VII.

Alle tre il morto fu portato via. Annesa rifece il lettuccio, rimise tutto in ordine, e i nonni e donna Rachele scesero e continuarono a ricever la gente nella camera dov’era morto il vecchio.
Dopo i funerali prete Virdis ritornò e sedette accanto a donna Rachele, domandando se Paulu era tornato.
«Questa mattina l’hanno veduto uscire», continuò il grosso prete, che teneva sempre in mano il fazzolettone rosso e turchino. «Errore sopra errore. Sì, cari miei, da ieri ad oggi avete fabbricato un edifizio di errori. Speriamo non crolli.»
«Che vuol dire con queste parole?», domandò don Simone; ma prete Virdis agitò il fazzoletto e tacque. Annesa però notava con inquietudine che egli volgeva vivamente la testa ogni volta che la porta s’apriva. Pareva che egli aspettasse qualcuno, ma quando le persone entravano reclinava la testa e agitava il fazzoletto senza pronunciar parola; e solo verso il tramonto s’alzò e si congedò.
«Devo andare per la benedizione», disse, con voce grave. «Se avete bisogno di me chiamatemi.»
Finalmente la casa restò tranquilla: i due vecchi uscirono nell’orto, donna Rachele poté muoversi. Annesa sedette sullo scalino della porta che dava sull’orto e guardò verso la montagna. Cadeva una sera mite e luminosa. I boschi, immobili e taciti, dal confine dell’orto fino agli estremi vertici della montagna apparivano rosei, come illuminati da un incendio lontano: le fronde rossastre degli ultimi elci si disegnavano nettamente sul cielo grigio-violaceo dell’alto orizzonte. Tutto era pace e silenzio: ma Annesa si sentiva stanca, e benché le sembrasse di sentire ancora, nella camera vicina, l’ansare del vecchio asmatico, provava l’impressione che anni e anni fossero trascorsi dopo il fragoroso temporale della notte avanti. Non poteva convincersi che in un giorno e una notte fossero accadute tante cose. E le pareva di essere invecchiata, e che un peso invisibile le gravasse sulle spalle e la costringesse a curvarsi fino a terra.
«Tutto è finito», pensava. «E ora bisogna andarsene. Se resterò qui, in questa casa, non sarò più capace di ridere, di parlare, di lavorare. Ho liberato gli altri dal tormento del vecchio, ma mi sembra d’avermi caricato un peso sulle spalle. Sì, eccolo qui, sulle mie spalle: è il vecchio, e geme ancora.»
Trasalì e impallidì. Uno sbadiglio nervoso le contrasse il viso.
«Ah, ecco la febbre che ricomincia; già, è calato il sole. Ne avrò per tutta la notte.»
Per qualche tempo rimase immobile sullo scalino della porta, ma invece di riposarsi le pareva di sentirsi sempre più stanca, e come il cielo si oscurava, anche i suoi pensieri si velavano. Guardava verso il punto della montagna dove credeva ci fosse l’ovile di zio Castigu e pensava:
«Paulu sarà già in cammino; scenderà forse a piedi per lasciare il cavallo al pascolo, e arriverà stanco e vorrà cenare. Bisogna muoversi: devo anche andare alla fontana».
Ma una grave stanchezza le impediva di muoversi: di nuovo sbadigliò e rabbrividì dai piedi alla testa:
«Ah! ah!», disse a voce alta. «Ci manca solo questo, che mi ammali», e un pensiero molesto la turbò: «se mi assale il delirio e parlo? Ah, no, labbra mie, tacete! Ora che la terra ha ingoiato il segreto, dovrei svelarlo io?».
Sbadigliò ancora e si portò ambe le mani alla bocca poi si alzò, smaniosa di muoversi, di vincere il maligno sopore che la invadeva: accese il fuoco e preparò la cena; pensò di andare alla fontana e cercò l’anfora, ma mentre attorcigliava un pannolino per farne un cercine provò un capogiro e dovette appoggiarsi al muro per non cadere: con l’ombra della sera tornava la nebbia perfida della febbre. Donna Rachele si accorse che Annesa stava male e le tolse l’anfora di mano.
«Figlia mia, dammi ascolto; va piuttosto a coricarti.»
«Bisogna andare», ella disse con voce velata.
«Bisogna andare a letto, figlia! Non ti accorgi che hai la febbre?»
«Ebbene, vado a prendere Rosa e mi faccio dare un po’ d’acqua da zia Anna: mi lasci andare.»
Prese una piccola brocca e uscì: la sera cadeva, limpida e dolce: sul cielo ancora d’un color rosa azzurrognolo, di là delle casupole nere del villaggio scintillavano le stelle dell’Orsa; i contadini tornavano, sui loro piccoli cavalli stanchi, e attraverso le porticine spalancate si vedevano le donne intente ad accendere il fuoco ed a preparare il pasto pei loro uomini.
Arrivata presso la casetta della cugina di donna Rachele, Annesa che cominciava ad inquietarsi per la prolungata assenza di Paulu, si fermò e stette un momento a guardare se qualche pastore scendeva dal sentiero della montagna. Ma non vide nessuno, ed entrò nel cortiletto aperto, poi nella casetta della zia Anna. Era una casetta di gente povera; nella cucina, di sopra della porta, si stendeva una specie di soppalco, sul quale stavano le provviste della legna, della paglia e dell’orzo.
«Annesa, sei tu? Rosa è andata alla fontana assieme con Ballora, e con le bambine», disse la zia Anna sporgendosi appunto dal soppalco, dove era salita per prendere un po’ di legna. «Aspetta un momento.»
Scese lentamente, per una scaletta a piuoli, mentre Annesa versava, dalla brocca deposta su una pietra, un po’ d’acqua nella sua anforetta.
«Prendo un po’ d’acqua: domani ve la riporterò, zia Anna.»
«Anima mia, con gl’interessi la voglio!», disse l’altra scherzando. «Ballora riporterà Rosa a casa vostra, nel ritornare dalla fonte. Hanno aperto il testamento?», domandò poi. «È vero che lo aveva in consegna prete Virdis? Ah, quel vecchio istrice! Non gli pesino neppure come una foglia di rosa le mie parole, ma egli era ben gretto e diffidente. Oggi s’è sparsa la voce che Paulu l’ha fatto morire a furia di bastonate.»
«Ah», gridò Annesa, ricordando le parole del cieco, «si dice questo?»
«Chiacchiere, anima mia. Ma che hai?»
Annesa tremava di febbre e di paura: pensava però che non doveva tradirsi, e rispose con calma:
«Tutte le sere, da qualche tempo in qua, ho la febbre. Ora vado e mi corico; sono stanca morta, zia Anna; ho la schiena rotta. Addio, parleremo un’altra volta. Lasciatemi andare».
«Verrò da voi più tardi, anima mia», disse la zia Anna, accompagnandola fino al sentiero che attraversava la china rocciosa. «Se incontri Ballora dille che s’affretti; è già tardi.»
Annesa affrettò il passo, con la speranza di trovar Paulu già rientrato; ma a metà strada, in una viuzza solitaria, le parve di sentire la voce di Ballora e il pianto di Rosa. Si mise a correre e in fondo alla viuzza incontrò infatti la nipote della zia Anna che a sua volta correva, con Rosa fra le braccia, e seguita da altre due bambine spaurite.
«Rosa, Rosa!», gridò Annesa, deponendo per terra l’anforetta e slanciandosi incontro a Ballora. «Che c’è? Che c’è?»
Rosa le si aggrappò al collo, le abbandonò la grave testa sulle spalle: tutto il suo corpicino tremava convulso.
«Torna indietro», disse la fanciulla con voce ansante. «I carabinieri ti cercano: sono lì in casa vostra, e arrestano tutti. Tutti, anche zia Rachele…»
«Anche zia Rachele…», balbettò Annesa, senza sapere quello che diceva, mentre Ballora e le bimbe correvano colte da timor panico, quasi fuggendo da un luogo pericoloso. Ella le seguiva e domandava con voce ansante:
«Come? Come?».
«Non so… Noi siamo arrivate davanti alla vostra porta: volevamo riportare Rosa. Ma davanti alla vostra casa c’era gente, molta gente e una donna mi disse: ci sono i carabinieri: arrestano tutti… tutti… e cercano Annesa. Allora io deposi la brocca per terra, presi Rosa e scappai. Bisogna avvertire zia Anna. E tu nasconditi, Annesa, nasconditi, nasconditi.»
Ella non pensava ad altro: nel suo terrore, vinta dal solo istinto della conservazione, pensava che ella sola, colpevole, era in pericolo. Gli altri erano innocenti: non avevano nulla da temere. Non pronunziò più una parola, non le venne in mente di tornare indietro e di accertarsi se Ballora s’era o no ingannata o se non avesse esagerato il pericolo. L’istinto la spingeva, la costringeva a correre, a salvarsi.
Anche Ballora e le bimbe proseguivano la loro corsa sfrenata: pareva fossero inseguite tutte dai carabinieri. Alcune donne s’affacciarono alle porticine delle casupole, e una disse:
«Sono ragazze che si divertono a rincorrersi».
E le fuggitive poterono arrivare indisturbate davanti alla casetta di zia Anna. La cucina ove entrarono una dopo l’altra, era deserta: Annesa pensava di nascondersi nel soppalco, ma Ballora le disse:
«Non restare qui, Annesa, non restare. Prima d’ogni altro posto, verranno a cercarti qui. Nasconditi altrove».
«Dove? Dove?», ella domandò, guardandosi attorno disperata.
«Vattene, Annesa», incalzò l’altra, «vattene: mi pare che vengano.»
Allora Annesa, cieca di paura e di egoismo, non cercò di sapere altri particolari, non vide più nulla: si liberò violentemente di Rosa, se la strappò dal collo, dalle braccia, come una fronda di rovo che non volesse staccarsi; e si slanciò fuori e riprese la sua corsa. Fortunatamente il luogo era deserto: nessuno la vide, o meglio ella non vide nessuno, e poté rifugiarsi nel cortile della chiesa e di là, su per la scaletta di pietra, salì al primitivo belvedere dove nei giorni della festa i priori si riunivano per prendere il fresco e giocare alle carte. Era una specie di loggia a tre arcate, coperta di un tetto di canne, e circondata di un parapetto di pietre. Ella s’inginocchiò davanti al parapetto e sporse appena il viso fra due pietre: sul suo capo, nello sfondo della rozza arcata, brillavano le stelle; tutto era silenzio, pace, ombra.
Il cuore le batteva convulso, la febbre aumentava il suo terrore. Le pareva che fantasmi mostruosi l’inseguissero, per afferrarla e gettarla in un luogo più misterioso e spaventoso di quell’inferno al quale non credeva. Il caos era intorno a lei: un’ombra, una nebbia, una notte tormentosa, senza fine.

Fu davvero una notte tormentosa, più terribile ancora della notte scorsa. Dal suo nascondiglio ella poteva vedere la spianata, la china rocciosa e la casa della zia Anna. A lungo un lumicino brillò nella casetta; ella vedeva delle ombre muoversi, e le pareva di sentire il pianto di Rosa e rumori vaghi, indistinti: ma poi tutto fu silenzio. Un uomo a cavallo attraversò la spianata: il cielo ad oriente s’imbiancò. Alquanto rassicurata ella si alzò, si scosse, ragionò.
Dov’era Paulu? Era tornato? Era stato anche lui arrestato? E gli altri? Se Ballora si fosse ingannata?
«È tutto un sogno», pensò. «Ballora deve essersi ingannata. No, non si arresta così la gente, all’improvviso, in un momento. Io deliro: è la febbre che mi tormenta.»
Ma poi ricordò che anche la notte prima aveva creduto di sognare, mentre tutto era stato una tragica realtà.
«Io, io sono la causa di tutto, io maledetta! Che devo fare adesso? Perché sono fuggita? Di che cosa ho paura? La reclusione mi aspetta: lo sapevo anche prima di fare quello che ho fatto. Perché fuggo, ora? Dio mio, Dio mio, tutto è perduto.»
Sedette sul primo gradino della scaletta, e cercò di esaminare meglio la sua situazione: a poco a poco il suo terrore e il suo dolore diminuirono, e un barlume di luce brillò nella sua anima tenebrosa. Ella tornò ad essere ciò che era stata sempre: l’edera che non poteva vivere senza il tronco.
«Bisogna salvarli», decise, alzandosi e ridiscendendo nel cortile. «Andrò a costituirmi, e se occorre dirò tutto.»
Ritornò verso la casetta di zia Anna: non aveva più paura, potevano ben prenderla, legarla, gettarla pure in un luogo di dolore eterno, ella non avrebbe detto parola se non in favore dei suoi «benefattori».
Picchiò. Zia Anna aprì subito.
«Sei tu?», disse sollevando le mani, spaventata. «Che vieni a fare? Ti cercano, sai: hanno guardato in tutte le case del vostro vicinato e aspetto che da un momento all’altro vengano qui. Non sono andata a letto perché son certa che verranno.»
«Ma è vero, dunque?», domandò Annesa con voce sorda. «E Paulu?»
«Paulu non è tornato; almeno non era tornato, poco fa. Gli altri son tutti arrestati, tutti, anche Rachele.»
«Anche lei?», disse Annesa. E si gettò per terra come fulminata.
Credendola svenuta la donna si chinò per sollevarla; ma ella la respinse, s’alzò, si batté un pugno sulla bocca, quasi per impedirsi di parlare. E volse le spalle, per andarsene.
«Senti, figlia mia, dove andrai?», gridò la donna.
«Dove volete che vada? Torno a casa: chi c’è, là?»
«C’è un carabiniere che aspetta il ritorno di Paulu. Ma Paulu certo non tornerà: certo ci sarà stata qualche anima buona che sarà corsa ad avvertirlo. Ascoltami, Annesa: vedo la tua intenzione. Tu vuoi farti arrestare. Guardatene bene, se sai qualche cosa: sei una donna, sei fragile, finiranno col farti parlare.»
«Ma voi… anche voi credete?…»
«Io non so niente! Tutto il paese dice che Paulu ha bastonato il vecchio sino a farlo morire, e che tu e tutti voi siete complici. Se questo non è vero, perché vuoi farti arrestare? Nasconditi, se sai qualche posto sicuro. Vedrai che è cosa da niente: domani forse tutto si accomoderà.»
«Appunto. Voglio costituirmi per questo. Dove volete che vada, zia Anna? Non sono un uomo, per correre fra i boschi. Anzi, giacché devono venire, lasciate che li aspetti qui. No, non verrò dentro, non voglio che le bambine si spaventino. Li aspetterò qui.»
Sedette sul muricciuolo del cortile. Intorno regnava sempre il profondo silenzio della notte pura: la luna grande e gialla spuntava sopra la montagna e il suo albore melanconico illuminava la spianata e le casette addossate alla chiesa. Zia Anna le si avvicinò e le mise una mano sul capo.
«Sentimi», le disse sottovoce. «Io conosco Paulu più di quanto tu possa conoscerlo, Annesa; e so quanto egli vale. Egli è stato la rovina della sua famiglia. Ascoltami, anima mia. Se la giustizia s’è mossa, qualche cosa deve essere accaduto.»
Annesa cominciò con impeto:
«State zitta…», ma poi scosse la testa e non proseguì. A che serviva? No, ella non voleva pronunziare parole inutili; voleva solo operare, salvare i suoi «benefattori».
Zia Anna le premé la mano sul capo e continuò grave e misteriosa:
«Sentimi: tu devi sapere quello che è accaduto, e la giustizia ti cerca appunto perché spera che tu parli. Guardati bene dal lasciarti prendere, ti ripeto, se tu vuoi bene a Paulu. Tu lo sai, egli è per te un fratello: non perderlo, non parlare. Forse tutto si accomoderà: ma bisogna che tutti stiate zitti e silenziosi come le pietre».
«Se occorrerà dirò che la colpevole sono io, io sola», disse Annesa con voce timida. Ma zia Anna le mise la mano sulla bocca.
«Vedi? Vedi? Tu chiacchieri già! Zitta, figlia, zitta come la chiocciola. Tu non devi parlare, non devi accusare nessuno, non devi accusarti. Non ti crederebbero, anche se tu ti accusassi; e ti costringerebbero a dire ciò che davvero hai veduto. E li perderai, figlia, li perderai!»
«Ah, no, no, non ditelo neppure», ella supplicò, giungendo le mani. «Non fatemi impazzire.»
«Silenzio!», disse la donna, sollevando la testa. Annesa tacque, ascoltando: sentì passi gravi e rumorosi nella viuzza, di là della spianata e, benché pronta a tutto, vibrò di spavento e balzò in piedi. Ma i passi cessarono: di nuovo tutto fu silenzio sotto il grande occhio giallo della luna.
«Voi credete dunque che Paulu sia rimasto lassù?», domandò, guardando verso la montagna.
«Io credo. Fin da stamattina si vociferava che il vecchio fosse morto in seguito a maltrattamenti di Paulu, e che questi verrebbe arrestato prima di sera. Qualche amico, qualche anima buona avrà cercato di informare Paulu, e in seguito a quest’avvertenza egli non si sarà mosso dall’ovile di ziu Castigu. Non ti pare?»
«Lo credo, lo credo!», esclamò Annesa con fervore. «E s’egli è libero tutto si accomoderà.»
«S’io potessi vederlo», pensò, «se io potessi parlare con lui.»
Che cosa gli avrebbe detto? Non la verità, certo. Ma il desiderio, il bisogno di vederlo, di raccontargli ciò ch’era successo, di combinare con lui il miglior modo di difendersi per salvarsi, la spinsero verso il sentiero della montagna.
S’avviò, come una sonnambula, senza dire a zia Anna dove andava.
«Dove vai? Dove vai, Annesa?»
Ella non rispose: ricordava le parole del cieco, il contegno di prete Virdis, lo sguardo beffardo dei fratelli Pira. Sì, certo, fin dalla mattina, la gente sapeva che una calunnia infame correva sul conto di Paulu: e qualche anima buona, come diceva zia Anna, forse lo stesso Niculinu, aveva mandato ad avvertire il vedovo.
Lassù, fra le rocce e i boschi millenari s’aprivano grotte e nascondigli inaccessibili a tutti, fuorché ai pastori che ne conoscevano i laberinti. Ziu Castigu, poi, era tanto pratico di quei luoghi, che egli stesso qualche volta si vantava d’essere il re delle grotte (su re de sas concheddas). Senza dubbio Paulu, poiché non era tornato in paese, s’indugiava lassù, in attesa che la calunnia, messa in giro dagli amici del morto, venisse smentita.
Ripassando dietro la chiesetta, dove cominciava il sentiero della montagna, Annesa si fermò ancora ad ascoltare e a guardare verso il villaggio. Le pareva d’essere inseguita ma non sentì nulla, non vide nessuno. La luna, limpidissima, illuminava le casette nere e grigie che parevano fatte di carbone e di cenere: il vasto orizzonte, tutto d’un azzurro latteo, sembrava uno sfondo di mare lontano. Le ombre delle roccie e dei cespugli si disegnavano sui terreno giallognolo, tutto appariva dolce e misterioso. Ella si rassicurò.
Le parve che la notte, la luna, le ombre, il silenzio le fossero amici: tutte le cose tristi ed equivoche oramai le davano coraggio, perché tutto era triste ed equivoco nella sua anima. Cammina, cammina; cominciò la salita dipartendosi dal punto preciso dove era morto il mendicante suo primo compagno di viaggio, che l’aveva condotta là, in quell’angolo di mondo, come il vento porta il seme sull’orlo dell’abisso: la fatalità continuava ad incalzarla, un vento di morte la spingeva. Avanti, avanti: ella andava e non sapeva dove sarebbe arrivata, come non sapeva donde era venuta.
Su, su, di pietra in pietra, di macchia in macchia. Qua e là brillavano, tristi e glauche fra i giunchi neri, larghe e rotonde chiazze d’acqua che parevano gli occhi melanconici della montagna non ancora addormentata. D’un tratto il sentiero s’insinuò tra le felci e i rovi che coprivano i fianchi del monte, poi fra macchie di ginepro, poi nel bosco e fra le roccie. La luna penetrava qua e là fra gli alberi altissimi; ma spesso le roccie la nascondevano, e l’ombra s’addensava sul sentiero. Fantasmi mostruosi sbarravano allora lo sfondo della strada: in lontananza apparivano edifizi neri misteriosi; muraglie fantastiche sorgevano di qua e di là del sentiero; le macchie sembravano bestie accovacciate, e dai rami degli elci si protendevano braccia nere, teste di serpenti: tutto un mondo di sogno, ove le cose incolori e informi destavano paura per la loro stessa immobilità.
Annesa camminava, e le pareva di essere passata altre volte attraverso quelle tenebre, in mezzo a quei fantasmi e di conoscerli, e di non aver più timore dei pericoli ignoti che la precedevano e la seguivano: eppure di tanto in tanto bastava il fruscìo dei suoi passi sulle foglie secche per farla trasalire.
A metà strada, sull’alto di una china apparve una figura strana, che si muoveva davvero: sembrava una figurina umana, ma con una enorme testa di Medusa, nera nel chiarore lunare. Annesa si gettò dietro una roccia: e vide passare e sparire, a lunghi passi silenziosi, una ragazzetta scalza con un fascio di legna sul capo. Era una bimba che viveva vendendo legna rubate: i suoi piedini coperti di una crosta di fango sembravano calzati di leggeri sandali adatti alla fuga. Annesa riprese la strada. E su, e su. Un’altra figura apparve, nera sulle bianche lontananze di un pianoro; un centauro che fischiava e galoppava verso le vaporosità dell’orizzonte. Poi più nulla: il mare apparve, come una nuvola d’argento azzurrognolo, sull’ultima linea del cielo lattiginoso: e la chiesetta nera si disegnò, alla destra del sentiero, sulla china petrosa. S’udiva il tintinnio monotono e argentino dei sonagli d’un gregge al pascolo. Dovevano essere le pecore di ziu Castigu. Guidata dal tintinnio melanconico, Annesa attraversò il pianoro sottostante alla china, e giunse fino alla capanna del vecchio pastore. Non trovò nessuno; ma il cane cominciò ad abbaiare, e ziu Castigu non tardò ad apparire, avanzandosi rapidamente dal bosco.
«Annesa, che c’è! Sei tu, anima mia?», gridò con voce spaventata. «Che è accaduto?»
«Dov’è?», ella domandò con voce bassa e anelante. «Dov’è?»
Il pastore la guardò da vicino: gli parve che ella fosse invecchiata e impazzita.
«Chi?», domandò.
«Chi? Paulu!», ella disse quasi con dispetto.
«Paulu! E chi lo ha veduto?»
Sulle prime ella credette che il vecchio mentisse.
«Ditemi dov’è! A me potete dirlo, credo! Son venuta per lui: devo parlare con lui.»
«Ma che è accaduto, Anna? Ti giuro che non ho veduto don Paulu.»
Allora Annesa vacillò, parve impazzire davvero.
«Dove sarà? Ma dove?», gridò: e pareva rivolgesse la sua domanda al cielo, alla notte, al destino fatale che la spingeva, sempre ingannandola e prendendosi crudele giuoco di lei.
«Ma che cosa accade, Annesa?»
«Ah, che disgrazia! Io credevo che Paulu fosse qui… nascosto. Lo cercano, ziu Castigu mio, lo cercano! Cercano anche me. Hanno arrestato don Simone, zio Cosimu Damianu, donna Rachele: e devono arrestare anche Paulu, anche me. Ci accusano di aver assassinato zio Zua. Dov’è Paulu, dov’è?»
Anche il vecchio impallidì e si turbò.
«Mio nipote Ballore venuto qui stamattina, mi raccontò che don Paulu s’era ripreso il cavallo dicendo che doveva andare in campagna. Io non l’ho veduto, purtroppo», disse. «Raccontami tutto: mi pare di sognare. È mai possibile ciò che tu dici? Non sei… malata?»
«No, non sono pazza, zio Castigu. Vorrei esserlo, ma non lo sono», ella disse con disperazione. E raccontò ciò che sapeva dell’arresto dei suoi «benefattori».
«Anche donna Rachele! Anche don Simone! Ma in che mondo siamo? Ma è impazzita la giustizia? E tu, Annesa, tu non sai altro?»
Ella protestò: non sapeva altro. Ma d’un tratto fu riassalita dalla paura; pensò che ella sola era veramente in pericolo, mentre gli altri, innocenti, avrebbero trovato modo di salvarsi; e si aggrappò al vecchio, e gli disse con voce sommessa:
«Cuademi! Cuademi! per l’anima dei vostri morti, nascondetemi! Dove sono le grotte? Portatemi là. Bisogna che io stia nascosta, bisogna che nessuno senta la mia voce finché loro non sono salvi…».
Gli strinse le braccia, poi si gettò per terra, gli abbracciò le ginocchia, si raggomitolò: pareva gli si volesse nascondere sotto i piedi. Egli la guardò, dall’alto, e un pensiero gli balenò in mente, luminoso e tetro come un lampo.
«Sì, ti nasconderò. Tu sai, però… Hai fatto o hai veduto», disse severo.
«Non so niente: non ho veduto niente. Nascondetemi. Tutti mi hanno consigliato di non lasciarmi arrestare. Nascondetemi, nascondetemi, ziu Castigu!»
«Tutti…», egli insisté. «Chi, tutti?»
«Tutti, tutti, ziu Castigu mio! Ed anche voi non permetterete… no… no… nascondetemi.»
«Ora ti metto subito dentro la mia tasca!», egli disse con impazienza, toccandole una spalla.
Ella tremò tutta. Il vecchio sentì dentro di sé come la ripercussione di quel fremito, e di nuovo intese la verità. Ma più che orrore sentì una profonda tristezza: e la sua anima semplice e timida d’uomo solitario diventò pietosa ed eroica davanti al dolore della donna piegata ai suoi piedi come un agnello ferito.
«Alzati e vieni con me», disse semplicemente. «Se non sei colpevole non devi temere.»
Ella si alzò, si guardò attorno, e sentì il bisogno di domandargli consiglio: un cuore pietoso, in quell’ora di miseria, valeva più che tutti gli avvocati del mondo.
«Ziu Castigu, ditemi voi, che cosa devo fare?»
«Tacere, figlia», egli rispose portandosi una mano alla bocca. «Tacere, per il momento. Ora ti nasconderò, secondo il tuo desiderio. E tu resterai là dove ti condurrò, e starai zitta come le roccie, finché non tornerò io. Ti metterò fra due pietre», aggiunse, avviandosi verso la capanna, «ti nasconderò in modo che anche se ti cercheranno come si può cercare una spilla nel mare non ti troveranno certo. Ti porterò da mangiare e da bere: farò il corvo che portava il pane ad Elia.»
Entrò nella capanna e prese un vaso di sughero e un pane d’orzo, poi s’avviò nuovamente verso il bosco. Ella lo seguì: ricordava di aver percorso altra volta quella radura senz’alberi, coperta di cardi secchi e di fieno, di aver veduto altra volta quella linea di bosco che stendeva una nuvola nera sul cielo d’argento.
La luna brillava limpidissima; ma in lontananza cominciavano a salire larghi nastri di vapori luminosi, e quando i due giunsero di là della radura videro, attraverso i tronchi, un mare di nebbia argentea, dal quale emergeva, come uno scoglio azzurro, la piramide di Monte Gonare. Ella trasalì. Sì, era la stessa strada percorsa con Paulu quel giorno, il primo del loro amore.
«Noi eravamo in peccato mortale: Dio grava la sua mano sopra di noi e ci castiga», pensò, chinando la testa.
Quando furono sotto la tomba del gigante, grande e misteriosa nel silenzio lunare, ziu Castigu prese a salire di pietra in pietra, tirandosi dietro la donna cieca di dolore e di lagrime.
«Perché piangi ancora? Non aver paura, ti dico: vedrai. Cammina piano, bada di non cadere. Gli occhi ce li hai, eh? E buoni, anche.»
Ella sentiva le pietre oscillare sotto i suoi piedi, come allora, e le pareva di dover di momento in momento precipitare in un abisso. Sfiorarono infatti un precipizio: salirono fino alla pietra che sembrava una bara; ridiscesero l’altro versante della cima, e s’inoltrarono fra due muraglie di rupi. La luna allo zenit illuminava lo stretto passaggio; tuttavia il pastore procedeva cauto, sfiorando le muraglie. D’improvviso le rupi s’aprirono; apparve tutto l’altro versante della montagna, e valli e valli e altre montagne e altre montagne ancora: ombre e vapori, e il chiarore della luna rendevano più fantastico il panorama. Annesa s’asciugò gli occhi e guardò dall’alto: zio Castigu saltò sulla roccia sottostante e l’aiutò a scendere. Di nuovo passarono lungo una specie di gradino sospeso su un precipizio, e finalmente si fermarono davanti all’apertura bassa e larga d’una grotta.
«Qui, vedi, dopo che tu sei entrata, io metterò una pietra e un po’ di fronde», disse il pastore. «Nessuno potrà scovarti.»
«Ho paura», disse Annesa.
«Di che hai paura? Solo il diavolo potrebbe scovarti. Andiamo.»
Si chinò e sparve. Annesa, a sua volta, si mise carponi, e il pastore, dall’interno, la prese per le braccia e la tirò dentro.
Ella vide allora non un antro basso e tenebroso come di solito sono le grotte delle montagne, ma una specie di camera formata da roccie mirabilmente collocate. Oltre il buco d’entrata uno spiraglio abbastanza largo per lasciar passare una testa d’uomo, s’apriva fra due macigni; e Annesa vi s’affacciò diffidente. Sotto di sé vide una cascata spaventosa di roccie, precipitante fin quasi in fondo alla valle: qua e là, fra i crepacci delle rupi livide alla luna, nereggiavano ciuffi d’elci e cespugli che parevano chiome selvaggie di mostri pietrificati. Un chiarore vago penetrava dall’apertura; tuttavia zio Castigu accese un fiammifero, lo sollevò, lo abbassò; allora Annesa distinse, in fondo alla grotta, un avanzo di cenere, e accanto a questo segno di passaggio umano una pietra addossata alla roccia. Altre creature erano dunque passate in quel luogo di mistero, portandovi e lasciandovi qualche cosa del loro dolore e della loro paura. Ed ella sedette sulla pietra, come su un trono di espiazione, e quando il pastore se ne fu andato, le parve di non restare completamente sola, poiché col piede sfiorava l’avanzo d’un fuoco che aveva illuminato un dolore o un errore simile al suo.

Le ore passarono. Ella pensava:
«Sì, sì, non sono io sola colpevole. Quanti altri, uomini e donne, hanno peccato, hanno commesso delitti, hanno fatto del male. E non tutti sono castigati come lo sono e lo sarò io. Perché questa sorte a me, perché questa sorte?».
Ma era già quasi rassegnata: sapeva ciò che doveva fare. Aspettare: null’altro. Zio Castigu le darebbe un consiglio. E se occorreva presentarsi alla giustizia, ella si sarebbe presentata. E poi? Non poteva più pensare al poi; era stanca, il sonno la vinceva; ma le pareva di non poter dormire, su quella pietra, dentro quel nascondiglio dove altri assassini, altri malfattori avevano portato la loro ansia, il loro anelito di belve sanguinarie inseguite da cacciatori implacabili.
«Come posso dormire, qui, mentre i miei benefattori sono anch’essi rinchiusi in una tana peggiore di questa?», pensava, e dimenticava subito questa domanda, e le pareva che la pietra si movesse, l’apertura si spalancasse, e una figura barbuta apparisse dietro la roccia.
Allora cercava di muoversi, ma non poteva; poi dimenticava tutto, rivedeva la nebbia argentea, in fondo al bosco, la piramide di Gonare, la tomba del gigante.
Così le parve di non dormire; ma d’un tratto, dopo aver veduto mille cose strane e aver viaggiato e corso affannosamente su per montagne paurose, spalancò gli occhi e rabbrividì.
L’alba violacea rischiarava il nascondiglio. Ella si alzò e guardò dall’apertura. Silenzio profondo. Il cielo era velato: larghe striscie di nebbia bianca che parevano fiumi, solcavano qua e là le valli e i monti.
Dalla profondità del burrone salì uno strido lamentoso: ella si ritrasse, sedette di nuovo, pietra fra le pietre, e attese: e come nel sogno aveva creduto di muoversi e di vedere cose reali per quanto spaventose, ora, nella realtà, credeva di sognare.
Immagini vaghe e confuse le passavano davanti agli occhi smarriti: in un profilo della roccia dell’apertura le pareva di riconoscere il profilo grigiastro della sua vittima. Il vecchio era vivo ancora, ancora sano, e stava seduto di fuori della porta di casa, assieme con don Simone e con zio Cosimu: e con la sua voce dispettosa raccontava le sue avventure di guerra.
«Ecco, ad un tratto, un tamburo rullò; poi un altro, poi mille… parve il finimondo, il giorno del giudizio universale, quando Gesù Cristo scenderà a piedi in terra e le montagne si spaccheranno. Tutti furono in piedi, come anime pronte al giudizio…»
Annesa, seduta sul limitare della porta, ascoltava e provava un vago sentimento di terrore. Ella non credeva in Dio, non credeva nel giudizio universale: ma le parole del vecchio la spaventavano.
Finalmente ziu Castigu ritornò.
«Ehi, bandita», disse scherzando, mentre penetrava carponi nello speco, e spingeva avanti a sé un recipiente chiuso, «ecco i soldati!»
«Zio mio», supplicò Annesa, premendosi le mani sul petto, «non parlate così; non è tempo di scherzare. Ditemi, ditemi…»
Egli si sollevò e le porse il recipiente che era colmo di latte coagulato.
«Ditemi… ditemi…»
«Don Paulu non è stato ancora arrestato, ma lo cercano da per tutto. Cercano anche te; hanno perquisito tutte le case del vicinato, la casa di zia Anna, la casa di prete Virdis, la casa di Franchisca Perra.»
Annesa ascoltava, con gli occhi spalancati, come svegliata di soprassalto da un sonno profondo.
«Dove sarà Paulu? Dove credete che sia?»
«Eh, colomba, l’ho dentro la mia saccoccia», disse il pastore, mettendosi una mano in tasca. «Che posso saper io? Bevi un po’ di latte. Mangia questo pezzo di pane.»
«Raccontatemi», ella insisté. «Siete stato laggiù?»
«Sono stato laggiù: ho parlato con prete Virdis. Egli crede che non risulterà nulla, poiché vi ritiene innocenti tutti. Oggi arriveranno due medici da Nuoro, per la perizia medica del cadavere. Se niente è accaduto niente risulterà. Fra qualche ora verrà su mio nipote Ballore che mi porterà notizie. Tornerò.»
Ella mise il latte e il pane sulla roccia e non mangiò.
Con le mani in grembo, gli occhi fissi in lontananza, stette di nuovo immobile, ma non sognò più.
«Se niente è accaduto niente risulterà.»
Potevano ben sperare, gli altri: ella non sperava più.
«Essi mi cercano, mi cercano», pensava, con raccapriccio quasi fisico, «e finiranno per trovarmi, qui od altrove. È forse meglio che io vada. Che aspetto? <I>Egli</I>, il vecchio, egli oramai parlerà: dirà il segreto ai medici sapienti. Lo hanno dissotterrato per questo. Egli parlerà, egli parlerà.»
E sentiva di odiarlo ancora.
«Mi cercano, mi cercano. Mi hanno cercato anche là, dalla vecchia zia Franchisca. Povera vecchia, che penserà di me?»
Rivedeva allora la figura d’una vecchia inferma, alla quale spesso ella portava da mangiare e ripuliva la stamberga miserabile. Era una vecchia buona e paziente, quanto l’asmatico era dispettoso e cattivo; ogni volta che Annesa le portava da mangiare, le baciava la mano e piangeva di riconoscenza.
«S’egli fosse stato così!», pensava la disgraziata. «E ora che dirà zia Franchisca? Ella piangerà d’orrore ricordandosi d’aver baciato la mia mano.»

Più tardi, arsa dalla sete, bevette un po’ di latte, e incoraggiata dal silenzio profondo del luogo sporse la testa fuori dell’apertura e guardò a lungo sul precipizio. Era un giorno velato e caldo: le montagne calcaree della costa sembravano vicine; nella grande vallata si distingueva nettamente ogni strada, ogni macchia, ogni filo d’acqua, ma sul versante della montagna ondulavano ombre e vapori, simili a grandi veli distesi sulle roccie; lo strido lamentoso che ella aveva sentito fin dall’alba saliva più acuto e distinto, e pareva un sibilo umano.
Ed ella cominciava a crederlo veramente il grido di qualche pastore, quando distinse due nibbi che avevano fatto il nido fra le roccie. I due uccelli si inseguivano volando d’albero in albero, giù in fondo al burrone; ma d’un tratto il nibbio maschio volò in alto, fece come un giro di esplorazione, ripiombò giù e riprese a svolazzare intorno alla compagna che lo richiamava col suo strido lamentoso, d’una tenerezza selvaggia.
Poi i due uccelli in amore salirono fino all’elce vicino allo speco; e il loro strido di piacere parve animare tutta la solitudine del grande paesaggio austero.
E Annesa ripensò al suo amante, nascosto come lei in luogo ignoto, e sentì tutta l’angoscia del bene perduto.
«Mi condanneranno, mi porteranno lontano lontano, in una reclusione oscura.»
Là ella avrebbe ricordato il suo Paulu come gli angeli maledetti ricordano il Signore. E più nulla, più nulla di lui ella avrebbe posseduto; forse neppure il pensiero, perché egli non poteva certo pensare a lei, assassina.
«Perché ho fatto questo?», si domandò cadendo in ginocchio. «Dio disse: non ammazzare, non fornicare… Io ho chiuso gli occhi alla luce di Dio, e sono caduta come cadono tutti coloro che non guardano dove passano.»
E di nuovo pianse e batté la fronte sulla roccia; ma già una luce vaga la richiamava verso un punto lontano e la guidava come la luce del faro richiama e guida il navigante attraverso le tenebre e l’ira feroce del mare in tempesta.