24 VIII. Una donna

Avete mai provato il sottile e malinconico piacere, piene di segrete sorprese e d’intimi sussulti, di frugare fra i vecchi ritratti in un antico albo di cui da anni, non si schiudeva il fermaglio, una polverosa cartella di cui, da tanto tempo non si scioglievano i nastri? Avete mai fissato gli occhi sui pallidi ritratti di colori che sono morti, poichè, misteriosamente, tutti i ritratti dei morti appaiono scolorati? Volti di morti, volti di persone scomparse, che, non rivedrete mai più, volti di creature che, forse vi amarono e che voi amaste male, forse, e, che non vi amarono a tempo, forse, volti già consunti dalla tristezza o floridi di una beltà quasi intangibile, volti di tanto vecchi ritratti, di persone che portarono via una parte del vostro cuore, che vi tolsero una luce dall’anima, forse, o che, forse, vi lasciarono un profondo e indelebile ricordo! Questo sottile piacere di scorrere con le dita trepide, fra gli antichi ritratti, dalla malinconia vi fa passare allo spasimo: e quando, sgomento dai fantasmi che voi stessi avete evocati, lasciate cader l’albo e chiudete la cartella, onde di amarezza seguitano a fluttuare nel vostro sangue. O passato, tu solamente sei vero! Ecco, io ho innanzi un tanto antico ritratto, di una donna: di una signora: è una fotografia, che avrà trent’anni, forse, e che fu data alla donna che degnamente, io ho più amata e venerata nel mondo, a mia madre.
Questo ritratto è di Teresa Ravaschieri e già in quel tempo in cui fu amichevolmente donato, non era un ritratto nuovo: veggo un viso ovale, sereno, sorridente, eminentemente giovanile; e dei bruni e folti capelli neri, ove si appoggia un diadema prezioso: un vestito da festa che scovre un collo e delle spalle statuarie, adorne di una collana ricchissima: una testa da cameo, infine, ove la purezza delle linee è animata dalla espressione più spirituale nella luce dei cari occhi larghi e limpidi, nel sorriso della bella bocca, in tutta la quiete viva e fresca della fisionomia. Il prezioso ritratto, dunque, mostra una Teresa Ravaschieri in tutta la pienezza della sua beltà e della sua grazia muliebre, quando la sua persona e il suo intelletto, il suo fascino e la sua cultura attiravano verso lei gli omaggi divoti d’italiani e di stranieri, quando il suo nome, illustre per tutti i suoi antenati, illustre per suo nonno, per suo padre, rappresentava, in Napoli, quello della vera gran dama, la gran dama per cui l’alta società napoletana, di allora, era veramente alta. Prezioso ritratto che ha fatto, che fa profondamente trasalire l’anima mia, che esalta, in un sogno di bellezza e di bontà la mia fantasia e che dà al mio cuore, che non sa obliare, con un nuovo fiotto l’inconsolabile rammarico, quello di non aver visto, l’anno scorso, trapassar l’anima grande di Teresa Ravaschieri, quello di non aver potuto, in gramaglia, seguire, a piedi, il suo corteo funebre, quello di non aver potuto baciare, piangendo, la pietra marmorea che chiude il suo sepolcro, come quello di una seconda madre.

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Qual donna, mai, eguaglierà costei? Chi oserà mai fare quello che essa fece? La somma delle sue virtù morali non è, forse, grande quanto quella delle sue opere, non ha essa, forse, operato tutto il bene che ha pensato e che ha sentito? Chi mai realizzò un alto sogno di amore come ella volle e fece? Chi mai raggiunse uno scopo più lontano, più nobile e più puro, con la sola volontà del bene? Dove non giunse il suo desiderio di carità e dove non mise ella la testimonianza del suo desiderio soddisfatto? Che cosa ella non invocò sui poveri, sugli afflitti, sui derelitti e qual balsamo, per lei, non sanò le crudeli ferite di costoro? Balzano i ricordi belli, nella mia mente e Teresa Ravaschieri mi appare come in una selva di vivide rose fragranti, ed ognuna di esse è un beneficio, ognuna di esse è una carità, ognuna di esse è un atto di amore! Quante volte, al suo contatto spirituale, io sentii ringagliardire l’affievolita mia fede cristiana: poichè ella era una cristiana perfetta, umile senza cecità, tenera senza leziosaggine, speranzosa senza baldanza, fidente senza esitazione. Un giorno, parlavamo di Galilea, insieme, e del grande lago di Genesareth, ove Cristo sedò la tempesta, e della montagna di Hattine, ove Egli pronunciò l’inobliabile sermone: e gli occhi di Teresa Ravaschieri si riempirono di sogno e come in sogno, ella mi disse: senti, io son certa che se avessi avuto la fortuna di vivere là, in quei tempi, avrei seguito Gesù, dovunque, come le Marie: ed era vero, poichè la sua anima ardente era apostolica, poichè ella amava diffondere la sua fiamma vivida, e generatrice di vita dello spirito! Quante volte ella mi ha chiamata a sè per comunicarmi una sua idea schietta, provvida, generosa e io, come altri miseri esseri, con le mani e con le anime legate dall’incertezza e dalla debolezza, come tanti altri infelici che, guasti dal dubbio, temono di abbandonarsi alle imprese audaci, rischiose e magnifiche, le ponevo, miserabilmente, delle obbiezioni meschine sempre sgomentandomi delle complicazioni, in cui ella comprometteva la sua salute, la sua pace, il suo tempo. Ella crollava il capo: sorrideva: riconciliava il suo discorso, in cui tutto il suo progetto ideale di soccorso, di sussidio, di protezione appariva magicamente colorito: e a un tratto, io, come gli altri, eravamo colpiti dalla grazia, e innanzi a lei ci sentivamo stupiti e fiacchi, e sentivamo che una volontà alta e bella ci trascinava, e tutti eravamo travolti in un’onda di bene che, da lei emanava, che ci rendeva capaci di cento cose più forti di noi, che ci dava la forza di servirla, Teresa Ravaschieri, nei suoi miracoli di tenerezza che ci metteva dietro a lei, come discepoli di un Maestro divino. Ah Ella, sì, avrebbe seguito, col capo avvolto nel manto e i piedi nudi nei sandali, Gesù, per le altitudini del Thabor, per le pianure di Elsdrelon e per le balze della Samaria, fino a Gerusalemme, fino al Calvario, sin oltre il Calvario: ma alla sua parola di pietà, al suo sentimento di amore, a questa luce costante e generatrice di ogni bene che emanava da lei, ognuno di noi sarebbe con lei partito, dove ella volesse, con lei, ove ferveva il più crudele morbo, ove giacevano i morti del cataclisma, ove strideva il grido di guerra. Chi, chi mai dirà più a noi, come Teresa Ravaschieri la diceva, la parola che desta l’anima e che la sospinge alla divozione suprema? Chi più, chi più indicherà a noi, con la mano bianca e l’occhio scintillante, la via del sacrificio sublime? Ah che noi siamo soli, freddi, tristi e dubbiosi di ogni cosa e dubbiosi di ogni persona, e giammai, più udremo la voce che ci dava la forza di vivere, l’energia di vivere per gli altri, l’abnegazione di vivere per tutti gli altri, tutti, amici, indifferenti, estranei, nemici. Non è morta una donna, l’anno scorso, il dieci di settembre: si è dileguata la più incomparabile forza spirituale: è scomparsa la miglior parte di noi, quella che riassumeva le tre virtù dell’anima, la carità, la fede, la speranza: abbiamo perduto, con lei il segreto della nostra vita di cristiani operosi e di creature umane degne di questo nome, il senso della tenerezza fraterna, si è spento, in noi, poichè lei, l’Evocatrice, l’Animatrice di tutte le fraterne tenerezze, è spenta

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Giusto è che, oggi, in un tempio, i maggiori cittadini napoletani e le più pietose donne e quanti sono i più noti che amarono e ammirarono Teresa Ravaschieri, convengano per onorar la sua memoria e per pregar pace a lei. Tali feste funebri solenni, sono assai belle, e commoventi, anche. Ma se io penso che, in quel tempio, dovrebbero entrare tutti coloro che essa ha beneficati, esso è piccolo, troppo piccolo, infinitamente piccolo: la folla dei poveri, degli infelici, degli infermi, degli abbandonati, cui ella provvide di dignitosa elemosina, di ricovero, di sanità recuperata, di cure materne, la folla, a cui ella dette il suo amore e la sua fortuna, il suo tempo e la sua anima, la folla a cui ella dette sè stessa, in un lungo ed entusiasta olocausto, è immensa. Niun tempio la potrebbe contenere e ognuno di costoro, poichè gli oscuri, i derelitti non dimenticano, certo, ogni volta che il suo spirito si effonde nella preghiera, rammenterà il nome di Teresa Ravaschieri. Ed è, forse, più giusto domandare a Lei, dal suo eterno riposo che ella ci preghi pace: assai più giusto che noi, combattuti, trafitti, stanchi, oppressi, senza più guida nell’esistenza, chiediamo pace a Lei. Ella lottò e vinse, nel nome di Dio e nel nome della virtù d’amore che raccoglie tutta l’umanità. Assai prima di morire, ella era in pace. Ella aveva detto a Dio le parole estreme, assai prima di morire: e aveva avuto il dono della pace. È alla nostra nave pericolante, in gran tempesta, nella notte, che bisogna chiedere l’aiuto di uno spirito orante, nella beatitudine celeste: è al nostro naufragio che l’anima eletta deve dar soccorso, dal misterioso mondo delle anime. La grande anima aveva la consuetudine dei miracoli, per la forza della preghiera, e della bontà. Preghiamo che Ella continui!

Napoli, autunno 1904