? Che cosa doveva succedere? Ella lo ricordava benissimo: sapeva che doveva arrivare la Morte e che ella doveva aiutarla come la serva aiuta la padrona; ma oltre a questo ella aspettava altri fantasmi più terribili ancora, e indovinava che altre cose più orrende dovevano accadere. E un dolore che superava tutti i dolori sofferti, più grave dell’umiliazione del suo stato, e della finzione con la quale ella s’era sempre mascherata, più intenso della sua pietà per la famiglia che l’aveva beneficata, e della paura che Paulu morisse di mala morte, le lacerava l’anima sommersa nella tenebra del male. Era un dolore senza nome; l’angoscia del naufrago che scende nell’abisso molle e amaro del mare e ricorda i dolori della vita belli e piacevoli in paragone al mostruoso dolore della morte.

Un altro passo di cavallo nella straducola!
Ella si scosse dal suo assopimento, si levò la coperta dal viso e ascoltò. Signore, Signore, era mai possibile? Il passo risonava forte e tranquillo, s’avvicinava, sembrava il passo del cavallo di Paulu.
Ella si gettò dal canapè trascinandosi dietro la coperta, e s’avventò contro l’uscio come una pazza; ma il cavallo passò oltre. Il vecchio si svegliò di soprassalto; vide la coperta buttata per terra in mezzo alla camera, vide Annesa vestita e si spaventò:
«Annesa?», chiamò sottovoce; poi gridò: «Annesa? Anna, che c’è?».
Quel grido la richiamò alla realtà: ella ricordò subito ogni cosa, e sentì il bisogno di scusarsi col vecchio.
«Credevo fosse don Paulu», disse con voce rauca, assonnata, «nella speranza che tornasse non mi sono spogliata. Volete qualche cosa?»
S’avvicinò al lettuccio, e fu ripresa dalla tentazione, dall’ansia, dal terrore; ma le parve che il vecchio, nella penombra, indovinasse i pensieri di lei e vegliasse.
«Dammi un po’ d’acqua.»
Ella prese il bicchiere che stava sopra una sedia, e glielo porse: la sua mano tremava.
«Sognavo. Mi pareva m’avessero portata via la medaglia: eccola qui», disse zio Zua con la sua voce tremula e ansante, cercando e traendo fuori dal petto la medaglia.
«Proprio! ora vi portano via anche quella porcheria», rispose Annesa con dispetto. «Proprio; ora vengono i grassatori per portarvela via.»
Il vecchio alzò la testa,
«Ohè, bada a quel che dici, ragazza! Se non portano via la mia medaglia, porteranno via gli stracci dei tuoi padroni.»
«Io non ho padroni! Dormite, dormite, che farete bene. Neppure la notte lasciate in pace la gente.»
«Non hai padroni? Ah, è vero, domani sarete tutti servi», riprese il vecchio, sempre più irritato. «Servi, sì, servi! Anche il tuo bel giramondo, se vorrà vivere, andrà col badile e la zappa sulla spalla.»
Non era la prima, né la millesima volta che egli, d’altronde provocato, le rinfacciava la miseria dei «suoi padroni». Entrambi sapevano dove meglio colpirsi a vicenda e non esitavano a farlo.
Istintivamente ella si scostò dal letto, ripresa da un tremito convulso; raccattò la coperta, sedette sul canapè e sbadigliò. Il vecchio continuava a borbottare.
«Ah, non vi lascio in pace neppure la notte? Malanno che vi colga, anche quello mi rinfacciate? Chi ti cercava, vipera? Sei tu che mi hai svegliato, e faresti davvero meglio a spogliarti e andare a letto. Il tuo giramondo non tornerà, sta pur sicura, non tornerà. È inutile che tu lo aspetti, sai, bella; egli a quest’ora non pensa a te.»
Ella cessò di sbadigliare e di tremare.
«Cosa? Cosa? Cosa dite?»
«Nulla. Dicevo che la medaglia possono portarmela via, anche la medaglia, ma gli occhi no, ma le orecchie no.»
«Continuate!», ella disse, minacciosa.
«Niente, ho finito. Va a letto, ti dico, e non prendertela con me se il giramondo non torna. Ti ho detto che non pensa a te, stanotte.»
Era troppo. Un velo coprì gli occhi di Annesa; incosciente ella si alzò, trascinandosi dietro la coperta che di nuovo abbandonò in mezzo alla camera; si precipitò contro il vecchio, gli si gettò addosso, gli mise le mani intorno al collo. Una specie di rantolo le usciva dalla bocca spalancata; tutto era tenebre e fragore intorno a lei, ma il vecchio ebbe la forza di strapparsi dal collo le mani che volevano soffocarlo, e cominciò a gridare:
«Aiuto! Aiuto!».
Ella non tentò di fargli oltre del male, ma gli disse a voce alta:
«Se non state zitto vi strangolo davvero. Provate un po’ a gridare ancora, provate un po’!».
Egli ebbe paura e non osò più gridare, ma si portò le mani al collo, con un istintivo moto di difesa, e chinò la testa, curvò le spalle, e tremò tutto, vinto da un terrore infantile. La sua barba sfiorava la coperta, sotto la quale le sue vecchie membra si agitavano tutte.
La disgraziata non vedeva più nulla; solo capiva che il vecchio aveva paura di lei; ed anche lei, adesso, aveva paura di lui.
«Domani egli mi denunzierà», pensava, fissandolo con gli occhi non più umani. «Sono perduta. Mi denunzierà, e si farà portar via di qui, e tutto sarà finito. Ch’io sia perduta non importa», pensò poi, con disperazione, «ma gli altri no, gli altri no.»
E un martello inesorabile picchiava e picchiava alle sue tempia, come ad una porta che bisognava sfondare.
«O lui o gli altri. O lui o gli altri.»
Ma ella non poteva: non poteva. Le sue mani si rifiutavano all’opera orrenda. Tentò di placare il vecchio; gli si piegò sopra, gli parlò con frasi sconnesse; ma la sua voce era rauca, minacciosa, e pareva venir di lontano, da un mondo tenebroso popolato di esseri mostruosi, di demoni, di bestie parlanti.
Forse il vecchio, ripiegato su se stesso, come curvo sul confine della vita e già partecipe ai misteri dell’eternità, sentiva che quella voce non era più una voce umana: forse non la sentiva neppure, e non dava ascolto che alla voce del suo terrore. Per quanto Annesa parlasse, egli non si moveva, con le mani sempre intorno al collo e il viso sul lenzuolo.
Ella si stancò: si sollevò a andò a raccattare nuovamente la coperta. Un urlo risonò per la camera.
«Aiuto! Aiuto!»
Allora ella perdette l’ultimo barlume di ragione. D’un balzo gli fu sopra; gli gettò la coperta sul capo, lo premette con tutto il peso della sua persona.
Un gemito sordo, un agitarsi disperato di membra sotto la coperta: poi, lentamente, il gemito s’affievolì, parve venire da una lontananza buia, dalla profondità d’un abisso; e sotto il suo petto convulso, fra le sue braccia contratte, Annesa non sentì che qualche sussulto, un lieve movimento, più nulla.
Quanto tempo era passato? A lei parve fossero trascorsi appena due o tre minuti, e si meravigliò della poca resistenza della vittima. Nel dubbio che il vecchio fingesse ancora, gli premette il viso con le mani, gli spinse la testa contro il cuscino.
Altri minuti passarono. Ella riacquistava gradatamente un po’ di coscienza: si accorgeva di quello che faceva, e aveva paura di venir sorpresa. Qualcuno poteva aver sentito i gridi della vittima: da un momento all’altro zio Cosimu o don Simone o donna Rachele potevano apparire sull’uscio e domandarle che cosa accadeva.
Ella ascoltava e ogni tanto volgeva il viso spaurito, guardando verso l’uscio. Ma il silenzio della morte regnava oramai nella camera: gli oggetti restavano immobili nella penombra, e solo il lumicino continuava ad ardere ed a spiare, quieto nel suo angolo, come un testimone che vuol vedere senza esser veduto. D’un tratto ella provò un terrore misterioso; le parve che le cose intorno, mascherate di penombra, avessero paura di lei; ed era invece lei che aveva paura di loro: se un mobile avesse in quel momento scricchiolato ella sarebbe fuggita, urlando.
Finalmente si mosse: stette alcuni momenti in piedi, davanti alla vittima, senza osare di scoprirla; poi sentì un rumore che le sembrò venisse dalle stanze superiori, e corse e chiuse a chiave l’uscio. Ma subito lo riaprì e uscì nell’andito.
Che fare? Per un momento pensò che doveva gridare, chiedere aiuto, dire che il vecchio moriva. Salì il primo rampante della scala, fino all’uscio di donna Rachele, ma mentre stava per picchiare, ricordò di aver lasciato la coperta sopra la vittima, e di nuovo le ritornò in mente il dubbio che il vecchio non fosse morto.
Ridiscese, ma non poté levare subito la coperta; ella aveva paura di vedere il viso della vittima. Qualche cosa però bisognava fare; chiamare, fingere, dire che il vec-chio era morto in seguito ad un accesso.
«Dio mio, Dio mio», mormorò, lisciandosi due volte i capelli con ambe le mani.
E andò a sedersi sul canapè. Il cuore non le batteva più. Ma si sentiva stanca, così che le pareva di non poter più alzarsi e camminare; e avrebbe voluto coricarsi e dormire, poiché tutto era finito, e oramai non le restava che dormire, dormire profondamente.
«Dirò che è morto mentre dormivo. Perché devo svegliarli? C’è tempo… c’è tempo… »
Piegò la testa, chiuse gli occhi: e subito vide il viso del vecchio girare vertiginosamente intorno a lei. Ma subito un passo risonò nel silenzio della notte chiara, sui ciottoli umidi della straducola. Ella provò un nuovo terrore, poiché le parve di riconoscere il passo di Paulu.
Il passo s’avvicinava. Ella balzò in piedi, prese il lume, si curvò sulla lampadina per riaccenderlo e stette ad ascoltare, con crescente terrore. Paulu non poteva essere: in tutti i modi egli sarebbe ritornato a cavallo. Eppure quel passo un po’ indolente sembrava il suo.
La fiammella della lampadina s’allungò, s’indugiò intorno al lucignolo del lume, parve comunicargli un segreto, poi si rimpicciolì, si fece ancor più quieta e timida. E la nuova luce si sparse, giallognola e triste, cercò ogni angolo della camera lugubre, illuminò il mucchio immobile che sorgeva sul letto. Anche la mente di Annesa parve rischiararsi: ella capì ciò che aveva fatto, ed ebbe paura di se stessa.
«Ho ucciso un uomo, io, Annesa, ho ucciso: Dio mio, che ho fatto?»
A misura che il passo s’avvicinava, ella sentiva crescere la sua paura: paura che il vecchio, non ancora morto, dovesse muoversi ed emergere dalla coperta giallastra come da un mucchio di terra; paura del passo che s’avvicinava, paura di muoversi, paura di star lì ferma, vicino alla fiammella della lampadina che pareva la guardasse come un occhio vivo.
Ed ecco, il passo cessò; qualcuno batté alla porta. Neppure per un istante ella dubitò. Chi picchiava era Paulu.


  1. Matteu, ventre di leone/che sembri una balena/di notte [fai] due cene/e una colazione.
  2. Se le montagne fossero di maccheroni/e le valli di formaggio grattugiato...