CAPITOLO V.

Confronto fra tre tribuni. — Cause del loro trionfo. Il tribunato storico.

Certo potrebbe parere un insulto ad una memoria sacra a tutti gli Italiani il porre a confronto questi due ultimi pseudo-tribuni, alle cui buone intenzioni non corrispondono certo l’opere nè l’altezza della mente, con quel grande che per qualche mese trasformava i destini di Roma, e concepiva piani politici superiori a quelli di tutti i suoi contemporanei, Dante compreso, e quali s’avverarono solo ai nostri giorni.

Ma, come pel medico ostetrico non vi sono regine ma femmine, e come pel buon prete non vi sono che anime, così per l’alienista non esiste un patriziato psichiatrico: ed anche i pazzi di genio, e, quindi, assai spesso gli eroi, s’accomunano per lui al volgare demente; ed è anzi grazie a questa indipendenza dai comuni giudizi ispiratagli dagli studi sereni che e’ potè rapire il segreto della natura del genio, segreto che sfuggiva ai più acuti pensatori.

Ora appunto questi tre uomini comparsi nelle stesse regioni in epoche differenti ed in sì differenti condizioni politiche, ma sempre di dominio popolare, ci riescono preziosi come la dimostrazione di quei due tipi psichiatrici così diversi che sono il mattoide ed il monomane di genio.

In quest’ultimo, di cui Cola offre un esemplare stupendo, è di tanto più grande ed originale il concetto teorico, quarto più è scarso ed incompleto il modo di eseguirlo.

«Osserviamo (ripete Maudsley) come costoro sono atti a scoprire le vie recondite del pensiero state neglette da ingegni più gagliardi, e così proiettano una luce nuova sulle cose. Essi battono vie intentate nell’esaminare le cose, e nell’operare si staccano dall’andazzo comune. È singolare l’indipendenza con cui taluno di essi discute, quasi fossero semplici problemi di meccanica, argomenti ed avvenimenti che il comune pensiero copre di un ossequio convenzionale; quindi nelle credenze sono in genere eretici, (e Cola per poco non lo fu); spessissimo incostanti, perchè facili a sbalzare da un estremo all’altro, (Cola da antipapista divenne ufficiale del Papa); ovvero, confortati da una fede profonda nell’opinione che hanno sposata, spiegano uno zelo ardente, incurante di ogni ostacolo, e prevedendo di lunga mano gli eventi, si slanciano senza pensare a se stessi contro alle avversità del presente, operando come quegli insetti che col volare da un fiore all’altro trasportano un polline, a cui occorrerebbero molti turbini o molto tempo per riescire fecondo».

E Cola trovò favorevoli all’ardita sua impresa, (chi pensi all’indole di quei tempi trova favoloso che un figlio di taverniere, notaio per giunta, non prete, non guerriero, potesse imporsi ai patrizi ed al clero, e parlare a tu per tu, fosse pure per poco, coi potentati), le tristissime condizioni di Roma — che avrebbero fatto tollerare e desiderare qualunque mutazione.

Ma la mancanza di tatto, la incapacità pratica fecero abortire ogni piano a Cola di Rienzo, quasi sul nascere, e lo fecero odiare in pochi mesi da coloro che aveva tanto beneficato, e impastoiarsi in contraddizioni cui forse avrebbe evitato l’uomo più volgare.

Il nuovo sedicente tribuno Romano, invece, all’audacia e alla fanatica convinzione del proprio valore, ch’ebbe pure Cola, spinto fino a credersi inviato da Dio, sa unire tal finezza, tale abilità dei tratti sociali, da farsi quasi perdonare, e spesso non lasciar avvertire ai più tutta la povertà dei suoi concetti.

Non che egli proprio ne manchi, ed ancora meno ne manca il suo collega nel tribunato moderno: al contrario; i concetti pullulano in tutti costoro, ma incompleti, smozzati, in uno stato embrionale; sono come i feti immaturi, prima morti che nati, sicchè la loro inutilità non trova riscontro che nella loro frequenza ed abbondanza.

«In quei cervelli vi ha (dice Daudet), come nei mercati di bric-à-brac, un po’ di tutto, senza trovarvici nulla, causa la polvere, il disordine degli oggetti rotti, incompleti, incapaci al servizio (Jack, v. 11).

Razza vegetante, embrionale, incompleta, assai simile ai prodotti dei fondi marini che hanno tutto dei fiori tranne il profumo, tutto degli animali salvo il moto: e’ sono filosofi sordo-muti che solo espongono a gesti le loro idee.

Ma l’arte è una sì gran maga; essa crea un sole che brilla per tutti come un vero sole; e quelli che vi si accostano, anche i men degni, anche i grotteschi, riportano seco qualche po’ del suo calore e della sua luce.

Questo fuoco rapito imprudentemente dal cielo, che i mattoidi serban riposto nella loro pupilla, li rende spesso pericolosi, più spesso ridicoli; ma la loro esistenza ne acquista una serenità grandiosa, uno sprezzo del male, una grazia a soffrirlo, che le altre miserie non conoscono, e che li fa ammirare dai più.

La chimera dall’ali dorate loro illumina e riscalda la via.

Si direbbero pellegrini d’Oriente in marcia verso una Mecca incognita che sfugge loro dietro l’orizzonte.

Nulla li scoraggia, nè la malattia, nè la disillusione, nè il freddo, nè il caldo, nè la fame: ci s’affrettano e non giungono mai».

Ma, intanto, codeste mirabili parvenze del genio bastano ad illudere le menti volgari. Ed ecco lì una causa speciale dei rinnovati trionfi del tribuno Romano, anche in confronto del Savonese, a malgrado, in grazia anzi, della sua inferiorità.

E non è la sola.

2. Quando i mediocri, i meno che mediocri preponderano, è naturale che possa destare fanatismo nei volghi chi ha le apparenze dell’uomo superiore.

3. Quando il coraggio delle opinioni va scemando di guisa che molti si fan timidi nel manifestarle, o le mutano ad ogni cadere di foglia secondo il proprio interesse, è naturale che possa riescire simpatico chi ha manifestato, in mezzo ai deboli, una grande audacia ed energia.

4. Anche gli uomini assennati furono grati a Coccapieller di un’opera a cui nessun altro si sarebbe sobbarcato, e favorirono, col non frenarli a tempo, gli istinti popolari; nè giurerei che non avessero parte in ciò anche uomini del nostro Governo, e i seguaci di quell’altro cui egli prestò l’opera sua per tanti anni, forse per gratitudine, ma più allo scopo di spargere il disprezzo, la nota ironica, sulle odiate nostre istituzioni, servendosi, come fu sempre suo costume, delle passioni popolari per vendicarsi di queste.

5. L’uno, solo e quasi inerme, fu minacciato nella vita da più uomini armati: si difese, e fu poscia, nè pare sempre giustamente, messo in prigione; e quindi al prestigio della forza s’aggiunse l’aureola del martirio.

Liberato grazie al voto popolare, potendo, come tanti altri, godersi l’impunità di nuovi reati sotto la corazza del deputato, se ne spogliò. — Fu in carcere di nuovo, e vi stette non poco. — Ora alcuni di quei reati non parvero a’ suoi partigiani corrispondenti alla gravità della pena, tanto più dopo che alcune accuse, tenute per calunniose, vennero confermate da un nuovo processo. Anche dello Sbarbaro il popolo pure ammetteva i reati, ma trovava esagerata la pena, così da parere, quel che certo non era, l’effetto d’una vendetta.

6. Il Coccapieller è Romano, e il popolino di Roma vi vede tanto più il suo rappresentante, perchè egli abilmente seppe vellicare, piaggiare quel sentimento municipale che batte in tutte le città latine, ma più di tutte, e non a torto, nell’antica capitale del mondo.

7. Si trovò che i suoi, spesso, coincidevano cogli avversari di una setta, se così può dirsi, nobilissima, i massoni di alcune parti d’Italia — e con quelli di un troppo noto pubblicista che, insieme ad un giovine dotato di un cognome caro all’Italia, si fecero della sua penna un’arma per le proprie vendette.

8. È un fatto curioso che tutti e tre questi fenomeni psichiatrici sono un diretto prodotto della più o meno seria coltura classica.

In Cola l’erudizione, sbagliata se vuolsi, delle antichità di Roana, è il punto di partenza del delirio ambizioso e dei giganteschi suoi tentativi che avevano invero tutta l’impronta della grandezza romana.

In Coccapieller questa coltura manca affatto, ma non mancano quelli fra i suoi effetti che più sono nocivi, le confuse memorie del tribunato, le glorie e gli errori dell’antica Roma, perfino, che Dio glie lo perdoni, quello della votazione per centurie, e dei suoi cavalieri, fra cui egli, come cavallerizzo, crede poter imbrancarsi1.

La coltura vaporosamente classica, nutrita di metafisica e gonfiata di rettorica, formano tutto il retaggio del sapere di Sbarbaro, e ne inspirò gli ammiratori, anch’essi educati alla stessa scuola e nutrici dello stesso alimento.

9. Rozzi, però ciò malgrado, nel fondo, i nostri due neo-tribuni parlarono rozzamente e poterono svillaneggiare onesti e birboni con frasi che i còlti sfuggirebbero, ma appunto per ciò agli incolti riescono più adatte. E ben dice Coco (Storia della rivoluzione di Napoli) non essere certo gli uomini eruditi che possono influire sul popolo, tua quelli che hanno maniere di sentire pari alle sue.

E Heine diceva: «Il popolo si fida più degli ambiziosi i quali parlano il gergo delle sue passioni, che dell’uomo dabbene che si sforza d’illuminarlo».

Il loro stile che agli uomini còlti suona bizzarro e mattesco, appunto pe’ suoi diletti, ripetizioni, allusioni, simboli, frasi eteroclite e violenti, ha virtù di attrarre, di scuotere le fibre delle plebi men còlte.

10. Coccapieller ha smascherato dei non sempre degni capo-popoli: e la plebe, trovando spezzati i suoi idoli, col bisogno di adorare qualche cosa, ha riversati i suoi affetti su quello che li aveva battuti, appunto perchè li avea battuti e perchè primo si trovava in ordine di successione, chè anche nelle demolatrie vi hanno le dinastie. Così nelle sette camorristiche di Napoli l’uccisore di un capo diventa, ipso facto, perciò, suo successore nel grado — anche se prima non apparteneva alla setta.

11. Il popolo romano ha un’inclinazione speciale per codesti tribuni: prova ne siano Ciceruacchio e Cola di Rienzo e Baroncelli. Nè è difficile vi influiscano l’atavismo, o la ricordanza dell’antica magistratura popolare, che tanto giovò al suo trionfo contro i patrizi, e che giustamente dovea restare cara alla sua memoria.

Tribunato. — Quando si pensa alla durata e all’immensa influenza di questa istituzione in Roma antica, ben si comprende come essa possa aver perdurato fino ad ora nella sola città che vi diede la culla e in cui più a lungo permase con forma legale nel mondo.

È un fatto ammesso dagli storici, dai Romanisti e dai politici, e basta citare Machiavelli, Mommsen, Bonghi e Schupfer, che quest’istituzione meravigliosamente semplice e senza riscontro con alcun’altra, servì di così mirabile contrappeso alla prepotenza patrizia, che era pure aiutata dalla ricchezza, dall’intelligenza, dalla tradizione, e, quel che è più, dalle leggi, da impedire le inevitabili guerre civili, che sfasciarono le nostre repubbliche medioevali, da permettere una vera eguaglianza civile, pur lasciando, per molto tempo almeno, il potere alle classi più colte, finchè, degenerando, provocò la demagogia ed il cesarismo. Essa fu, dunque, un potente fermento delle sue glorie e delle sue ruine.

Il tribuno rappresentava quello che è per noi la opposizione parlamentare, la stampa e la Cassazione.

I tribuni, che non potevano esser scelti se non nelle classi popolari, fecero, quasi si può dire, da codice vivente e da magistrato permanente quando codice e magistratura vera mancavano, e tutto era nell’arbitrio dei patrizi, e quando i creditori patrizi esercitavano le più crudeli torture sui debitori, tal che il popolo, per sottrarvisi, rifiutò di andare alla guerra (282), e creando una secessione, una vera città plebea, minacciava di non più riunirsi se non si davano loro questi diritti, Essi fecero da valvola di sicurezza e da anello tra nobili e plebe, e fecero, come nota Machiavelli (Decadi, III), che gli uni s’avvantaggiassero delle forze degli altri senza elidersi.

Essi, sulle prime, non avevano altra insegna, altra scorta che il pedestre viator; non avevan manto nè sedia curule, anzi non avevan sulle prime pur un seggio nel Senato, alla cui porta dovean star in piedi; ma divenuti i suoi veri difensori, indipendenti dal potere civile, potevano fin mettere in prigione i magistrati, sospendere un giudizio, infliggere una condanna persino capitale; difendevano al cospetto pubblico l’accusato (jus auxilii); potevano, salvo il domandare l’auspicio e il farne fissare il giorno dal Senato, radunare i comizi, ottenerne deliberazioni, far cessare l’arresto di un debitore condannato; potevano citare a comparire davanti a loro qualunque cittadino, anche i consoli, e farli venire colla forza in caso di rifiuto; potevano, con un veto, sospenderne qualunque deliberazione.

Più tardi, studiate ed imitate le leggi di Solone, codificata quella grossolana pratica criminale e civile, che era infine null’altro se non la legittimata prepotenza dei ricchi e dei nobili, e resasi meno crudele per quanto conservasse le orribili pene pei debitori, ridottasi l’usura al 10 per %, si sospesero, come meno necessari, i tribuni, la cui intromissione pareva turbasse l’andamento dello Stato; ma e’ si dovettero ristabilire, salvo ad avere il solo diritto d’infliggere multe, e non più la pena capitale, e quello di nominare i pagatori o questori, il che li faceva entrare nella vera amministrazione. Poi ebbero un voto consultivo ed uno sgabello in Senato. Nel 620, per l’aumentata miseria, i Gracchi, patrizi diventati i più audaci tribuni, giunsero a strappare, con una specie di suffragio universale, delle leggi con cui si davano alle plebi i campi già proprietà dello Stato, e si fornivano di grano ad un prezzo inferiore della metà al reale; riforma, questa, che fu, probabilmente, il primo passo all’anarchia.

Infatti più tardi Saturnio (651-54), attivo, eloquente, ma violentissimo, a colpi di randello strappò delle vere leggi socialistiche, colle quali ridusse di 1/6 di asso il prezzo del grano, già ancora dimezzato; represso, chiamò gli schiavi in aiuto. A lui si deve la prima battaglia civile combattutasi in Roma (10 dicembre 654).

Sulpicio Rufo organizzò (666) una vera armata di 3000 demagoghi contro il Senato.

Clodio (696) limitò il diritto dei censori di redarguire i cittadini scostumati, tolse ogni restrizione alle associazioni.

D’allora in poi i tribuni divennero i padroni ed i tiranni della Repubblica e la causa della sua caduta. Così essi prepararono, col disordine prima, e poi coll’elezione dei partigiani alle cariche, la venuta dell’Impero.

Si crede da molti che il tribunato cessasse coll’Impero. È vero che Cesare avocò a sè la potestà tribunizia, ma non perciò aboliva i tribuni; nè ciò era a presumere in un governo come l’imperiale che sotto forma dispotica proteggeva, infatti, gl’interessi popolari. Certo però se ne restrinsero i poteri che erano in gran parte rappresentati dall’Imperatore.

Essi conservarono il Jus auxilii ed il Jus intercessioni contro i magistrati, ma non contro l’Imperatore, da cui anzi dipendevano direttamente (Tacito, Annali, XIII, 28). – Perdettero il diritto di veto, ma conservarono quello di presiedere il Senato (Dione Cassio, 55), ed ebbero la presidenza di un certo numero di rioni di Roma (Mommsen, II, 120), il che si può dire vi si perpetui tuttora, come accennammo, sotto altro nome.

Divenne il tribunato una dignità conferita dall’Imperatore, e che si trova già accennata con termini alquanto disprezzativi «umbra nominis», nel Codice Theodosiano, XII, I, 74. Permasero, ad ogni modo, più di 14 secoli.

12. Ritornando ai nostri tribuni, tutti e tre, spesso, tagliarono sul vero; e il vero ha una virtù, una potenza che trascina tutti, anche le masse.

13. Ed ambedue i neo-tribuni non sono geni, nè pazzi, ma mattoidi, che hanno ben più di costoro un’azione potente sulle plebi; poichè la grandezza dei primi e la stranezza di concetti dei secondi, e in amendue il contegno sdegnoso, fuor del comune, e la mancanza di tatto, destano diffidenza, ripulsione e ribrezzo: mentre codesti mattoidi essendo bizzarri ma non elevati nei concetti, anzi sovente più bassi dei comuni, sono, perciò, più accessibili ed accetti alle masse; oltrecchè nel contegno privato, nella vita pratica (quasi la durata della malattia ne ottundesse gli angoli acuti e rendessela più adattata alla esistenza) o sono affatto normali o spesso più abili degli altri: il che lor concilia, maggiormente, la pubblica opinione.

14. Abbiamo vedute le prove recenti del disinteresse di Coccapieller (anche Sbarbaro ha ogni tratto slanci di disinteresse, misti con slanci di avidità), che però poteva qui spiegarsi colla vanità in lui dominante. Pure se, come spero, risultasse aver egli dato prove di quella rara virtù anche negli anni antecedenti, non perciò verrebbe alterata la mia diagnosi. Infatti, come ho dimostrato nel Genio e Follia, i mattoidi sono in genere i soli i quali nello steeple-chase furioso verso la fortuna, che è uno dei caratteri dell’epoca nostra, si mostrino i più riserbati ed i più sdegnosi, e non affettino, solo, ma serbino una singolare sobrietà.

Mangione era onestissimo e disinteressato! Nel maggio è costretto a far debiti, e ne ha tanta vergogna che dal 18 al 23 si astiene dal cibo, e l’ispettore di P. S. lo trovò in letto sfinito dalle privazioni, non avendo voluto accettare nulla dai padroni. Bosisio si nutre di polenta senza sale: Passanante di solo pane; come spesso Lazzaretti di due patate; il che può spiegarsi dall’aver essi pascolo e conforto sufficiente nelle loro speciali elucubrazioni, come accade appunto agli ascetici e ai grandi pensatori; e perchè poveri, preferiscono consumare quel poco che possedono, per ottenere il trionfo delle loro idee, piuttosto che il soddisfacemento del loro stomaci.

15. E poi i mattoidi, proprio all’inverso dei genii, e dei matti, sono legati da una simpatia d’interessi, e, sopratutto, di odii contro il nemico comune, l’uomo d’ingegno, e formano una specie di Massoneria2, tanto più potente quanto meno regolare, perchè fondata sul bisogno di resistere al ridicolo comune che li invade inesorabilmente per tutto, sul bisogno di sradicare o almeno combattere quella naturale antitesi che è per loro l’uomo d’ingegno: e, pure odiandosi fra loro, si fanno solidali l’uno dell’altro, e se non godono dei trionfi reciproci godono ciascuno delle reciproche vittime che lor non mancano mai; perchè, come vedemmo, fra il mattoide ed il genio il volgo non dubita punto a sacrificare quest’ultimo; e anche ora molti medici pratici non ridono punto dei dosimetrici e ridono dell’omeopatia; e le plebi accademiche ridono ancora di Schliemann e d’Ardigò e non risero mai dell’archeologo P. Secchi nè di Renouvier. E ciò può ben vedersi dagli enfatici e matteschi indirizzi rivolti al Coccapieller ed a Sbarbaro da molti che certo erano più matti di loro. E più volte ne abbiamo trovato nell’Ezio II che s’accontentavano di chiamare il primo, parodiando una bella frase d’un nostro Ministro, l’onore di Roma. Ed erano firmati. E a Sbarbaro fecero omaggio non pochi uomini politici e pubblicamente. Ed ecco spiegato perchè, malgrado il più esteso suffragio universale, sotto la Repubblica Romana, mai fosse venuto in mente alla plebe nel 49 di mandare Ciceruacchio al Parlamento. Ciceruacchio era rozzo, ma non era mattoide.

V’è poi da maravigliarsi, dopo tutto ciò, se essi siano entrati in Parlamento, e da farne tanto scalpore? O non rappresentano essi giustamente un dato momento della vita popolana, co’ suoi desideri sfrenati, colle sue aspirazioni generose, co’ suoi odii ciechi e furibondi? Oh se vogliamo escludere costoro, cominciamo col chiudere il varco alla rappresentanza popolare, o per lo meno, a restringere e non ad allargare il suffragio, o meglio, anche allargandolo vieppiù nelle basi, troviamo il modo di far prevalere la maggioranza più assennata, piuttosto che la più numerosa.

Se non che, tutto questo rumore contro la loro nomina si fece perchè interessi personali erano in giuoco. Nè io lessi un solo giornale che protestasse mai contro la nomina, credo senza ballottaggio, di individuo ben più intemerato, ma più mattoide di questo, che si crede un’incarnazione di Confucio e non so se Dio o semidio in terra, certo figlio di un semidio, nè contro la elezione indiscussa, pur troppo, di un uomo che ora si atteggia a Catone, con un passato niente remoto peggiore di molto del suo, e che per giunta non è scusato come in lui dalla incultura, nè dall’umile classe sociale. E niuno protestò quando al governo della cosa pubblica di un dicastero importantissimo sedeva un altro mattoide, i cui programmi e decreti non furono certo di molto migliori degli articoli di Ezio II.

Un altro quesito: che succederà di questo uomo così rapidamente montato più in su dei suoi meriti?

La risposta è facilissima. Fino a che l’aura popolare favorirà una fortuna che era follia sperare, esso si conserverà relativamente calmo e tranquillo, salvo le escandescenze megalomaniache che colla sua astuzia saprà far perdonare.

Se nella sua corsa precipitosa non avesse offeso interessi potenti, egli troverebbe un sostegno sempre costante nella lega dei mattoidi, e a guisa dei due sopranominati si conserverebbe, benchè con meno prestigio, al suo posto.

Ma se una vanità morbosa, come la sua, ed ingrossata dal successo, venisse ad essere irritata dalla sconfitta, non sarebbe difficile che cadesse in un delirio ben più grave — nel delirio dell’azione; — così dimostrai essere accaduto a Passanante, a Mangione, al G… che, perduta una lite, aveva ferito con un colpo d’archibugio il conte C….. e fu prosciolto, grazie alla singolare eloquenza che sviluppò avanti ai giurati; dieci anni dopo finì con invadere ad armata mano un appartamento che aveva già venduto, che voleva riavere ciò malgrado, e che ancora sostiene per suo.

Sbarbaro. — Tutto ciò vale, ben si capisce, per Coccapieller. Quanto a Sbarbaro, egli piuttosto tribuno accademico, borghese, che vero politico; egli non esce che per poco da quella cerchia tutta artificiale, semigiornalistica in cui da tanto s’arrabatta e s’affoga.

Egli, per quanto mattoide al pari del suo collega in tribunato, e per quanto più di lui e al pari di lui vellicatore delle basse passioni popolari, e ambizioso di un posto che appena raggiunto non lo farebbe che precipitare più in basso del punto di salita, egli non ha però la sua furberia grossa, se vuolsi, e tavernaia, ma efficace; non ne ha l’apparente e forse vera integrità, e, peggio, non ne ha tutta la rozzezza. Egli ha una coltura quale si raggiunge colla nostra sventuratissima educazione classica, tutta gonfia di frasi e vuota di fatti, che tuttavia non può essere compresa, se non nella parte più immorale, dai più. Egli non riescì a conquistarsi che quella plebe di sfaccendati, di impiegatucci, di semi-professionisti che formano, pur troppo, la nostra zavorra politica, e non ebbe… che un successo di scandalo. Il suo trionfo politico non fu che uno scherzo ed insieme una reazione giustificata contro un enorme e troppo tardi rabberciato errore giudiziario, a proposito di un grande colpevole ora defunto.

Per chi ci osservasse che mentre i libri dei mattoidi non sono leggibili, i suoi lo furono e lo sono, almeno in parte, come certo gli articoli de’ suoi giornali, rispondiamo che anche il genere mattoide ha le sue varietà; la maggior parte uscendo dagli strati più bassi della coltura letteraria e volendo sforzarsi ai più alti, non ha forma estetica: ma quelli che ebbero una vera cultura classica, naturalmente pongono a servizio della loro follia un capitale maggiore; e non è raro il caso in cui la tendenza all’originalità, che nei loro colleghi si risolve in una bizzarria, in essi dia luogo a qualche, sia pure intermittente, trovata; in Sbarbato poi si aggiunge a quello sterile del mattoide, il fermento fecondo e spesso potente, del delirio ambizioso e persecutorio.

Del resto i suoi grossi volumi sortirono la stessa fortuna di quelli degli altri mattoidi, e stanno negletti negli scaffali; sono, è vero, noti i libelli e gli articoli, ma il pubblico non ne faceva suo pro per amor del bello o del vero, ma perchè vi trovava quelle violenti personalità e quelle sudicie oscenità di cui è ghiotto, tanto più care alla nostra ipocrita pudicizia perchè cammuffate da una vernice cattedratica, e perchè insieme vi trovava un’eco a quel sentimento di malessere che destano gli errori, non pochi pur troppo, del governo parlamentare e della sua amministrazione giudiziaria.

Si potrebbe domandare perchè tanto Coccapieller come Sbarbaro siensi manifestati più partigiani della reazione che della rivoluzione, mentre i mattoidi corrono sempre alle idee più novatrici; ma questo può spiegarsi da ciò, che fra noi, dove, almeno a parole, la libertà è già antica, il regresso può apparire una novità, certo un’originalità; s’aggiunga anche quella specie di intuito del vero che è proprio di costoro e che li fa accorti dei danni e pericoli a cui menano le nostre attuali istituzioni. Essendovi, fra noi, poca giustizia, falsa istruzione e nessunissima igiene, va venendo meno ogni giorno quello che dicesi lo Stato, quell’ente impersonale che sopravvive agli uomini, che tiene unite le redini di tutte le amministrazioni e le trasmette intatte e rispettate da una all’altra generazione.

Questo difetto, che va sempre facendosi maggiore, fa che per primo rimedio le menti poco elevate ma oneste si rivolgano come a stella polare a quella forma di governo, in cui lo Stato ha le apparenze della maggior energia, alla dispotica.

Note

37 Sedute del Parlamento, gennaio, 1887.

38 In una grande città d’Italia prosperano due società composte in gran parte di mattoidi.
Queste genti, dice Daudet (Jack), si attraggono, s’aggruppano accomunando i loro lagni, le loro oziose vanità.
Ho già mostrato (Genio e Follia) come alcuni mattoidi influirono sui provvedimenti consigliati contro la pellagra. Basta accennare, p. es, la stramba idea di propagare i conigli: un altro gruppo compatto ed abilissimo di costoro era riuscito a persuadere non solo le masse ma perfino dei mezzo scienziati che il maiz scarseggi di azoto e sia indigeribile e perciò solo causa di pellagra — precisamente il contrario del vero: e non mi bastarono 21 anni di fatiche per cancellare l’erronea leggenda.