5 Editoria libraria verso il digitale

Riflessioni a partire dall’esperienza dei giornali

Mario Tedeschini-Lalli

Qualche settimana ho controllato un libro comprato qualche mese prima per un studio che ho in corso. La cosa che mi ricordavo era lì e ho preso un appunto per citarla in nota, ma c’era anche un problema imprevisto: non avevo modo di individuare il numero della pagina da inserire nella citazione, perché mi ero comprato un libro elettronico. Ovviamente negli ebook non ci sono “pagine”, perché la paginazione dipende dal formato, dallo strumento di lettura (smartphone, tablet, Kindle, Nook…?) e dalla dimensione del carattere che l’utente sceglie per leggerlo. E’ il digitale, bellezza, e nel digitale il contenuto – quante volte si è detto! – è “liquido”, cioè si adatta al contenitore, a interfacce e contesti differenti. Come si fanno allora le citazioni nell’universo digitale?

L’imbarazzo mi è tornato in mente nel corso della tavola rotonda organizzata il 14 novembre alla Cattolica di Milano nell’ambito del seminario “Engaging the Reader”, dove ci si chiedeva quale nuova “ergonomia della conoscenza” fosse necessario immaginare e costruire per far transitare l’industria editoriale libraria al digitale dopo cinque secoli di stampa “analogica”.

A una prolusione di Jean-Francois Gilmont sull’evoluzione delle tecniche tipografiche e d’impaginazione del ‘500 e della loro relazione con l’esperienza d’uso e i significati, seguiva una brevissima tavola rotonda cui partecipavano Alessandra FerrarisNicola Bruno e Michele Mezza, coordinati dall’autore di questo blog. La tavola rotonda avrebbe dovuto presentare l’esperienza di una transizione già effettuata da parte dell’editoria giornalistica. Ho detto due parole alla fine, ma l’insieme mi ha stimolato riflessioni più ampie, che cerco di mettere in ordine qui.

I giornali e i loro editori hanno scoperto (meglio: stanno con dolorosa fatica scoprendo) che la transizione dall’analogico al digitale apre almeno due questioni diverse: come “tradurre in digitale” qualcosa e come “scrivere in digitale” qualcosa.

All’inizio, cioè, ci si è posti il problema di come “tradurre” nell’universo digitale l’esperienza d’uso e l’esperienza conoscitiva dell’analogico. Le risposte che sono state date hanno riguardato principalmente la costruzione di “contenitori” che avevano come modello contenutistico di presentazione quello delle edizioni di carta, con una ovvia prevalenza delle soluzioni grafiche e di impaginazione su quelle architetturali.

Ci si è accorti, naturalmente, che occorrevano degli aggiustamenti: sul piano della formattazione, per esempio, (proprio come successe nel XVI secolo con la “invenzione” dei paragrafi separati dagli “a capo” mostrataci dal prof. Gilmont), a metà degli anni Novanta del XX secolo i primi giornalisti online dovettero stabilire che tra un paragrafo e l’altro è necessaria una riga di bianco, altrimenti la lettura a schermo diventa troppo faticosa; sul piano della “impaginazione” si sono creati i blocchetti con i link ai materiali correlati (quelli che in un giornale sono contenutisticamente legati dall’apparire sulla stessa pagina). E altro ancora. Ma si trattò solo di una pur necessaria opera di “traduzione”.

Solo negli ultimi anni ha cominciato a far capolino nelle redazioni e delle case editrici giornalistiche l’idea che occorra un modo nuovo di “scrivere” per il digitale. Il che comprende anche la scrittura in senso stretto degli articoli, ma la trascende: si tratta di scrivere testi e titoli perché i motori di ricerca e i social media, attraverso i quali milioni di persone accedono all’informazione, possano “leggere” e rilanciare i materiali, ma si tratta principalmente di estrapolare le relazioni di significato che nella edizione cartacea sono affidate a relazioni spaziali d’impaginazione e al paratesto. Di qui, per esempio, la scoperta dell’uso dei tag.

Il tag è una “etichetta” che connota e definisce il contenuto a prescindere dalla forma che quel contenuto prenderà, lo segue nel profondo del database (come il testo di un articolo, l’eventuale firma dell’autore, la data…) ed è pronta ad essere utilizzata dall’utente o dagli algoritmi per aggregare quel contenuto ad altri correlati. Sono un nuovo strumento di contestualizzazione, uno strumento per la costruzione di “molecole” di senso, sulla base di “atomi” di contenuto, come avviene per una pagina o una serie di pagine monografica su in un giornale. A differenza delle molecole di senso cristallizzate su una pagina a stampa, tuttavia, gli atomi nel digitale hanno anche una vita propria e non effimera, possono dunque ricomporsi, nel tempo, con altri atomi non ancora creati e a dar vita ad altre impreviste e imprevedibili molecole di senso. Forse in questa attività di “marcatori di senso” potrebbe risiedere parte della nuova funzione autoriale ed editoriale.

E’ solo un esempio, ma penso che l’editoria libraria risparmierebbe un sacco di tempo e un sacco di problemi se si dedicasse da subito a questa seconda questione. Ciò non vuol dire eludere o ignorare i problemi di presentazione e di esperienza d’uso, ma evitare che i prossimi strumenti narrativi (es.: le app giustamente evocate nella sua introduzione dal prof. Edoardo Barbieri) non si trasformino nei nuovi CD-ROM, lo strumento digitale che fino a pochi anni fa nutriva i dibattiti accademici e le “Bustine di Minerva” di Umberto Eco sulla “morte del libro” e che giacciono nel cimitero delle idee belle ma senza futuro.

Questo è tuttavia possibile se si comprendono le “leggi fondamentali” dell’universo digitale, che sono controintuitive rispetto al mondo da dove veniamo: la prima – della quale si è parlato sopra – è la “liquidità” dei contenuti, la loro frammentazione, la perdita progressiva di importanza del “contenitore” e della sua forma, rispetto al contenuto atomico e alle sue “valenze” di senso che possono essere pensate e costruite “nel profondo”. Ma ci sono anche le questioni della disintermediazione, della condivisione, della relativizzazione (se non dell’abolizione) dello spazio-tempo.

Serve a questo proposito anche un nuovo linguaggio per nuovi concetti, occorre fare attenzione alle vecchie metafore che abbiamo introiettato e che ci portiamo dietro inconsapevolemente da un passato analogico, cioè tridimensionale. Specialmente nell’editoria, occorre uscire dalla dicotomia superficialità-profondità, termini che – per mancanza di nuovi concetti utilizzabili – comparivano anche nella presentazione del convegno (“…incrementare l’esperienza di lettura, mantenendone tutta la profondità…”). “Superficiale” era finora considerato – con tutti i caveat del caso per le sgradevoli ed imprecise generalizzazioni – il giornale e il giornalismo, “profondo” il libro.

In realtà nell’universo digitale non ci sono alto e basso, destra e sinistra (come peraltro non ci sono nello spazio interstellare dell’universo fisico), dunque non si può neppure parlare di lettura “superficiale” e di lettura “profonda”. L’universo digitale è reticolare e i processi conoscitivi si muovono di nodo in nodo, dove ogni nodo è copresente. Anche in rete ci possono essere letture facili, brevi, povere,  insieme a letture complesse, lunghe, ricche, le prime presumibilmente conduttrici di conoscenze sommarie, le seconde di conoscenze estese. Certo è sempre possibile costruire nodi di conoscenza che, per mancanza di termini migliori, possiamo a continuare a chiamare “profondi”, contenitori verticali di informazioni, come i libri. Ma sarebbe culturalmente dannoso, castrante, non aprire questi nodi a relazioni di significato possibili al di là del contenitore stesso e delle intenzioni degli autori e degli editori.

D’altra parte nell’universo digitale spariscono i confini certi, le linee di demarcazione si fanno porose. Hanno sempre meno valore i “silos” (riecco i depositi verticali) di conoscenza,  come i “silos” di prodotto. Che cosa distingue un “libro” digitale dotato di inserti multimediali e dotato di interattività, da una applicazione creata, alimentata e gestita da un editore giornalistico o da un’azienda con core business ma necessità narrative? Alla fine del processo potremmo veder superati questi confini tra mezzi e potrebbe non avere più un gran senso parlare di editoria “libraria” e di editoria “giornalistica” come di due cose culturalmente e industrialmente distinte.

… E il problema delle citazioni dal quale siamo partiti?

No, non ce ne siamo dimenticati. Una soluzione potrebbe essere trovata in una edizione degli Opera di Cicerone stampato nel 1536 da Robert Estienne. Il professor Gilmont ha fatto notare che “i soli punti di orientamento” nel testo erano dei “numerini nei margini”, utili – appunto – per le citazioni. Anche il Kindle ha un sistema analogo, usa il concetto di “location”, cioè le coordinate di un punto nel testo, che restano invariate al mutare della paginazione. Il problema è che non ci sono standard e difficilmente se ne creeranno presto. Saremo perciò costretti a specificare se il libro lo abbiamo letto in versione Kindle, in versione eBook ePub o in versione Nook, come oggi facciamo per le diverse edizioni prima di indicarne la pagina? [Dettagli: “How to cite a Kindle ebook“]

Ma se il concetto di “location” fosse piano piano generalmente accettato, scopriremmo che è quello che, ancora oggi, si fa con le citazioni della Bibbia: niente pagine, bensì capitolo e versetto, che sono indicatori inseriti, oserei dire “hard coded”, nel testo a prescindere dalla sua rappresentazione.

Welcome back to the future.

Questo articolo è apparso per la prima volta sul blog Giornalismo d’altri su Kataweb.it il 22 novembre 2011.