1 Lettere 1 – 30

1.

Gentilissima signora,

prima di tutto, voglio domandarle scusa per i disturbi e i fastidi che le ho arrecato, i quali non entravano, in verità, nell’accordo di inquilinato. Sto abbastanza bene e sono calmo e tranquillo.

Le sarò grato se vorrà preparare un po’ di biancheria e consegnarla a una brava donna, di nome Marietta Bucciarelli, se verrà a domandarla per me: non posso mandarle l’indirizzo della donna perché l’ho dimenticato.

Vorrei avere questi libri:

1° la Grammatica tedesca che era nello scaffale accanto all’ingresso;

2° il Breviario di linguistica di Bertoni e Bartoli che era nell’armadio di fronte al letto;

3° gratissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato.

Se i libri sono rilegati, occorre strappare il cartone, badando che i fogli non si stacchino.

Vorrei avere notizie del bambino che era ammalato di scarlattina. Forse Marietta saprà qualche cosa.

Se la mia permanenza in questo soggiorno durasse a lungo, credo ella debba ritenere libera la stanza e disporne.

I libri può incassarli e gettar via i giornali quotidiani.

Le rinnovo le mie scuse, cara signora e tutto il mio rincrescimento, tanto piú grande quanto piú è stata grande la loro gentilezza.

Saluti al sig. Giorgio e alla signorina; coi piú sentiti ossequi

Antonio Gramsci

2.

Roma, 20 novembre 1926

Mia carissima Julca[1],

ricordi una delle tue ultime lettere? (Era almeno l’ultima lettera che io ho ricevuto e letto). Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che ora tu ricordi fortemente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Io sono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di piú che nel passato, perché i bambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Ho pensato molto, molto in questi giorni. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire, perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte; ti voglio tanto bene e voglio arrivare a vedere i nostri piccoli bambini. Mi preoccupa un po’ la quistione materiale: potrà il tuo lavoro bastare a tutto? Penso che non sarebbe né meno degno di noi né troppo, domandare un po’ di aiuti. Vorrei convincerti di ciò, perché tu mi dia retta e ti rivolga ai miei amici. Sarei piú tranquillo e piú forte, sapendoti al riparo da ogni brutta evenienza. Le mie responsabilità di genitore serio mi tormentano ancora, come vedi.

Carissima mia, non vorrei in modo alcuno turbarti; sono un po’ stanco, perché dormo pochissimo, e non riesco perciò a scrivere tutto ciò che vorrei e come vorrei. Voglio farti sentire forte forte tutto il mio amore e la mia fiducia. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo con la piú grande tenerezza insieme ai bambini.

Antonio

3.

Roma, 20 novembre 1926

Carissima mamma[2],

ho pensato molto a te in questi giorni. Ho pensato ai nuovi dolori che stavo per darti, alla tua età e dopo tutte le sofferenze che hai passato. Occorre che tu sia forte, nonostante tutto, come sono forte io e che mi perdoni con tutta la tenerezza del tuo immenso amore e della tua bontà. Saperti forte e paziente nella sofferenza sarà un motivo di forza anche per me: pensaci e quando mi scriverai all’indirizzo che ti manderò rassicurami.

Io sono tranquillo e sereno. Moralmente ero preparato a tutto. Cercherò di superare anche fisicamente le difficoltà che possono attendermi e di rimanere in equilibrio. Tu conosci il mio carattere e sai che c’è sempre una punta di allegro umorismo nel suo fondo: ciò mi aiuterà a vivere.

Non ti avevo ancora scritto che mi è nato un altro bambino: si chiama Giuliano, e mi scrivono che è robusto e si sviluppa bene. Invece Delio in queste ultime settimane ha avuto la scarlattina, in forma leggera, sia pure, ma in questo momento non conosco le sue condizioni di salute: so che aveva già superato la fase critica e che stava rimettendosi. Non devi avere preoccupazioni per i tuoi nipotini: la loro mamma è molto forte e col suo lavoro li tirerà su molto bene.

Carissima mamma: non ho piú la forza di continuare. Ho scritto altre lettere, ho pensato a tante cose e il non dormire mi ha un po’ affaticato. Rassicura tutti: di’ a tutti che non devono vergognarsi di me e devono essere superiori alla gretta e meschina moralità dei paesi. Di’ a Carlo che egli specialmente ora ha il dovere di pensare a voi, di essere serio e laborioso. Grazietta e Teresina devono essere forti e serene, specialmente Teresina, se deve avere un altro figlio, come mi hai scritto. Cosí deve essere forte papà. Carissimi tutti, in questo momento specialmente mi piange il cuore nel pensare che non sempre sono stato con voi affettuoso e buono come avrei dovuto essere e come meritavate. Vogliatemi sempre bene lo stesso e ricordatevi di me.

Vi bacio tutti. E a te, cara mamma, un abbraccio e una infinità di baci.

Nino

P.S. – Un abbraccio a Paolo e che voglia sempre bene e sia sempre buono con la sua cara Teresina.

E un bacio a Edmea e a Franco.

4.

Ustica, 9 XII, 926

Carissima Tatiana[3],

sono arrivato a Ustica il 7 e il giorno 8 ho ricevuto la tua lettera del 3. Ti descriverò in altre lettere tutte le impressioni del mio viaggio, a mano a mano che i ricordi e le emozioni diverse si andranno ordinando nel cervello e che sarò riposato dalle fatiche e dalle insonnie. A parte le condizioni speciali in cui esso si è svolto (come puoi comprendere non è molto confortevole, anche per un uomo robusto, percorrere ore e ore di treno accelerato e di piroscafo coi ferri ai polsi ed essendo legato a una catenella che ti impegna ai polsi dei vicini di viaggio), il viaggio è stato interessantissimo e ricco di motivi diversi, da quelli shakespeariani a quelli farseschi: non so se potrò riuscire, per esempio, a ricostruire una scena notturna nel transito di Napoli, in un camerone immenso, ricchissimo di esemplari zoologici fantasmagorici; credo che solo la scena del becchino nell’Amleto possa eguagliarla. Il pezzo piú difficile del viaggio è stata la traversata da Palermo a Ustica: abbiamo tentato quattro volte il passaggio e tre volte siamo dovuti rientrare nel porto di Palermo, perché il vaporetto non resisteva alla tempesta. Tuttavia, sai che sono ingrassato in questo mese? Io stesso sono stupefatto di sentirmi cosí bene e di avere tanta fame: penso che tra quindici giorni, dopo che mi sarò riposato e avrò dormito sufficientemente, sarò completamente liberato da ogni traccia di emicrania e inizierò un periodo nuovissimo della mia esistenza molecolare.

La mia impressione di Ustica è ottima sotto ogni punto di vista. L’isola è grande otto chilometri quadrati e contiene una popolazione di circa milletrecento abitanti, dei quali seicento coatti comuni, cioè criminali parecchie volte recidi. La popolazione è cortesissima. Non siamo ancora tutti accomodati: ho dormito due notti in un camerone comune con gli altri amici; oggi mi trovo già in una cameretta d’albergo e forse domani o dopodomani andrò ad abitare una casetta che stanno ammobigliando per noi: noi siamo trattati da tutti con grande correttezza.

Siamo assolutamente separati dai coatti comuni, la cui vita non saprei descriverti con brevi tratti: ricordi la novella di Kipling intitolata: Una strana cavalcata nel volume francese L’uomo che volle essere re. Mi è balzata di colpo alla memoria tanto mi sembrava di viverla. Finora siamo 15 amici. La nostra vita è tranquillissima: siamo occupati a esplorare l’isola che permette di fare passeggiate abbastanza lunghe, di circa 9-10 chilometri, con paesaggi amenissimi e visioni di marine, di albe e di tramonti maravigliosi: ogni due giorni viene il vaporetto che porta notizie, giornali, e amici nuovi, tra i quali il marito di Ortensia che ho avuto tanto piacere di incontrare. Ustica è molto piú graziosa di quanto appaia dalle cartoline illustrate che ti invierò: è una cittadina di tipo saraceno, pittoresca e piena di colore. Non puoi immaginare quanto io sia contento di girellare da un angolo all’altro del paese e dell’isola e di respirare l’aria del mare dopo questo mese di traduzioni da un carcere all’altro, ma specialmente dopo i sedici giorni di Regina Coeli passati nel piú assoluto isolamento. Penso di diventare il campione usticese nel lancio del sasso a distanza, perché ho già battuto tutti gli amici.

Ti scrivo un po’ balzelloni, cosí come mi viene, perché sono ancora un po’ stanco. Carissima Tatiana, non puoi immaginare la mia emozione quando a Regina Coeli ho vista la tua calligrafia sulla prima bottiglia di caffè ricevuta e ho letto il nome di Marietta; sono letteralmente ridiventato un bambino. Vedi, in questo tempo, sapendo con certezza che le mie lettere sarebbero state lette secondo le disposizioni carcerarie, mi è nato una specie di pudore: non oso scrivere intorno a certi sentimenti e se cerco di smorzarli per adeguarmi alla situazione, mi pare di fare il sacrestano. Perciò mi limiterò a scriverti alcune notizie sul mio soggiorno a R. C. in relazione a quanto tu mi domandi. Ho ricevuto la giacca di lana che mi è stata estremamente utile, e cosí le calze ecc. Avrei sofferto molto freddo senza di esse, perché sono partito col paltò leggero e, sceso al mattino prestissimo, quando abbiamo tentata la traversata Palermo-Ustica faceva un freddo cane. Ho ricevuto i piattini che mi è dispiaciuto lasciare a Roma, perché ho dovuto mettere tutto il mio bagaglio nella foderetta (che mi ha reso servizi inestimabili) ed ero sicuro di romperli. Non ho ricevuto il Cirio, né la cioccolata, né il pane di Spagna che erano proibiti: li ho visti segnati nella lista, ma con l’avvertenza che non potevano passare; cosí non ho avuto il bicchierino per il caffè, ma ho provveduto io costruendomi un servizio di mezza dozzina di gusci d’uovo montati superbamente su un piedestallo di mollica di pane. Ho visto che ti sei impressionata perché i pranzi erano quasi sempre freddi: niente di male, perché ho sempre mangiato, dopo i primi giorni, almeno il doppio di quanto mangiavo in trattoria e non ho mai sentito il piú piccolo disturbo, mentre ho saputo che tutti i miei amici hanno avuto malesseri e hanno abusato di purganti. Vado convincendomi di essere molto piú forte di quanto mai potessi credere, perché, a differenza di tutti, me la sono cavata con la semplice stanchezza. Ti assicuro che, eccettuate pochissime ore di tetraggine una sera che hanno tolto la luce dalle nostre celle, sono sempre stato allegrissimo; lo spiritello che mi porta a cogliere il lato comico e caricaturale di tutte le scene era sempre attivo in me e mi ha mantenuto giocondo nonostante tutto. Ho letto sempre, o quasi, riviste illustrate e giornali sportivi e mi stavo rifacendo una biblioteca. Qui ho stabilito questo programma: 1° star bene per stare sempre meglio di salute; 2° studiare la lingua tedesca e russa con metodo e continuità; 3° studiare economia e storia. Tra noi faremo della ginnastica razionale, ecc. ecc. È necessario che in questi primi giorni, fino a sistemazione ultimata, ti dia degli incarichi di lavoro. Vorrei avere un sacco da viaggio che sia però sicuro come serratura o lucchetto: è migliore di ogni valigia o cassetta, nell’ipotesi non esclusa di ulteriori miei movimenti nelle isole o verso la terra ferma. Cosí avrei bisogno di tutte quelle piccole cose, come il rasoio di sicurezza con lamette di ricambio, le forbicine per le unghie, la limetta ecc. ecc. che servono sempre e che qui non sono in vendita; vorrei qualche tubetto di aspirina per il caso che i venti fortissimi mi diano flussioni ai denti. Per il vestito, il cappotto e la biancheria rimasta credo che tu farai bene. Mandami subito, se puoi, la grammatica tedesca e una grammatica russa; il dizionarietto ted. it. e it. ted. e qualche libro (Max und Moritz — e la storia della letteratura it. del Vossler, se riesci a scovarla tra i libri). Mandami quel volumone di articoli e studi sul risorgimento italiano che è intitolato, mi pare, Storia politica del secolo xix e un libro intitolato: R. Ciasca, La formazione del programma dell’unità nazionale, o qualcosa di simile. D’altronde vedi tu stessa e decidi arbitralmente. Per questa volta, scrivi tu a Giulia: non riesco a vincere quel senso di pudore di cui ti ho parlato dianzi: sono rimasto molto felice di sapere le buone notizie su Delio e Giuliano; aspetto le fotografie. L’indirizzo da te usato è ottimo, come hai visto: qui la posta funziona semplicemente, perché io vado allo sportello a domandare come alle fermo in posta e a Ustica esiste un solo ufficio postale. A proposito dei telegrammi inviati, quello di Roma annunziante la mia partenza sapevo con quasi certezza sarebbe arrivato tardissimo, ma volevo far sapere la notizia e non escludevo che potesse essere utile per un colloquio nel caso che il ricevente avesse saputo che era possibile venire fino alle 11 di notte. Di cinque partenti, il solo Molinelli, che ha viaggiato sempre con me, ha ricevuto la visita della moglie alle 11 precise: gli altri nulla.

Carissima Tatiana, se non ti avevo ancora scritto, non devi credere che ti abbia neppure per un momento dimenticata e non abbia pensato a te; la tua espressione è esatta, perché ogni cosa che ricevevo e in cui vedevo in rilievo il segno delle tue care mani era piú che un saluto, ma anche una carezza affettuosa. Avrei voluto avere l’indirizzo della Marietta; forse vorrei scrivere anche alla Nilde; che te ne pare? Si ricorderà di me e gradirà il mio saluto? Scrivere e ricevere lettere è diventato per me uno dei momenti piú intensi di vita.

Carissima Tatiana, ti ho scritto un po’ confusamente. Credo che oggi, 10, il vaporetto non riuscirà a venire perché c’è stato tutta la notte un vento violentissimo, che non mi ha lasciato dormire, nonostante la morbidezza del letto e dei cuscini ai quali mi ero disabituato; è un vento che penetra da tutte le fessure del balcone, della finestra e delle porte con sibili e suoni di trombetta molto pittoreschi, ma alquanto irritanti. Scrivi a Giulia e dille che sto veramente bene, sotto tutti i punti di vista e che la mia permanenza qui, che del resto non credo sarà cosí lunga come l’ordinanza ha deciso, mi sradicherà dal corpo tutti i vecchi malanni: forse un periodo di riposo assoluto era proprio una necessità per me.

T’abbraccio teneramente carissima, perché abbraccio con te tutti i miei cari.

Antonio

Se la Nilde gradisce i miei saluti, inviami il suo indirizzo.

5.

Ustica, 11, XII, 926

Carissimo amico[4],

sono giunto a Ustica il 7 dicembre, dopo un viaggio alquanto disagiato (come puoi comprendere), ma molto interessante. Sono in ottime condizioni di salute. Ustica sarà per me un soggiorno abbastanza piacevole dal punto di vista dell’esistenza animale, perché il clima è ottimo e posso fare passeggiate saluberrime: per le comodità generali, tu sai che non ho molte pretese e posso vivere con pochissimo. Mi preoccupa un po’ il problema della noia, che non potrà essere risolto unicamente dalle passeggiate e dal contatto con gli amici: siamo finora 14 amici, tra i quali Bordiga. Mi rivolgo a te perché mi faccia la cortesia di inviarmi qualche libro. Desidererei avere un buon trattato di economia e di finanza da studiare: un libro fondamentale, che tu potrai scegliere a tuo giudizio. Quando ti sarà possibile mi manderai qualche libro e qualche rivista di cultura generale che riterrai interessante per me. Carissimo amico, tu conosci le mie condizioni famigliari e sai quanto sia difficile per me ricevere libri altro che da qualche amico personale: credi che non avrei osato darti un tale fastidio, se non spinto dalla necessità di risolvere questo problema dell’abbrutimento intellettuale che specialmente mi preoccupa.

Ti abbraccio affettuosamente

A. Gramsci

Il mio indirizzo: A. G. – Ustica (prov. di Palermo).

6.

17. XII. 26

Carissimo amico,[5]

ho ricevuto la tua lettera del 13 e ti ringrazio cordialmente della tua cortesia. La mia salute è ottima; qui fa ancora caldo. Ti scriverò a lungo. Ti abbraccio.

Antonio

7.

Ustica, 19 XII 1926

Carissima Tania,

ti ho scritto una cartolina il 18 per avvertirti che avevo ricevuto la tua assicurata del 14: antecedentemente avevo scritto una lunga lettera per te all’indirizzo della signora Passarge, che avrebbe dovuto esserti consegnata l’11 o il 12. Riepilogo gli avvenimenti principali di tutto questo tempo.

Arrestato l’8 sera alle 10½ e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo piú brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate; formicolavano gli insetti piú diversi; non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la «Gazzetta dello Sport», perché non ancora prenotata: ho mangiato la minestra del carcere che era abbastanza buona. Sono quindi passato a una nuova cella, piú oscura di giorno e senza illuminazione la notte, ma che è stata disinfettata con la fiamma di benzina e il cui letto aveva biancheria di bucato. Ho incominciato a comprare qualcosa dal bettolino del carcere: le steariche per la notte, il latte per il mattino, una minestra con brodo di carne e un pezzo di lesso, formaggio, vino, mele, sigarette, giornali e riviste illustrate. Sono passato dalla cella comune alla camera a pagamento senza preavviso, cosa per cui rimasi un giorno senza mangiare, dato che il carcere passa il vitto solo agli abitatori delle celle comuni, mentre quelli delle camere a pagamento devono «vittarsi» (termine carcerario) del proprio. La camera a pagamento consistette per me nel fatto che aggiunsero un materasso di lana e un cuscino idem al saccone di crine, e che la cella fu arredata di un lavabo con catinella e boccale e di una sedia. Avrei dovuto avere anche un tavolino, un reggipanni e un armadietto ma l’amministrazione mancava di «casermaggio» (altro termine carcerario): ebbi anche la luce elettrica ma senza interruttore, sicché tutta la notte mi rigiravo per proteggere gli occhi dalla luce. La vita trascorreva cosí: alle 7 del mattino sveglia e pulizia della camera; verso le 9 il latte, che poi divenne caffè e latte quando incominciai a ricevere il vitto dalla trattoria. Il caffè giungeva di solito ancora tiepido, il latte invece era sempre freddo, ma io facevo allora una abbondantissima zuppa. Dalle nove a mezzogiorno capitava l’ora del passeggio: un’ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, o dalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con la proibizione di parlare e di salutare chiunque, e si andava in un cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con una cancellata sul resto del cortile. Eravamo sorvegliati da una guardia issata su un terrazzino dominante la raggera e da una seconda guardia che passeggiava dinanzi ai cancelli; il cortile era incassato tra muri altissimi e da una parte era dominato dalla bassa ciminiera di una piccola officina interna; talvolta l’aria era fumo, un volta dovemmo rimanere circa mezz’ora sotto uno scroscio di pioggia. A mezzogiorno circa arrivava il pranzo; la minestra era spesso tiepida ancora, il resto era sempre freddo. Alle 3 c’era la visita alla cella col collaudo delle sbarre dell’inferriata; la visita si ripeteva alle dieci di sera e alle tre del mattino. Io dormivo un po’ tra queste due ultime visite: una volta svegliato dalla visita delle tre non riuscivo ad addormentarmi; era però obbligatorio stare a letto dalle 7½ di sera fino all’alba. Lo svago era dato dalle voci diverse e dai brani di conversazione che talvolta si riusciva a cogliere dalle celle vicine o prospicienti. Io non incorsi mai in nessuna punizione: Maffi invece ebbe tre giorni di pane e acqua in una cella di punizione. In verità non sentii mai nessun malessere: quantunque non abbia mai consumato tutto il pasto, tuttavia mangiai sempre con appetito superiore a quello della trattoria. Avevo solo un cucchiaio di legno; né forchetta, né bicchiere. Un boccale e un boccaletto di terraglia per l’acqua e per il vino; una grossa scodella di terraglia per la minestra e un’altra per catino, prima della concessione della camera a pagamento. Il 19 novembre mi fu comunicata l’ordinanza che mi infliggeva 5 anni di confino in colonia, senza altra spiegazione. I giorni successivi mi giunse la voce che sarei partito per la Somalia. Seppi che avrei scontato il confino in un’isola italiana solo la sera del 24, indirettamente: la destinazione esatta mi fu comunicata ufficialmente solo a Palermo; potevo andare a Ustica ma anche a Favignana, a Pantelleria o a Lampedusa; erano escluse le Tremiti perché altrimenti avrei viaggiato da Caserta a Foggia. Da Roma partii al mattino del 25 col primo accelerato per Napoli, dove giunsi alle 13 circa; viaggiai in compagnia di Molinelli, Ferrari, Volpi e Picelli, che erano stati anch’essi arrestati l’8. Ferrari però da Caserta fu distaccato per le Tremiti: dico distaccato perché anche nel vagone eravamo legati insieme a una lunga catena. Da Roma in poi rimasi sempre in compagnia, ciò che produsse un notevole cambiamento nello stato d’animo: si poteva chiacchierare e ridere, nonostante che si fosse legati alla catena e con ambedue i polsi stretti dalle manette e che in tale grazioso abbigliamento si dovesse mangiare e fumare. Eppure si riusciva ad accendere i fiammiferi, a mangiare, a bere; i polsi si gonfiarono un po’, ma si ebbe la sensazione del quanto la macchina umana sia perfetta e possa adattarsi a ogni circostanza piú innaturale. Nel limite delle disposizioni regolamentari, i carabinieri di scorta ci trattarono con grande correttezza e cortesia. Siamo rimasti a Napoli due notti, nel carcere del Carmine, sempre insieme e siamo ripartiti per via mare la sera del 27 con mare calmissimo. A Palermo abbiamo avuto un cameroncino molto pulito e arieggiato, con bellissimo panorama del monte Pellegrino; trovammo altri amici destinati alle isole, il deputato massimalista Conca di Verona e l’avvocato Angeloni, repubblicano di Perugia. Sopraggiunsero in seguito altri, tra i quali Maffi che era destinato a Pantelleria e Bordiga destinato a Ustica. Sarei dovuto partire da Palermo il 2, invece riuscii a partire solo il 7; tre tentativi di traversata fallirono per il mare tempestoso. È stato questo il pezzo piú brutto del viaggio di traduzione. Pensa: sveglia alle quattro del mattino, formalità per la consegna dei denari e delle cose diverse depositate, manette e catena, vettura cellulare fino al porto, discesa in barca per raggiungere il vaporetto, ascesa della scaletta per salire a bordo, salita di una scaletta per salire sul ponte, discesa di altra scaletta per andare nel reparto di terza classe; tutto ciò avendo i polsi legati ed essendo legato a una catena con altri tre. Alle sette il vaporetto parte, viaggia per un’ora e mezza ballando e dimenandosi come un delfino, poi si ritorna indietro perché il capitano riconosce impossibile la traversata ulteriore. Si rifà all’inverso la serie delle scalette, ecc., si ritorna in carcere, si viene nuovamente perquisiti e si ritorna in cella; intanto è già mezzogiorno, non si è fatto a tempo a comandare il pranzo; fino alle 5 non si mangia, e al mattino non si era mangiato. Tutto ciò quattro volte con l’intervallo di un giorno. A Ustica erano già arrivati 4 amici: il Conca, l’ex deputato di Perugia Sbaraglini, e due di Aquila. Per qualche notte abbiamo dormito in un camerone: adesso siamo già accomodati in una casa a nostra disposizione, in sei, io, Bordiga, il Conca, lo Sbaraglini e i due di Aquila. La casa è composta di una stanza a pianterreno dove dormono due: a pianterreno c’è anche la cucina, il cesso, e un bugigattolo che abbiamo adibito a sala comune di toilette. Al primo piano, in due stanze dormiamo in 4, tre in una stanza abbastanza grande e uno nello stanzino di passaggio; un’ampia terrazza sovrasta la stanza piú grande e domina la cala. Paghiamo 100 lire al mese per la casa e due lire al giorno per il letto, la biancheria del letto e gli altri arredi domestici (due lire a testa). I primi giorni abbiamo speso molto per i pasti; non meno di 20 lire al giorno. Adesso spendiamo 10 lire al giorno di pensione per il pranzo e la cena; stiamo organizzando una mensa comune che ci permetterà forse di vivere con le 10 lire al giorno che ci ha assegnato il governo; siamo già 30 confinati politici e ancora forse deve arrivare qualcuno.

I nostri obblighi sono svariati e complessi; i piú appariscenti sono quello di non uscire di casa prima dell’alba e di rincasare alle 8 di sera; non possiamo oltrepassare determinati limiti che sono all’ingrosso rappresentati dal perimetro dell’abitato. Abbiamo però ottenuto dei permessi che ci consentono di passeggiare per tutto il territorio dell’isola con l’obbligo di rientrare nei limiti alle 5 del pomeriggio. La popolazione complessiva è di circa 1600 abitanti, dei quali 600 coatti, cioè criminali comuni che hanno subito piú condanne. La popolazione indigena è composta di siciliani, molto gentili e ospitali; con la popolazione possiamo avere dei rapporti. I coatti sono sottoposti a un regime molto restrittivo; la grande maggioranza, data la piccolezza dell’isola, non può avere nessuna occupazione e deve vivere colle 4 lire giornaliere che assegna il governo. Puoi immaginare ciò che avviene: la mazzetta (è il termine che serve a indicare l’assegno governativo) viene spesa specialmente per il vino; i pasti si riducono a un po’ di pasta con erbe e a un po’ di pane; la denutrizione porta all’alcoolismo piú depravato in brevissimo tempo. Questi coatti sono rinchiusi in speciali cameroni alle cinque del pomeriggio e stanno insieme tutta la notte (dalle cinque del pomeriggio alle sette del mattino), chiusi dal di fuori: giocano alle carte, perdono qualche volta la mazzetta di parecchi giorni e si trovano cosí presi in un girone infernale che dura all’infinito. Da questo punto di vista è un vero peccato che ci sia proibito di avere dei contatti con esseri ridotti a una vita tanto eccezionale: penso che si potrebbero fare delle osservazioni di psicologia e di folklore di carattere unico. Tutto ciò che di elementare sopravvive nell’uomo moderno, rigalleggia irresistibilmente: queste molecole polverizzate si raggruppano secondo principi che corrispondono a ciò che di essenziale esiste ancora negli strati popolari piú sommersi. Quattro divisioni fondamentali esistono: i settentrionali, i centrali, i meridionali (con la Sicilia), i sardi. I sardi vivono assolutamente appartati dal resto. I settentrionali hanno una certa solidarietà tra loro, ma nessuna organizzazione, a quanto pare; essi si fanno un punto d’onore del fatto che sono ladri, borsaioli, truffatori, ma non hanno mai versato sangue. Tra i centrali, i romani sono i meglio organizzati; non denunciano neanche le spie a quelli delle altre regioni, ma riserbano per loro la diffidenza. I meridionali sono organizzatissimi, a quanto si dice, ma tra di loro ci sono delle sottodivisioni: lo Stato Napoletano, lo Stato Pugliese, lo Stato Siciliano. Per il siciliano, il punto d’onore consiste nel non aver rubato, ma nell’avere solo versato del sangue. Tutte queste indicazioni le ho avute da un coatto che si trovava al carcere di Palermo per scontare una pena buscatasi durante il periodo di coazione e che era orgoglioso di avere, secondo il piano prestabilito, procurato una ferita della profondità di dieci centimetri (misurata, dice lui) al padrone che lo trattava male: era stabilito di dieci centimetri, e furono dieci centimetri, non un millimetro di piú. Questo il capolavoro, che lo rendeva estremamente orgoglioso. Credi che il richiamo alla novella di Kipling non era esagerato, quantunque dettato dall’impressione del primo giorno. La mia situazione finanziaria in questo tempo è stata ottima. Sono stato arrestato con 680 lire in tasca, ho visto segnate al mio attivo a Roma altre 50 lire. Le spese sono cominciate in forma allarmante solo dopo la partenza da Roma. A Palermo specialmente ci hanno letteralmente scorticati: il trattore segnava 30 lire un pacco di: una porzione di maccheroni, ½ litro di vino, ¼ di pollo, frutta, che serviva per due pasti. Sono giunto a Ustica con 250 lire che mi sono bastate per i primi 10 giorni, poi ho avuto: 100 lire di mazzette (10 lire al giorno), le tue 500 lire e 374 lire di indennità parlamentare per i giorni dal 1° al 9 novembre. Sono cosí a posto per parecchio tempo, cioè posso prendere qualche caffè, fumare le sigarette e completare la spesa giornaliera per vitto e alloggio che oggi è di 14 lire al giorno, ma che diminuirà quando avremo organizzato la mensa collettiva. Perciò non devi preoccuparti per me: non voglio assolutamente che tu personalmente debba sacrificarti per me: se hai la possibilità, manda i tuoi aiuti a Giulia che certo ha maggiori necessità di me. Non ti ho scritto la volta passata che appena giunto a Ustica ho trovato una lettera in cui mi era assicurato che Giulia avrebbe ricevuto degli aiuti e che non doveva avere preoccupazioni in proposito. Ricorrerò a te per avere qualche cosa che altrimenti non riuscirei ad avere: ma in generale sono deciso a fare in modo da vivere con la mazzetta governativa, perché ritengo che sia possibile, dopo qualche tempo di acclimatazione. Un’altra cosa importantissima ti voglio dire: l’amico Sraffa mi ha scritto che ha aperto per me un conto corrente illimitato presso una libreria di Milano, alla quale potrò richiedere giornali, riviste e libri; mi ha offerto inoltre tutti gli aiuti che voglio. Come vedi, posso guardare all’avvenire con sufficiente serenità. Se avrò l’assicurazione che Giulia e i bambini non soffriranno nessuna privazione, sarò realmente tranquillo: cara Tatiana, è questo il solo pensiero che mi ha tormentato in questo ultimo tempo e non solo dopo il mio arresto; sentivo venire questa tempesta, in modo indistinto e istintivo, e perciò piú tormentoso. Ricordi, quando mi dicesti che l’amica comune accennava alla mia superstizione? Ci ho ripensato qualche volta, non per essere piú persuaso che avevo ragione e che ho esagerato non per superstizione, ma per mancanza di decisione e per altri scrupoli che intellettualmente ritengo di carattere inferiore, ma dei quali non riesco e non riuscivo a liberarmi. In realtà, l’analisi che facevo era esatta, anche se mi era impossibile una dimostrazione obbiettiva e circostanziata.

Cosí ti ho scritto con quella abbondanza che tu desideravi, scrivendoti anche per cosettine di minima importanza. Sei contenta? Sai che ti voglio molto bene e che tanto mi dispiace quando ricordo qualche piccolo episodio in cui per disattenzione ti ho in qualche modo fatto del male? Scrivi tu a Giulia anche a mio nome; non ho voglia di mandarti i disegni per Delio: dovrei dare delle spiegazioni su di essi e ciò mi dispiace enormemente. Aspetto le fotografie. Tra i libri da mandarmi includi i seguenti: — Hauser — Les Grandes puissances, Le prospettive economiche del Mortara per il 1926, i due Berlitz – tedesco e russo. Tra gli oggetti vorrei un po’ di sapone, un po’ di acqua di colonia per la barba, uno spazzolino da denti con vetro di custodia, un po’ di dentifricio, un po’ di aspirina, una spazzola per i panni.

Carissima Tatiana, ti abbraccio affettuosamente.

Antonio

8.

21. XII. 1926

Carissimo amico[6],

ho ricevuto la tua lettera del 13; non ho invece ancora ricevuto i libri che mi annunzi. Ti ringrazio molto cordialmente dell’offerta che mi hai fatto; ho già scritto alla Libreria Sperling e ho fatto una commissione abbastanza vistosa, sicuro di non essere indiscreto, perché conosco tutta la tua gentilezza. Siamo ad Ustica in 30 confinati politici: abbiamo già iniziato tutta una serie di corsi, elementari e di cultura generale, per i diversi gruppi di confinati; inizieremo anche delle serie di conferenze. Bordiga dirige la sezione scientifica, io la sezione storico-letteraria; ecco la ragione per cui ho commissionato determinati libri. Speriamo cosí di trascorrere il tempo senza abbrutirci e giovando agli altri amici, che rappresentano tutta la gamma dei partiti e della preparazione culturale. Con me c’è Schiavello e Fiorio di Milano; di massimalisti c’è anche l’ex-deputato Conca di Milano. Di unitari c’è l’avv. Sbaraglini di Perugia e un magnifico tipo di contadino molinellese. Un repubblicano di Massa e 6 anarchici di composizione morale complessa; il resto comunisti, cioè la grande maggioranza. Ci sono 3 o 4 analfabeti o quasi; il resto ha una preparazione diversa, ma con media generale molto bassa. Tutti però sono contenti di avere la scuola, che è frequentata con grande assiduità e diligenza.

La situazione finanziaria è ancora buona: ci danno, a noi confinati politici, 10 lire al giorno; la mazzetta dei coatti comuni a Ustica è di 4 lire al giorno, nelle altre isole talvolta è anche minore, se esistono possibilità di lavoro. Noi abbiamo la facoltà di abitare nelle case private; in sei persone (io, Bordiga, Conca, lo Sbaraglini e altri due) abitiamo in una casetta per la quale spendiamo 90 lire al mese per ciascuno, tutti i servizi compresi. Contiamo di organizzare una mensa collettiva, in modo da poter soddisfare le necessità di vitto e alloggio con le 10 lire giornaliere della mazzetta. Il vitto naturalmente è pochissimo svariato: non si trovano uova, per esempio, ciò che mi annoia assai perché io non posso fare i pasti abbondanti del tipo marinaro. Il regime al quale siamo soggetti consiste: nel ritirarsi a casa alle 8 della sera e nel non uscire di casa prima dell’alba; nel non oltrepassare i limiti dell’abitato senza un permesso speciale. L’isola è piccola (8 kmq) con una popolazione di 1600 abitanti, dei quali 600 circa coatti comuni: esiste un solo gruppo di abitazioni. Il clima è ottimo, non ha fatto freddo finora; ciò non per tanto la posta giunge irregolarmente perché il vaporetto che fa la traversata 4 volte la settimana, non sempre riesce a superare il vento e i marosi. Per giungere a Ustica ho dovuto fare 4 tentativi di traversata, ciò che mi ha stancato piú della intera traduzione da Roma a Palermo. Sono però rimasto sempre in ottime condizioni di salute, con grande meraviglia dei miei amici, che tutti hanno sofferto piú di me: figurati che sono leggermente ingrassato. In questi giorni però, sia per la stanchezza arretrata, sia per il vitto che non si confà con le mie abitudini e la mia costituzione, mi sento molto snervato e spossato. Ma spero di acclimatarmi rapidamente e di liquidare definitivamente tutti i mali passati.

Ti scriverò spesso, se ciò ti farà piacere, per illudermi di trovarmi ancora nella tua gradita compagnia. Ti saluto affettuosamente

Antonio

9.

27 dicembre 1926

Carissima Tania,

da una lettera del sig. Passarge ho appreso la ragione, veramente dolorosa e spiacevole, per la quale hai ricevuto in ritardo la mia prima lettera. Credo che a quest’ora abbia ricevuto anche l’altra mia, con tutte le informazioni piú dettagliate sul mio modo di esistenza.

Come puoi immaginare, qui le novità sono minime. La vita trascorre sempre uguale; l’attesa del vaporetto, che porta notizie dalle famiglie e giornali, diventa sempre piú il problema centrale, data la cattiva stagione e la possibilità sempre incombente che la traversata fallisca. Per le feste di Natale doveva giungere la moglie di Bordiga: la prima traversata è fallita, dopo un tentativo di viaggio molto movimentato e pieno di sofferenze e Ortensia è ripartita per Napoli, senza tentare una seconda volta. Ciò ha prodotto molto dispiacere in tutti. Altra novità spiacevole è stata l’arresto e la traduzione nel carcere locale, in attesa di traduzione rispettivamente a Firenze e a Roma dei due ex deputati Damen e Molinelli: Molinelli forse partirà oggi stesso, se il vaporetto giunge.

Per me nessuna novità essenziale. Ho ricevuto già qualche libro da Sraffa, ma non posso ancora dedicarmi a uno studio determinato e sistematico. Attendo specialmente le grammatiche che ti ho domandato. Altri libri che desidero avere da te sono: un pacchetto di libri sull’Azione cattolica che avevo già riunito su un tavolino della mia stanza, ma che non so se sono rimasti insieme. Ad essi aggiungi: 6 volumi degli Annali d’Italia di Pietro Vigo, il libro su Machiavelli di Francesco Ercole e tre numeri della rivista «Politica» di F. Coppola, dove sono contenuti articoli dello stesso Ercole. Uno dei numeri di «Politica» è dell’anno 1920. Gli altri due sono del 1926 e contengono uno studio sulla «formazione delle città in Italia»; se si fossero sperduti, ambedue o uno dei due, dovresti ricomprarmeli. In generale dovreste scegliere tra i miei libri, che non sono molti, tutti i volumi di storia e spedirmeli metodicamente. Poiché non è escluso in modo assoluto che un giorno o l’altro possa capitarmi la stessa sorte di Molinelli ti sarei grato se volessi mandarmi un cucchiaio e una forchetta di legno molto solido e un portasigarette di celluloide, come è consentito portare con sé in prigione.

La salute va abbastanza bene. Ho incominciato a trovare delle uova freschissime da bere; d’ora innanzi avremo regolarmente la carne di manzo, ciò che permetterà una maggiore varietà di cibo. La quistione del sonno è ancora da risolvere: devo dormire nella stessa camera con altri due amici, ciò che determina molte occasioni di risveglio e di insonnia. Ci sarebbe una bellissima occasione: avere una stanza da solo in una villetta che potrebbe essere affittata da un amico il quale attende la moglie: ma siccome la villetta è posta di qualche metro fuori dei limiti legali dell’abitato, ci sono delle difficoltà non ancora superate.

Carissima Tatiana, devi scrivere a lungo a Giulia e convincerla che ancora non posso scriverle direttamente: non riesco a superare lo stato d’animo che ti ho già descritto. Mi sforzerò per un’altra volta. Inviami tue notizie e mandami le fotografie. Giuliano è stato già fotografato con Giulia e con Delio? Ti abbraccio affettuosamente.

Antonio

10.

29 XII 926

Carissima,

ricevo in questo momento il tuo telegramma. Sono le 10 meno ¼. Non sono sicuro che il vaporetto giungerà. Ieri c’è stata burrasca, tutta la notte ha piovuto a dirotto e la pioggia continua: probabilmente in alto mare la burrasca continua. Ero molto impressionato per non aver ricevuto lettera da te dopo quella del 14: pensavo che ti fosse capitato qualche spiacevole inconveniente; avantieri l’assillo di questo pensiero divenne cosí forte che volli telegrafare. La tua risposta mi ha tranquillato. Ti abbraccio

Antonio

Strappo un bigliettino che avevo già scritto alla signorina Nilde. In ogni caso, credo sarà utile se mi comunicherai l’indirizzo preciso della Nilde e se le domanderai il permesso di scriverle.

Il vaporetto non è venuto ieri. Non è certa neanche la sua venuta per oggi. Ti voglio ancora dare dei fastidi. Vorrei avere qualche tabella di aspirina; quella che ho ricevuto è misteriosamente sparita. Vorrei anche avere qualche pezzo di saponetta e di sapone disinfettante. Non riesco mai a fare una lista definitiva delle piccole cose che è impossibile trovare qui ad Ustica.

Saluti.

A.

11.

2. I. 1927

Carissimo[7],

ho ricevuto i libri da te annunziatimi nella penultima lettera e un primo blocco di quelli da me commissionati. Cosí ho da leggere abbondantemente per qualche tempo. Ti ringrazio della tua grande gentilezza, ma non vorrei abusare. Ti assicuro tuttavia che francamente mi rivolgerò a te ogniqualvolta avrò bisogno di qualcosa. Come puoi pensare, qui non c’è molto da spendere, anzi; mancano talvolta le possibilità di spendere, anche se la spesa è necessaria.

La vita scorre senza novità e sorprese; unica preoccupazione è l’arrivo del vaporetto che non sempre riesce a fare le quattro corse settimanali (lunedí, mercoledí, venerdí, sabato) con grande dispiacere di ognuno di noi che aspetta sempre con ansia la corrispondenza. Siamo già una sessantina, dei quali 36 amici di località diverse; predominano relativamente i romani. Abbiamo già iniziato una scuola, divisa in vari corsi: 1° corso (1a e 2a elementare), 2° c. (3a elem.), 3° c. (4a -5a elem.), corso complementare, due corsi di francese (inferiore e superiore), un corso di tedesco. I corsi sono stabiliti in relazione alla coltura nelle materie che possono ridursi ad un certo corredo di nozioni esattamente determinabili (grammatica e matematica); perciò gli allievi dei corsi elem. frequentano le lezioni di storia e geografia del corso complementare, per esempio. Insomma, abbiamo cercato di contemperare la necessità di un ordine scolastico graduale col fatto che gli allievi, anche se talvolta semianalfabeti, sono intellettualmente sviluppati. I corsi sono seguiti con grande diligenza e attenzione. Con la scuola, che è frequentata anche da alcuni funzionari e abitanti dell’isola, abbiamo evitato i pericoli di demoralizzazione che sono grandissimi. Tu non puoi immaginare in quale condizione di abbrutimento fisico e morale si siano ridotti i coatti comuni. Pur di bere venderebbero anche la camicia; molti hanno venduto le scarpe e la giacca. Un buon numero non dispone piú liberamente della mazzetta governativa di 4 lire quotidiane, perché impegnata presso gli usurai. L’usura è repressa, ma non credo sia possibile evitarla, perché gli stessi coatti, che ne sono vittime, non denunziano gli usurai che in casi eccezionalissimi. Si paga l’interesse di 3 lire la settimana per 10 lire di prestito. Gli interessi sono riscossi con estremo fiscalismo, perché gli usurai sono circondati da gruppetti di sicofanti, che per un bicchier di vino sbudellerebbero anche i bisnonni. I coatti comuni, salvo rare eccezioni, hanno molto rispetto e deferenza per noi. La popolazione dell’isola è cortesissima. D’altronde, la nostra venuta ha determinato un mutamento radicale nel luogo e lascerà larghe tracce. Si sta combinando per impiantare la luce elettrica, dato che tra i confinati ci sono i tecnici capaci di condurre a termine l’iniziativa. L’orologio del campanile, che era fermo da 6 mesi, è stato riattivato in due giorni: forse sarà ripreso il disegno di costruire la banchina nella cala d’approdo del vaporetto. I nostri rapporti con le autorità sono correttissimi.

Vorrei scriverti qualche impressione raccolta durante il viaggio, specialmente a Palermo e a Napoli. A Palermo sono rimasto otto giorni: ho tentato 4 volte la traversata, e per tre volte, dopo un’ora e più di navigazione col mare in tempesta, sono dovuto tornare indietro. È stato il pezzo piú brutto di tutta la traduzione, quello che mi ha stancato di piú. Bisognava levarsi alle 4 del mattino, andare al porto coi ferri ai polsi; sempre legati e attaccati a una catena ad altri, scendere in barchetta, salire e scendere parecchie scalette sul vaporetto, dove si rimaneva legati a un solo polso, soffrire il mal di mare, sia per la posizione incomoda (legati, sia pure a un solo polso e attaccati con ½ metro di catena agli altri, e quindi nell’impossibilità di sdraiarsi) sia perché il vaporetto molto piccolo e leggero balla anche se il mare è calmo — per tornare indietro e riprendere il mattino successivo la stessa storia. A Palermo avevamo un cameroncino molto pulito, preparato apposta per noi (deputati), perché il carcere è superpopolato e si evitava di metterci a contatto con gli arrestati della mafia. Durante il viaggio fummo sempre trattati con grande correttezza e persino con cortesia.

Ti ringrazio per il pensiero che ti sei dato di mandarmi delle uova. Adesso che sono passate le feste, le troverò freschissime sul posto. Gradirò il latte condensato svizzero, se ti piacerà mandarmelo. Non saprei cosa domandarti, anche volendolo: qui manca un po’ tutto ed è difficile procurarsi certe cose; occorre fare lunghi giri. Non esiste un servizio di corrieri con Palermo. Ti sarò grato se mi manderai un po’ di sapone per toeletta e per la barba e qualche medicinale di uso comune che può occorrere sempre, come aspirina Bayer (qui l’aspirina fa spiritare i cani) e tintura d’jodio e qualche cachet per le emicranie. Ti assicuro ancora una volta che in caso di necessità ti scriverò: hai visto come ho approfittato largamente per i libri? D’altronde ti confesso che ancora sono un po’ stordito e non ho completamente finito di orientarmi su tante cose. Scrivimi spesso: la corrispondenza è la cosa piú gradita nella mia situazione. Quando leggi qualche libro interessante come quello del Lewinsohn, mandamelo.

Ti abbraccio fraternamente

Antonio

Mandami un flaconcino di acqua di Colonia. Mi serve per disinfettarmi dopo la barba.

12.

3. I. 1927

Tania carissima,

ho ricevuto la tua lettera del 28-29. Non sono riuscito a capire la ragione per cui sei preoccupata e nervosa. Gli accenni contenuti nella lettera sono enigmatici per me. A me ed al mio amico non è stato scritto niente che possa preoccupare minimamente. Insomma, non capisco, ma sono turbato perché capisco che tu sei molto agitata. È necessario che tu mi informi di ciò che si tratta, in modo chiaro, partendo dalla persuasione che io ignoro tutto della quistione.

Carissima Tania, non devi mai assolutamente perdere la calma e la tranquillità per causa mia. Ti assicuro che io sto benissimo e che la mia esistenza scorre ottimamente. Ho ricevuto molti libri da Milano e anche da questo punto di vista sono a posto. Posso leggere e studiare. Abbiamo inoltre organizzato una scuola di cultura generale; io insegno la storia e la geografia e frequento il corso di tedesco. Mi sono abbonato a tre quotidiani e ad una quindicina di periodici; il servizio ha già cominciato a funzionare. Devo anche ricevere da Milano un mucchio di libri, perché ho largamente approfittato del conto corrente apertomi dall’amico Sraffa, il quale ha ancora aggiunto nuovi libri e nuove riviste alla lista da me inviata alla libreria dove egli si serve. Cosí, anche se ritardano molto i libri miei di Roma, niente di male: io posso ugualmente studiare e occuparmi utilmente. Insomma, devi persuaderti che a me non manca nulla e devi evitare ogni agitazione e ogni nervosismo. L’amico Sraffa mi scrive insistendo perché mi rivolga a lui anche per aiuti finanziari e per ricevere biancheria e commestibili: mi manderà del latte condensato svizzero, per cominciare. Io penso di ricorrere a lui in caso di bisogno, primo perché egli è ricco e non sarà imbarazzato nell’aiutarmi, secondo perché la sua offerta non è puramente di cortesia e accademica: mi ha spedito spontaneamente per circa 1.000 lire di libri. Cosí tu puoi essere tranquilla.

Cara Tatiana, desidero che tu mi scriva il piú spesso che puoi. La corrispondenza è ciò che di piú gradito noi tutti possiamo ricevere. Ho ricevuto le due fotografie: mandami anche le altre e mandami anche una tua fotografia. Anche a me è dispiaciuto moltissimo non averti potuto vedere e abbracciare prima della partenza. Ti racconterò tutta la storia, che dal punto di vista del carcerato è un piccolo romanzo. Alle 11 del mattino del 24 novembre ho ricevuto l’avviso che sarei partito il 26 e che ero autorizzato a telegrafare: poiché mi sembrò di cogliere un certo imbarazzo nell’espressione dell’agente di custodia che mi fece la comunicazione, non feci subito il telegramma. Poiché il carcere è una specie di cassa di risonanza, in cui per fili invisibili e molteplici si comunicano ad ogni cella le notizie che interessano o possono interessare i vari detenuti, mi posi in contatto con questi misteriosi fluidi e seppi che dovevo partire il mattino del 25 e non del 26, cioè il giorno dopo. Se avessi telegrafato subito avrei dato una falsa indicazione. Riuscii a ottenere di uscire dalla cella e di recarmi da un superiore che mi confermò che dovevo partire il 25: l’agente di custodia, che era presente, si scusò di avermi ingannato, pretestando una avvenuta confusione tra me e altri partenti. Cosí il telegramma partí alle 2 del pomeriggio. Ero certo che tu saresti venuta, se avessi ricevuta la comunicazione, ma non sapevo se era a tua conoscenza che i colloqui erano permessi fino alle 11 e non sapevo se tu avresti avuto la concessione. Dopo le 7, ora regolamentare in cui occorre mettersi a letto, incominciò una lotta con il carceriere che mi imponeva di coricarmi, mentre io volevo rimanere pronto per scendere alla prima chiamata. Riuscii a spuntarla non solo, ma alle 10 ottenni di scendere negli uffici: volevo assicurarmi contro nuovi trucchi che mi impedissero il possibile colloquio. Pioveva a dirotto. Alle 11 andai a letto, ma non riuscii a dormire: alle 3 del mattino partii, prendendo come sacco da viaggio la fodera di cuscino mandatami da te e che mi ha servito ottimamente fino a Ustica: anche con le manette la potevo portare comodamente, mentre una valigia, sbattendo continuamente sulle gambe, avrebbe recato molte noie.

Carissima Tatiana, la prossima volta scriverò una lunga lettera per Giulia; ancora non mi sento. Scrivimi subito e mandami le fotografie; per il resto non preoccuparti.

Ti abbraccio affettuosamente

Antonio

13.

7. gennaio 1927

Carissima Tania,

ho ricevuto la tua lettera del 4 gennaio, un pacco contenente oggetti di toilette e il sacco da viaggio e un secondo pacco contenente dei panettoni che però deve essere giunto con molto ritardo. Davvero non posso accettare il consiglio di… trovare dei capricci. Purtroppo, nella condizione in cui devo vivere, i capricci nascono da soli: è incredibile come gli uomini costretti da forze esterne a vivere in modi eccezionali e artificiali sviluppino con particolare alacrità tutti i lati negativi del loro carattere. Specialmente gli intellettuali, o, per meglio dire, quella categoria di intellettuali che in italiano volgare si chiamano mezze calzette. I piú calmi, sereni e misurati sono i contadini; poi vengono gli operai, poi gli artigiani, quindi gli intellettuali, tra i quali passano raffiche improvvise di follia assurda e infantile. Parlo naturalmente dei confinati politici, non dei coatti comuni, la cui vita è primitiva ed elementare e nei quali le passioni raggiungono, con rapidità spaventosa, i culmini della pazzia: in un mese si son verificati tra i coatti comuni cinque o sei fatti di sangue.

Dunque non seguirò il tuo consiglio di fare capricci. Però hai ragione: talvolta io sono cattivo involontariamente e offendo i miei amici senza saperlo. Ciò dipende, credo, dal fatto che sono sempre vissuto isolato, senza famiglia e ho dovuto ricorrere per i miei bisogni a estranei: ho sempre perciò avuto timore di dare fastidio e di importunare. Ma non c’era in me nessun misconoscimento del tuo affetto e della tua bontà. Ricorrerò a te ogni volta che ne avrò bisogno, con l’impegno, da parte tua, di essere estremamente franca sulle tue possibilità e di non crearti imbarazzi inutili e pericolosi. L’inchiostro che mi hai mandato va benissimo; cosí vanno bene tutte le altre cose. Ho ricevuto le fotografie: Delio ha avuto un gran successo di ammirazione. Credi che ho scoperto di avere una dose di pazienza e di forza che non credevo di possedere: solamente Bordiga può competere con me. Siamo i soli che in tutto questo periodo non abbiamo sentito malesseri di nessuna sorte, mentre gli altri, chi piú chi meno, hanno avuto febbri influenzali e disturbi viscerali per il radicale mutamento dei cibi e per l’acqua, nella quale nuotano visibilmente degli esemplari, magnifici per agilità, della razza dei tritoni. Non ho ancora cominciato nessun lavoro serio finora, quantunque abbia già a mia disposizione una discreta quantità di libri; ho iniziato però le lezioni di storia nel corso di cultura generale che abbiamo organizzato. Perciò non devi preoccuparti per la spedizione rapida dei libri.

Invece ho proprio bisogno di un po’ di soldi. Credevo di averne a sufficienza almeno per tre mesi: ho dovuto spendere per aiutare un certo numero di confinati giunti senza risorse e ho dovuto antecipare per le spese generali della mensa comune che si inizierà dopodomani, 9. Il periodo delle spese impreviste è ormai trascorso: la mensa comune ci permetterà di sottrarci a tante piccole e grosse spese cui siamo stati soggetti finora per il mangiare. Vedi che te lo dico francamente: mi occorrerebbero un 200 lire e non ho proprio voglia di domandarle allo Sraffa che si trova in questo momento lontano dalla sua sede.

Carissima Tania, vorrei proprio saperti tranquilla e senza nessun assalto di malinconia. Ma devi scrivermi lo stesso e confessarti con me: le tue lettere mi fanno un gran piacere, perché mi sento, per ognuna di esse, vicino a te. Sai che ho ricevuto una cartolina da Giulia con la firma autografa di Delio? Sembra incredibile: il mondo è sempre più piccolo di quanto si pensa. Ti scriverò ancora a lungo per la posta di lunedí, sebbene ci sia la probabilità che lunedí il vaporetto non giunga. Siamo entrati nell’inverno anche ad Ustica. Inverno molto mite, perché si può andare in giro senza cappello e senza soprabito; ma piove spesso e soffiano spesso venti molto violenti che turbano il mare e impediscono la traversata. Ma, anche, che magnifiche giornate! Non puoi immaginare quali tinte riesca a prendere il mare e il cielo nelle giornate serene.

Saluta Giacomo e la moglie. Ho conosciuto l’amico di Valentino, che è un bravissimo ragazzo. Ti abbraccio

Antonio

Spediscimi qualche numero del «Temps» e del «Journal des débats»: li puoi trovare nell’edicola del Palazzo delle Finanze.

Le scarpe che mi descrivi saranno buone per la prossima primavera, penso. Quelle che avevo nei piedi al momento della partenza, nonostante che fossero scucite (ti ricordi?) resistono mirabilmente.

Mandami notizie sulla pianticella di limone: è cresciuta? quanto è alta, ormai? è vitale? volevo scrivertene, ma poi ho trascurato, per non parere troppo… infantile.

14.

8 gennaio 1927

Mia carissima Julca,

ho ricevuto le tue lettere del 20 e del 27 dicembre e la cartolina del 28 con la firma autentica di Delio. Ho cercato di scriverti diverse volte: non sono mai riuscito. Dalle tue lettere vedo che Tania te ne ha spiegato il motivo un po’ puerile, è vero, ma tuttavia decisivo finora. Mi ero proposto di scrivere per te una specie di diario, una serie di quadretti su tutta la mia vita in questo periodo originale e sufficientemente interessante: lo farò indubbiamente. Voglio cercare di darti tutti gli elementi perché tu sia in grado di rappresentarti la mia vita nel suo complesso e nei particolari piú notevoli. Cosí tu dovrai fare per te. Mi piacerebbe tanto sapere quali rapporti si vanno sviluppando tra Delio e Giuliano: come Delio concepisce ed esprime la sua funzione di fratello maggiore e piú ricco di esperienza.

Carissima Giulia, domanda al Bracco da quale mai fonte gli era giunta la notizia che io mi sia mai trovato in non buone condizioni di salute. In verità, non supponevo di avere un magazzino cosí fornito di forza fisica e di energia. Io e Bordiga non abbiamo mai sofferto nulla dal momento dell’arresto; tutti gli altri, chi in un modo chi in un altro, hanno subito crisi, talvolta gravissime, di nervi e tutte dello stesso genere. Nelle carceri di Palermo, il Molinelli, in una stessa notte, è svenuto tre volte durante il sonno cadendo in preda a convulsioni che duravano fino a 20 minuti, senza che fosse possibile chiamare nessuno. Qui ad Ustica, un amico abruzzese, il Ventura, che dorme nella stessa mia camera, per molte notti si risvegliava continuamente in preda ad incubi selvaggi che lo facevano urlare e sussultare in modo impressionante. Io non ho avuto nessun malessere, eccetto quello di dormir poco, cosa non nuova e che, d’altronde, non poteva avere le conseguenze di prima, data l’inerzia forzata in cui ero ridotto: e tuttavia il mio viaggio è stato il piú disagiato e tormentato, perché il mare tempestoso ha impedito per tre volte di compiere il viaggio fino ad Ustica. Sono diventato molto fiero di questa virtú di resistenza fisica che non supponevo di avere; perciò te ne ho parlato: è anch’essa un valore, nella mia attuale situazione, e non dei piú spregevoli.

Ti scriverò molto a lungo e ti descriverò minutamente tutta la mia vita. Anche tu mi scriverai o mi farai scrivere da Genia o dalla mamma, sulla vita dei bambini e vostra; tu devi essere molto occupata e affaticata. Sento che voi tutti siete molto vicini. Ti abbraccio teneramente.

Antonio

15.

15. I. 1927

Carissima Tania,

l’ultima lettera da te inviatami ha la data del 4 gennaio. Mi hai lasciato 11 giorni senza tue notizie. Nelle condizioni in cui mi trovo, ciò mi preoccupa molto. Credo sia possibile mettere d’accordo le esigenze reciproche, con lo impegno da parte tua di inviarmi almeno una cartolina ogni tre giorni. Io ho già incominciato a seguire questo sistema. Quando non ho argomento per una lettera, e per me ciò è il caso piú comune, ti invierò almeno una cartolina, in modo da non tralasciare nessuna corsa postale: la vita trascorre qui monotona, uniforme, senza sbalzi. Dovrei forse descriverti qualche scenetta di vita paesana, se avessi del buon umore a sufficienza. Per esempio, potrei descriverti l’arresto di un maiale, trovato a pascolare illegittimamente per le strade del paese e condotto regolarmente in prigione: il fatto mi ha divertito enormemente, ma sono sicuro che né tu né Giulia vorrete credermi; forse mi crederà Delka quando avrà qualche anno in piú e sentirà raccontarsi la storiella insieme alle altre dello stesso tipo (quella degli occhiali verdi, ecc.) ugualmente vere e da credersi senza sorrisi. Anche il modo di arrestare il maiale mi ha divertito: lo si prende per le zampe di dietro e lo si spinge avanti come una carriola, mentre urla come un indemoniato. Non ho avuto modo di avere precise informazioni sul come sia possibile identificare l’abusività del pascolo e del transito: penso che i sorveglianti all’igiene conoscano tutto il bestiame minuto del paese. Un’altra particolarità di cui non ti ho mai fatto cenno è che non ho ancora visto in tutta l’isola nessun mezzo di locomozione all’infuori dell’asino, magnifico animale invero, di grande statura e di una domesticità notevole, che indica l’indole buona degli abitanti: al mio paese gli asini sono mezzo selvaggi e non si lasciano avvicinare che dai padroni immediati. Ancora, in linea animalesca: ho sentito ieri una magnifica storia di cavalli, raccontata da un arabo qui confinato. L’arabo parlava l’italiano in modo alquanto bislacco e con molte oscurità: ma nell’insieme il suo racconto era pieno di colore e di forza descrittiva. Ciò mi fa ricordare, per una associazione molto strana, che ho saputo essere possibilissimo trovare in Italia il famoso grano saraceno: degli amici veneti mi dicono che esso è abbastanza comune nel Veneto per fare la polenta.

Ho cosí esaurito un certo stok di argomenti trattabili. Spero di averti fatto un po’ sorridere: mi pare che il tuo lungo silenzio debba essere interpretato come una conseguenza di melanconia e di stanchezza e che fosse proprio necessario farti sorridere. Cara Tania, devi scrivermi, perché solo da te io ricevo lettere: quando mi manca la tua corrispondenza cosí a lungo, mi pare di essere ancora più isolato, che tutti i miei rapporti col mondo siano spezzati. Ti abbraccio affettuosamente.

Antonio

16.

15. 1. 1927

Mia carissima Julca,

ti voglio descrivere la mia vita quotidiana nelle sue linee piú essenziali, perché tu possa seguirla e coglierne di tanto in tanto qualche tratto. Come sai, perché deve avertelo già scritto Tania, io abito insieme ad altri quattro amici, fra i quali l’ingegnere Bordiga di Napoli, del quale forse conosci il nome. Gli altri tre sono: un ex deputato riformista di Perugia, l’avv. Sbaraglini e due amici abruzzesi. Adesso dormo in una stanza con uno di questi abruzzesi, Piero Ventura; prima dormivamo in tre, perché era insieme a noi l’ex deputato massimalista di Verona Paolo Conca, un simpatico tipo di operaio, che la notte non ci lasciava dormire perché assillato dal pensiero della moglie; sospirava, soffiava, poi accendeva il lume e fumava dei sigari pestilenziali. La moglie è finalmente venuta anche lei ad Ustica per raggiungere il marito e il Conca ci ha lasciato. Siamo dunque in cinque, divisi in tre camerette da letto (tutta la casa): abbiamo a nostra disposizione una bellissima terrazza, dalla quale ammiriamo lo sconfinato mare durante il giorno e il magnifico cielo durante la notte. Il cielo sgombro di ogni fumosità cittadina, permette di godersi queste meraviglie col massimo di intensità. I colori dell’acqua marina e del firmamento sono veramente straordinari per la varietà e la profondità: ho visto degli arcobaleni unici nel loro genere.

Al mattino, di solito, io sono il primo a levarmi; l’ingegnere Bordiga afferma che in questo momento il mio passo ha caratteristiche speciali, è il passo dell’uomo che non ha ancora preso il caffè e lo attende con una certa impazienza. Io stesso faccio il caffè, se non sono riuscito a convincere il Bordiga a farlo, date le sue attitudini spiccate per la cucina. Incomincia quindi la nostra vita: si va a scuola, come insegnanti o come scolari. Se è giorno di posta, si va sulla marina ad attendere con ansia l’arrivo del vaporetto: se per il cattivo tempo la posta non giunge, la giornata è rovinata, perché una certa malinconia si diffonde su tutti i volti. A mezzogiorno si mangia: io partecipo ad una mensa comune e proprio oggi mi spetta fare da cameriere e da sguattero: non so ancora se dovrò sbucciare le patate, preparare le lenticchie o pulire l’insalata prima di servire in tavola. Il mio debutto è atteso con molta curiosità: parecchi amici volevano sostituirmi nel servizio, ma io sono stato incrollabile nel volere adempiere la mia parte. La sera dobbiamo rientrare nelle nostre abitazioni alle 8. Talvolta vengono delle visite di sorveglianza per accertare se veramente siamo in casa. A differenza dei coatti comuni noi non siamo chiusi dal di fuori. Altra differenza consiste nel fatto che la nostra libera uscita dura fino alle 8 e non solamente fino alle 5; potremmo avere dei permessi serali se fossero necessari per qualche cosa. In casa, alla sera giuochiamo alle carte. Non avevo giocato mai finora; il Bordiga assicura che ho la stoffa per diventare un buon giocatore di scopone scientifico. Ho già ricostituito una certa bibliotechina e posso leggere e studiare. I libri e i giornali che mi arrivano hanno già determinato una certa lotta tra me e il Bordiga, il quale sostiene a torto che io sono molto disordinato; a tradimento egli mette il disordine tra le cose mie, con la scusa della simmetria e dell’architettura: ma in realtà io non riesco piú a trovar nulla nel guazzabuglio simmetrico che mi trovo combinato.

Carissima Julca: scrivimi a lungo sulla vita tua e dei bambini. Appena è possibile, mandami la fotografia di Giuliano. Delka ha fatto ancora molti progressi? Gli sono cresciuti nuovamente i capelli? La malattia ha lasciato in lui qualche conseguenza? Scrivimi molto di Giuliano. E Genia è guarita? Ti abbraccio stretta stretta

Antonio

17.

Milano, 12 febbraio 1927

Carissime[8],

vi scrivo insieme, per utilizzare meglio le poche lettere che mi è concesso scrivere. Sono partito da Ustica il 20 mattino, all’improvviso: ho fatto appena a tempo a dettare una breve lettera e a far spedire un telegramma per avvertirvi. Credevo di passare in transito a Roma; invece a quanto pare per errata interpretazione del telegramma che disponeva per il mio arresto, fui tradotto a Milano per traduzione ordinaria e non straordinaria: cosí rimasi in viaggio 19 giorni. A Isernia mi riuscì di spedire un telegramma che vi avvertiva del cambiato itinerario. Questo viaggio è stato per me triplice o quadruplice collaudo, sia dal punto di vista morale che, e specialmente, da quello fisico. Non voglio descriverlo minutamente ancora, per non spaventarvi e non darvi l’impressione che io mi trovi nelle condizioni di uno straccio. In questi 19 giorni ho «abitato» nelle seguenti carceri: Palermo, Napoli, Caianello, Isernia, Sulmona, Castellamare Adriatico, Ancona, Bologna; il 7 a notte sono giunto a Milano. A Caianello e a Castellamare non ci sono carceri; ho «dormito» nelle camere di sicurezza delle Caserme dei Carabinieri; sono state le due piú brutte notti che ho trascorso, forse in tutta la mia vita. A Castellamare ho preso un formidabile raffreddore, che ora mi è quasi passato.

Nelle traversate Ustica-Palermo e Palermo-Napoli il mare era pessimo; tuttavia non ho sofferto. La traversata Palermo-Napoli merita di essere descritta: lo farò in altra lettera, quando avrò ripensato a tutti i particolari e avrò rinfrescato la memoria.

In generale il viaggio è stato per me come una lunghissima cinematografia: ho conosciuto e visto un’infinità di tipi, dai piú volgari e repugnanti ai piú curiosi e ricchi di caratteristiche interessanti.

Ho capito come sia difficile comprendere dai segni esteriori la vera natura degli uomini; per esempio, ad Ancona, un vecchietto bonario e dalla faccia di onesto popolano di provincia, mi domandò di cedergli la mia minestra che avevo deciso di non mangiare; lo feci volentieri, colpito dalla serenità dei suoi occhi e dalla modestia spigliata del suo fare; fui avvertito subito che era un repugnante mascalzone: aveva violentato la figlia.

Vi voglio dare una impressione d’insieme della traduzione. Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un immenso verme, che si compone e si decompone continuamente, lasciando in ogni carcere una parte dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi, vibrando a destra e a sinistra delle formazioni e incorporandosi le estrazioni di ritorno. Questo verme ha dei covili, in ogni carcere, che si chiamano transiti, dove si rimane dai 2 agli 8 giorni, e che accumulano, raggrumandole, la sozzurra e la miseria delle generazioni. Si arriva, stanchi, sporchi, coi polsi addolorati per le lunghe ore di ferri, con la barba lunga, coi capelli in disordine, con gli occhi infossati e luccicanti per l’esaltazione della volontà e per l’insonnia; ci si butta per terra su pagliericci che hanno chissà quale vetustà, vestiti, per non aver contatti col sudiciume, avvolgendosi la faccia e le mani nei propri asciugamani, coprendosi con coperte insufficienti tanto per non gelare. Si riparte ancora piú sporchi e stanchi, fino al nuovo transito, coi polsi ancora piú lividi per il freddo dei ferri e il peso delle catene e per la fatica di trasportare, cosí agghindati, i propri bagagli: ma, pazienza, ora tutto è passato e mi sono già riposato.

Sto qui, in una cella buona, riscaldata dal sole, coperto da un maglione che ho acquistato subito e finalmente ho cacciato il freddo dalle mie vecchie ossa.

Vi descriverò in altre lettere alcuni dei miei compagni di catena e di viaggio: ne ho una serie, abbastanza interessante.

Mi ha colpito specialmente un ergastolano (cioè condannato a vita), incontrato a Napoli, durante l’«aria», ho saputo solo il suo nome, Arturo, e questi particolari: che ha 46 anni, che ha già compiuto 22 anni di pena, dei quali 10 di segregazione (isolato), che è calzolaio tagliatore.

È un uomo bello, slanciato, dai tratti fini ed eleganti; parla con una precisione, una chiarezza, una sicurezza da sbalordire. Non ha una grande cultura, sebbene citi spesso Nietzsche: diceva Dies iràë, sdoppiando l’a-e. Lo vidi a Napoli, sereno, sorridente, tranquillo; aveva come una tinta pergamenacea sulle tempie e nelle orecchie, la pelle ingiallita, cioè, e come conciata. Partí da Napoli due giorni prima di me. Lo rividi ad Ancona, all’arrivo in stazione, sotto la pioggia: gli avevano fatto fare la linea Campobasso-Foggia, credo, e non quella Caianello-Castellamare, perché, ergastolano, avrebbe, in questi transiti, tentato la fuga, arrischiando sia pure un colpo di moschetto da parte dei carabinieri. Mi salutò, avendomi subito riconosciuto. Lo rividi all’ufficio matricola del carcere di Ancona: gli avevano lasciato i ferri, perché doveva andare in cella, essendo giunto a destinazione, e doveva attraversare dei cortili, sia pure interni. Era cambiato completamente da Napoli: davvero che mi richiamò Farinata: la faccia dura, angolosa, gli occhi pungenti e freddi, il petto in fuori, tutto il corpo teso come una molla pronta allo scatto: mi strinse la mano due o tre volte e sparí, inghiottito dalla casa di pena.

Basta: vedete, ho chiacchierato come una donnicciola. Sappiate per ora che sto bene, che non ho bisogno di nulla, che sono tranquillo e che attendo notizie vostre e dei bambini. Delio si ricorda di me qualche volta? Dovete mandarmi la fotografia di Giuliano. Abbraccio tutti teneramente.

Antonio

18.

19. II. 1927

Carissima Tania,

da un mese e dieci giorni non ricevo tue notizie e non so darmene spiegazioni. Come già ti ho scritto una settimana fa, al momento della mia partenza da Ustica, il vaporetto non aveva approdato da quasi dieci giorni: col vaporetto che mi trasportò a Palermo avrebbero dovuto giungere a Ustica almeno un paio di tue lettere che avrebbero dovuto essermi ritrasmesse a Milano; invece nella corrispondenza che ho qui ricevuto di ritorno dall’isola, non ho trovato niente di tuo. Carissima, se ciò dipende da te e non già (come è possibile e probabile) da qualche intralcio amministrativo, devi evitare di farmi stare in ansia così a lungo: isolato come sono, ogni novità e ogni interruzione di normalità portano a pensieri assillanti e penosi. Le tue ultime lettere, ricevute a Ustica, erano veramente un po’ preoccupanti; cosa sono queste preoccupazioni sulla mia salute, che giungono fino a farti star male fisicamente? Ti assicuro che sono stato sempre abbastanza bene e che ho in me delle energie fisiche che non sono facilmente esauribili, nonostante le apparenze di gracilità. Credi che non abbia voluto dir nulla l’aver sempre fatto una vita estremamente sobria e rigorosa? Me ne accorgo ora cosa ha voluto dire non aver mai avuto gravi malattie e non aver inferto all’organismo nessuna ferita decisiva; posso stancarmi orribilmente, è vero; ma un po’ di riposo e di nutrimento mi fanno rapidamente riacquistare la normalità. Insomma non so cosa scriverti per farti stare calma e sana: dovrò ricorrere alle minaccie? Potrei non scriverti piú, sai, e far sentire anche a te cosa significa mancare completamente di notizie.

Ti immagino seria e tetra, senza un sorriso neanche fuggevole. Vorrei farti rallegrare in qualche modo. Ti racconterò delle storielle; che te ne pare? Ti voglio, per esempio, come intermezzo alla descrizione del mio viaggio in questo mondo cosí grande e terribile, dire qualcosa intorno a me stesso e alla mia fama, di molto divertente. Io non sono conosciuto all’infuori di una cerchia abbastanza ristretta; il mio nome è storpiato perciò in tutti i modi piú inverosimili: Gramasci, Granusci, Grámisci, Granísci, Gramásci, fino a Garamáscon, con tutti gli intermedi piú bizzarri. A Palermo, durante una certa attesa per il controllo dei bagagli, incontrai in un deposito un gruppo di operai torinesi diretti al confino; insieme a loro era un formidabile tipo di anarchico ultra individualista, noto coll’indicazione di «Unico» che rifiuta di confidare a chiunque, ma specialmente alla polizia e alle autorità in generale, le sue generalità: «sono l’Unico e basta», ecco la sua risposta. Nella folla che attendeva, l’Unico riconobbe tra i criminali comuni (mafiosi) un altro tipo, siciliano (l’Unico deve essere napoletano o giú di lí), arrestato per motivi compositi, tra il politico e il comune, e si passò alle presentazioni. Mi presentò: l’altro mi guardò a lungo, poi domandò: «Gramsci, Antonio?» Sí, Antonio!, risposi. «Non può essere, replicò, perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo cosí piccolo». — Non disse piú nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno strumento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Cartagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute. Evitò accuratamente di parlare ancora con me durante il tempo in cui restammo ancora nello stesso camerone e non mi salutò quando ci separarono. — Un altro episodio simile mi successe più tardi, ma, credo, ancor piú interessante e complesso. Stavamo per partire; i carabinieri di scorta ci avevano già messo i ferri e le catene; ero stato legato in un modo nuovo e spiacevolissimo, poiché i ferri mi tenevano i polsi rigidamente, essendo l’osso del polso fuori del ferro e battendo contro il ferro stesso in modo doloroso. Entrò il capo scorta, un brigadiere gigantesco, che nel fare l’appello si fermò al mio nome e mi domandò se ero parente del «famoso deputato Gramsci». Risposi che ero io stesso quell’uomo e mi osservò con sguardo compassionevole e mormorando qualcosa di incomprensibile. A tutte le fermate lo sentii che parlava di me, sempre qualificandomi come il «famoso deputato», nei crocchi che si formavano intorno al cellulare (devo aggiungere che mi aveva fatto mettere i ferri in modo piú sopportabile), tanto che, dato il vento che spira, pensavo che, oltre tutto, potevo avere anche qualche bastonata da qualche esaltato. A un certo momento, il brigadiere, che aveva viaggiato nel secondo cellulare, passò in quello dove mi trovavo io e attaccò discorso. Era un tipo straordinariamente interessante e bizzarro, pieno di «bisogni metafisici», come direbbe Schopenhauer, ma che riusciva a soddisfarli nel modo piú bislacco e disordinato che si possa immaginare. Mi disse che si era immaginato sempre la mia persona come «ciclopica» e che era molto disilluso da questo punto di vista. Leggeva allora un libro di M. Mariani, l’Equilibrio degli egoismi, e aveva appena finito di leggere un libro di un certo Paolo Gilles, di confutazione al marxismo. Io mi guardai bene dal dirgli che il Gilles era un anarchico francese senza nessuna qualifica scientifica o d’altro: mi piaceva sentirlo parlare con grande entusiasmo di tante idee e nozioni disparate e sconnesse, come può parlarne un autodidatta intelligente ma senza disciplina e metodo. A un certo punto cominciò a chiamarmi «maestro». Mi sono divertito un mondo, come puoi immaginare. E cosí ho fatto l’esperienza della mia «fama». Che te ne pare?

Ho quasi finito la carta. Volevo minutamente descriverti la mia vita qui. Lo farò schematicamente. Mi levo al mattino alle sei e mezza, mezz’ora prima della sveglia. Mi faccio un caffè caldissimo (qui a Milano è permesso il combustibile «Meta», molto comodo e utile): faccio la pulizia della cella e la toilette. Alle 7½ ricevo ½ litro di latte ancora caldo che bevo immediatamente. Alle 8 vado all’aria, cioè alla passeggiata, che dura due ore. Mi porto un libro, passeggio, leggo, fumo qualche sigaretta. A mezzogiorno ricevo il pranzo di fuori e cosí alla sera ricevo la cena: non riesco a mangiare tutto, quantunque mangi piú che a Roma. Alle sette di sera vado a letto e leggo fino alle 11 circa. Ricevo durante il giorno cinque giornali quotidiani: Corriere, Stampa, Popolo d’I., Giornale d’I., Secolo. Sono abbonato alla biblioteca, con doppio abbonamento e ho diritto a 8 libri la settimana. Compro ancora qualche rivista e «Il Sole», giornale economico-finanziario di Milano. Cosí leggo sempre. Ho letto già i Viaggi di Nansen e altri libri di cui ti parlerò un’altra volta. Non ho sentito malesseri di sorta, all’infuori del freddo dei primi giorni. Scrivimi, carissima, e mandami notizie di Giulia, di Delio, di Giuliano, di Genia e di tutti gli altri: e tue notizie, tue notizie. Ti abbraccio.

Antonio

La passata lettera e questa non sono affrancate, perché mi sono dimenticato in tempo utile di acquistare i francobolli.

19.

26 febbraio 1927

Carissima mamma,

mi trovo a Milano nelle carceri giudiziarie di San Vittore, fin dal 7 febbraio. Sono partito da Ustica il 20 gennaio e mi è stata qui trasmessa una tua lettera, senza data, ma che deve essere dei primi giorni di febbraio. Non devi preoccuparti di questo mutamento nelle mie condizioni; esso aggrava solo fino ad un certo punto il mio stato; c’è solo un aumento di seccature e di noie, niente altro. Non voglio neanche dirti minutamente in che consiste l’accusa che mi si fa, poiché neanche io sono bene riuscito a comprenderlo fin’ora; si tratta in ogni modo delle solite quistioni politiche per le quali ero già stato colpito coi cinque anni di confino a Ustica. Ci vorrà pazienza ed io pazienza ne posseggo a tonnellate, a vagoni, a case (ti ricordi come diceva Carlo quando era piccino e mangiava qualche dolce saporito? «Ne vorrei cento case»; io di pazienza ne ho kentu domus e prus).

Dovrai tu aver pazienza e bontà, però. La tua lettera invece mi pare che mi ti mostri in tutt’altro stato d’animo. Scrivi che ti senti vecchia ecc. Ebbene, io sono sicuro che tu sei ancora molto forte e resistente, nonostante la tua età e i grandi dolori e le grandi fatiche che hai dovuto attraversare.

Corrias, corriazzu, ti ricordi? Sono sicuro che ci vedremo ancora tutti assieme, figli, nipoti e forse, chissà, pronipoti, e faremo un grandissimo pranzo con kulurzones e pardulas e zippulas e pippias de zuccuru e figu sigada (non di quei fichi secchi, però, di quella famosa zia Maria di Tadasuni). Credi che a Delio piaceranno i pirichittos e le pippias de zuccuru? Penso di sí e che anche lui dirà di volerne cento case; non puoi credere quanto rassomigli a Mario e a Carlo bambini, per quanto io ricordi, specialmente a Carlo, a parte il naso che Carlo aveva allora appena rudimentale.

Qualche volta penso a tutte queste cose e mi piace di ricordare i fatti e le scene della fanciullezza: ci trovo molti dolori e molte sofferenze, è vero, ma anche qualcosa di allegro e di bello. E poi ci sei sempre tu, cara mamma, e le tue mani sempre affaccendate per noi, per alleviarci le pene e per trarre una qualche utilità da ogni cosa. Ti ricordi i miei agguati per avere il caffè buono, senza orzo e altre porcherie del genere? Vedi: quando penso a tutte queste cose penso anche che Edmea non avrà questi ricordi da grande e che ciò influirà molto sul suo carattere, determinando in lei una certa mollezza e un certo sentimentalismo che non sono molto raccomandabili in questo tempo di ferro e di fuoco, nel quale viviamo. Siccome anche Edmea dovrà farsi la strada da sé, occorre pensare a rafforzarla moralmente, a impedire che essa vada crescendo circondata dai soli elementi della vita fossilizzata del paese. Penso che voi dovete spiegarle, con molto tatto, naturalmente, perché Nannaro non si occupi troppo di lei e pare la trascuri. Dovete spiegarle come suo padre non possa oggi ritornare dall’estero e come ciò sia dovuto al fatto che Nannaro, come me e molti altri abbiano pensato che le molte Edmee che vivono in questo mondo dovrebbero avere una fanciullezza migliore di quella che noi abbiamo trascorso e lei stessa trascorre. E dovete dirle, senza nessun sotterfugio, che io sono in prigione, cosí come suo padre è all’estero. Dovete, certamente, tenere conto della sua età e del suo temperamento ed evitare che la poveretta si affligga troppo, ma dovete anche dirle la verità e cosí accumulare in lei ricordi di forza, di coraggio, di resistenza ai dolori e alle traversie della vita.

Carissima mamma, non devi preoccuparti per me e non devi pensare che io stia male. Per quanto è possibile, io sto bene. Ho una cella a pagamento, cioè un letto abbastanza buono: ho persino uno specchio per rimirarmi. Ricevo da una trattoria due pasti al giorno; al mattino prendo mezzo litro di latte. Ho a mia disposizione una macchinetta per riscaldare le vivande e farmi il caffè. Leggo sei giornali al giorno e otto libri alla settimana, con in piú riviste illustrate e umanistiche. Ho le sigarette Macedonia. Insomma, dal punto di vista materiale, non soffro di nessuna mancanza sensibile. Non posso scrivere quanto mi pare e ricevo la posta molto irregolarmente; questo sí. Da circa un mese e mezzo non ho notizie di Giulia e dei due bambini; perciò non posso scriverti niente intorno a loro. So, però, che dal punto di vista materiale sono al sicuro e che Delio e Giuliano non mancano di nulla.

A proposito, hai ricevuto una bellissima fotografia di Delio che doveva esserti spedita? Se l’hai ricevuta, scrivimi le tue impressioni.

Carissima mamma, ti prometto di scriverti almeno ogni tre settimane e di tenerti allegra; anche tu scrivimi e fammi scrivere da Carlo, da Grazietta, da Teresina, da papà, da Paolo e anche da Edmea, la quale, penso, deve essere già avanti e sapere compilare qualche letterina; ogni lettera che ricevo è una grande consolazione e un bel divertimento per me.

Abbraccio teneramente tutti; a te, carissima mamma, un piú tenero abbraccio

Nino

Il mio indirizzo è ora: Carceri giudiziarie – Milano.

20.

26. II. 1927

Carissima Tania,

da circa un mese e mezzo sono ormai privo di notizie tue, di Giulia e dei bambini. Sono sicuro che tu mi hai scritto. Non so a che attribuire il fatto che le tue lettere non mi pervengono. Una spiegazione potrebbe trovarsi in ciò che qualche lettera mi è stata indirizzata (non so perché) al Carcere Militare e che nelle buste ho trovato scritto a matita: «non c’è»; è possibile che per questa ragione qualche altra lettera sia andata smarrita. Ma non mi sembra possibile che «tutte» le tue lettere siano andate smarrite; penso allora che ci sia un qualche misterioso provvedimento per cui una parte della mia corrispondenza non mi venga trasmessa. Non sono neanche sicuro, pertanto, che le mie lettere ti giungano; nel caso affermativo, e per ogni evenienza, pensando che nelle tue lettere ci sia stato un sia pure lontano accenno al provvedimento che mi ha colpito, ti prego di evitare tali possibili accenni, anche i piú vaghi e indiretti e limitarti alle sole notizie familiari.

Carissima Tania, se questa mia lettera ti giunge, scrivimi subito e informami sulle condizioni tue, di Giulia e dei bambini; non tener conto delle precedenti lettere che mi hai certamente scritto; ripeti tutte le notizie. È questa la sola mia preoccupazione ed essa mi affligge in modo che non ti so dire.

Carissima Tania, ti abbraccio affettuosamente.

Antonio

Mio indirizzo: – Carceri giudiziarie – Milano. È questa la terza lettera che ti spedisco da Milano.

21.

19. III. 1927.

Carissima Tania,

ho ricevuto in questa settimana due tue cartoline; una del 9 e l’altra dell’ 11 marzo: non ho invece ricevuto la lettera alla quale accenni. Credevo di ricevere la corrispondenza tua, trasmessa da Ustica: mi è infatti giunto un pacco di libri dall’isola e lo scrivanello che me li consegnò mi disse che nel pacco erano contenute anche delle lettere chiuse e delle cartoline che dovevano ancora passare all’ufficio di revisione; spero di riceverle tra giorni.

Ti ringrazio delle notizie che mi mandi su Giulia e sui bambini; non riesco a scrivere direttamente a Giulia, nell’attesa di ricevere qualche sua lettera anche molto arretrata. Immagino le sue condizioni di spirito, oltre a quelle fisiche, per tutto un complesso di ragioni; questa malattia deve essere stata molto angosciosa. Povero Delio; dalla scarlattina alla grippe, in cosí breve tempo! Scrivi tu a nonna Lula, e pregala che mi scriva una lunga lettera, in italiano o in francese, come può (del resto tu potresti mandarmi la sola traduzione), e mi descriva, proprio per benino, la vita dei bambini. Mi sono proprio persuaso che le nonne sanno meglio delle mamme descrivere i bambini e i loro movimenti, in modo reale e concreto; sono piú oggettive, e poi hanno l’esperienza di tutto uno sviluppo vitale; mi pare che la tenerezza delle nonne sia piú sostanziosa di quella delle mamme (Giulia non deve però offendersi e ritenermi più cattivo di quello che sono!)

Non so proprio suggerirti nulla per Giuliano; su questo terreno ho già fallito una volta con Delio. Forse io stesso saprei fabbricargli qualche cosa di conveniente, se potessi essergli vicino. Fa tu, secondo il tuo gusto, e scegli qualche cosa a mio nome. Ho fabbricato in questi giorni una palla di cartapesta, che sta finendo di asciugare; penso che sarà impossibile di inviartela per Delio; d’altronde non sono ancora riuscito a pensare al modo di verniciarla e senza vernice si disfarebbe facilmente per l’umidità.

La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto piú difficile di quanto non sembrerebbe. Ho ricevuto qualche libro e in verità leggo molto (piú di un volume al giorno, oltre i giornali), ma non è a questo che mi riferisco; intendo altro. Sono assillato (è questo fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe far qualcosa «für ewig», secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a raccogliermi, e cioè: 1° una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare ecc. ecc. Argomento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente potrei solo abbozzare nelle grandi linee, data l’assoluta impossibilità di avere a disposizione l’immensa mole di materiale che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia meridionale e sulla importanza di B. Croce?. Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato, da un punto di vista «disinteressato», «für ewig». — 2° Uno studio di linguistica comparata! Niente meno. Ma che cosa potrebbe essere piú «disinteressato» e für ewig di ciò? Si tratterebbe, naturalmente, di trattare solo la parte metodologica e puramente teorica dell’argomento, che non è stata mai trattata completamente e sistematicamente dal nuovo punto di vista dei neolinguisti contro i neogrammatici. (Ti farò orripilare, cara Tania, con questa mia lettera!). Uno dei maggiori «rimorsi» intellettuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell’Università di Torino il quale era persuaso essere io l’arcangelo destinato a profligare definitivamente i «neogrammatici», poiché egli, della stessa generazione e legato da milioni di fili accademici a questa geldra di infamissimi uomini, non voleva andare, nelle sue enunciazioni, oltre un certo limite fissato dalle convenienze e dalla deferenza ai vecchi monumenti funerari dell’erudizione. — 3° Uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato e ha contribuito a determinare. Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e ho contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso. — 4° Un saggio sui romanzi di appendice e il gusto popolare in letteratura. L’idea m’è venuta leggendo la notizia della morte di Serafino Renzi, capocomico di una compagnia di drammi da arena, riflesso teatrale dei romanzi d’appendice, e ricordando quanto io mi sia divertito le volte che sono andato ad ascoltarlo, perché la rappresentazione era doppia: l’ansia, le passioni scatenate, l’intervento del pubblico popolare non era certo la rappresentazione meno interessante.

Che te ne pare di tutto ciò? In fondo, a chi bene osservi, tra questi quattro argomenti esiste omogeneità: lo spirito popolare creativo, nelle sue diverse fasi e gradi di sviluppo, è alla base di essi in misura uguale. Scrivimi le tue impressioni; io ho molta fiducia nel tuo buon senso e nella fondatezza dei tuoi giudizi. Ti ho annoiato? Sai, lo scrivere surroga le conversazioni per me: mi pare veramente di parlarti quando ti scrivo; solo che tutto si riduce a un monologo, perché le tue lettere o non mi arrivano o non corrispondono alla conversazione intrapresa. Perciò scrivimi, e a lungo, delle lettere, oltre che le cartoline; io ti scriverò una lettera ogni sabato (ne posso scrivere due alla settimana) e mi sfogherò. Non riprendo la narrazione delle mie vicende e impressioni di viaggio, perché non so se ti interessano; certo esse hanno un valore personale per me, in quanto sono legate a determinati stati d’animo e anche a determinate sofferenze; per renderle interessanti agli altri forse sarebbe necessario esporle in forma letteraria; ma io devo scrivere di botto, nel poco tempo in cui mi vengono lasciati il calamaio e la penna. A proposito — la pianticella di limone continua a crescere? non me ne hai piú accennato. E la mia padrona di casa come sta, o è morta? Mi sono sempre dimenticato di chiedertelo. Ai primi di gennaio ricevetti ad Ustica una lettera del sig. Passarge che era disperato e credeva alla prossima morte della signora, poi non seppi piú nulla. Povera signora, temo che la scena del mio arresto abbia contribuito ad accelerare il suo male, poiché mi voleva bene ed era cosí pallida quando mi portarono via.

Ti abbraccio, cara, voglimi bene e scrivimi.

Antonio

22.

26. III. 1927.

Carissima Tania,

non ho ricevuto, in questa settimana, né cartoline né lettere tue; mi è stata invece recapitata la tua lettera del 17 gennaio (con la lettera di Giulia del 10) rispedita da Ustica. Cosí, in un certo senso e fino a un certo punto, sono stato abbastanza contento; ho rivisto i caratteri di Giulia (ma come scrive poco questa ragazza e come sa bene giustificarsi col baccano che le fanno intorno i bambini!) e mi sono coscienziosamente studiato a memoria la tua lettera. Nella quale ho cominciato col trovare parecchi errori (studio anche queste piccole cose, sai, e ho avuto la impressione che questa tua lettera non sia stata pensata in italiano, ma tradotta in fretta e malamente e ciò vuol dire che eri stanca e stavi male e pensavi a me solo per un giro complicato; forse avevi appena allora ricevuto la notizia della grippe di Giulia e dei bambini), tra gli altri una confusione imperdonabile tra S. Antonio di Padova che ricorre nel mese di giugno e il S. Antonio comunemente chiamato del porco, che è proprio il mio santo, perché sono nato il 22 gennaio, e al quale tengo moltissimo per tante ragioni di carattere magico. — La tua lettera mi ha fatto ripensare alla vita di Ustica, che certamente tu immaginavi molto diversa da quello che era realmente; in avvenire forse riprenderò a narrarti la mia vita di quei tempi, e allora ti farò un quadro di essa; oggi non ho voglia e mi sento un po’ stanco. Da Ustica mi sono fatto mandare le grammatichette e il Faust; il metodo è buono, ma domanda l’assistenza di un insegnante, almeno per chi inizia gli studi; per me invece è ottimo, in quanto devo solo rivedere le nozioni e devo specialmente fare esercizi. Mi sono anche fatto mandare la Signorina-contadina di Puškin nell’edizione della Polledro: testo, traduzione letteraria e grammaticale e note. Studio a memoria il testo; la prosa di Puškin penso sia molto buona e perciò non temo di infarcirmi la memoria di spropositi stilistici. Questo metodo di imparare a memoria la prosa lo ritengo ottimo da ogni punto di vista.

Ho ricevuto, rispedita da Ustica, una lettera di mia sorella Teresina con la fotografia di suo figlio Franco, nato qualche mese dopo Delio. Mi pare non si rassomiglino affatto, mentre invece Delio rassomiglia moltissimo a Edmea. Franco non è ricciuto e deve essere castano o scuro; inoltre Delio è certamente piú bello: Franco ha i lineamenti fondamentali troppo marcati di già, ciò che lascia prevedere un loro sviluppo verso la durezza e l’esagerazione; in Delio invece i lineamenti sono molto infantili, mentre è più marcata la serietà dell’espressione generale e una certa malinconia che non è infantile per nulla e che dà molto da pensare. Hai mandato la sua fotografia a mia madre, come avevi promesso? Farai molto bene: la poveretta ha molto sofferto per il mio arresto e credo che soffra tanto piú in quanto nei nostri paesi è difficile comprendere che si può andare in prigione senza essere né un ladro, né un imbroglione, né un assassino; essa vive in condizioni di spavento permanente fin dallo scoppio della guerra (tre miei fratelli erano al fronte) e aveva ed ha una frase sua: «i miei figli li macelleranno» che in sardo è terribilmente piú espressiva che in italiano: «faghere a pezza». «Pezza» è la carne che si mette in vendita, mentre per l’uomo si adopera il termine «carre». Non so proprio come consolarla e farle capire che io sto abbastanza bene e non corro nessuno dei pericoli che ella immagina: è molto difficile ciò, perché ella sospetta sempre che le si voglia nascondere la verità e perché si orienta pochissimo nella vita attuale; pensa che non ha mai viaggiato, non è mai stata neanche a Cagliari e io sospetto ella ritenga una bella favola molte descrizioni che noi le abbiamo fatto.

Carissima Tania, non riesco proprio a scriverti, oggi; mi hanno ancora dato un pennino che gratta la carta e mi obbliga a un vero acrobatismo digitale. Attendo tue lettere. Ti abbraccio.

Antonio

Ho osservato che manca meno di un mese alla Pasqua. Ora devi sapere che la Pasqua è uno dei tre giorni dell’anno in cui si permette ai detenuti di mangiar dolci. Io voglio proprio mangiare dei dolci speditimi da te. Farai ancora a tempo a mandarmeli? Spero di sí.

Fammi sapere quante mie lettere hai ricevuto finora. La prima, che ti scrissi il 12 febbraio, so che non poté arrivarti.

23.

26 marzo 1927

Carissima Teresina[9],

mi è stata consegnata solo pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e che conteneva la fotografia di Franco. Ho cosí potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio tutte le mie congratulazioni; mi manderai, è vero?, anche la fotografia della Mimí e cosí sarò proprio contento. Mi ha colpito molto che Franco, almeno dalla fotografia, rassomigli pochissimo alla nostra famiglia: deve rassomigliare a Paolo e alla sua stirpe campidanese e forse addirittura maurreddina: e Mimí a chi somiglia? Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correntemente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino piú lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.

Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno avuto la febbre spagnola; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per esempio, Delio: ha incominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una e dell’altra lingua. Io volevo insegnarli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone», ma specialmente le zie si sono opposte energicamente. Mi sono divertito molto con Delio nell’agosto scorso: siamo stati insieme una settimana al Trafoi, nell’Alto Adige, in una casetta di contadini tedeschi. Delio compiva proprio allora due anni, ma era già molto sviluppato intellettualmente. Cantava con molto vigore una canzone: «Abbasso i frati, abbasso i preti», poi cantava in italiano: «Il sole mio sta in fronte a te» e una canzoncina francese, dove c’entrava un mulino. Era diventato appassionato per la ricerca delle fragole nei boschi e voleva andar sempre dietro agli animali. Il suo amore per gli animali veniva sfruttato in due modi: per la musica, in quanto si ingegnava a riprodurre sul pianoforte la gamma musicale secondo le voci degli animali, dall’orso baritonale all’acuto del pulcino e per il disegno. Ogni giorno, quando andavo da lui, a Roma, bisognava ripetere tutta la serie: primo bisognava mettere l’orologio a muro sul tavolo e fargli fare tutti i movimenti possibili; poi bisognava scrivere una lettera alla nonna materna con la figura degli animali che lo avevano colpito nella giornata; poi si andava al piano e si faceva la sua musica animalesca, poi si giocava in vario modo.

Cara Teresina, hai osservato nella tua lettera che la prima mia lettera mandatavi da Roma, era piena di sconforto. Non credo di essere mai stato sconfortato come tu credi. Quella lettera la scrissi veramente in un brutto momento, relativamente; il giorno prima mi era stata comunicata la misura dei cinque anni di confino di polizia e mi era stato detto che tra pochi giorni sarei partito per il Giúbaland, in Somalia. Certo in quella notte pensai parecchio alle mie possibilità fisiche di resistenza, che allora non avevo ancora potuto misurare e che valutavo poche; è possibile che nella lettera ci sia stato un riflesso di quegli stati d’animo. In ogni caso devi credere che, se pure allora potei avere, come tu dici, un po’ di sconforto, esso è passato rapidamente e non si è piú ripetuto. Vedo tutto con molta freddezza e tranquillità e pur non facendomi illusioni puerili, sono fermamente convinto di non essere destinato a marcire in galera. Tu e gli altri dovete cercare di far stare allegra la mamma (dalla quale ho ricevuto una lettera alla quale non so come rispondere) e di assicurarla che la mia onorabilità e la mia rettitudine non sono affatto in quistione: io sono in carcere per ragioni politiche, non per ragioni di onorabilità. Credo proprio che avvenga l’inverso: se non tenessi alla mia onorabilità, alla mia rettitudine, alla mia dignità, se cioè fossi stato capace di avere una cosí detta crisi di coscienza e mutare d’opinione, non sarei stato arrestato e non sarei andato a Ustica, tanto per cominciare. Di questo dovete persuadere la mamma; mi preme molto. Scrivimi e fammi scrivere da tutti: non ho piú visto neanche la firma di Grazietta; come sta?

Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini

Nino

24.

4 aprile 1927

Cara, cara Tania,

ho ricevuto, nella scorsa settimana, due tue cartoline (del 19 e del 22 marzo) e la lettera del 26. Sono molto spiacente di averti addolorato, penso anche che tu non hai capito bene il mio stato d’animo, perché non mi sono espresso bene e mi dispiace che tra noi possano formarsi degli equivoci. Ti assicuro proprio che non mi ha mai neanche attraversato il dubbio che tu mi possa dimenticare o possa volermi meno bene; certamente se avessi pensato anche lontanamente a tal cosa, non ti avrei piú scritto del tutto; è sempre stato questo il mio carattere e per esso nel passato ho troncato molte vecchie amicizie. Potrei solo a voce spiegarti la ragione del nervosismo che mi aveva preso dopo due mesi che ero senza notizie; non tento neppure di farlo per lettera, per non cadere in altri equivoci altrettanto dolorosi. Oramai tutto è passato e non voglio piú neanche ripensarci. Da qualche giorno ho cambiato di cella e di raggio (il carcere è diviso in raggi) come risulta anche dall’intestazione della lettera; prima ero al 1° raggio, 13a cella; adesso sono al 2° raggio, 22a cella. La mia situazione, diciamo cosí, carceraria, mi pare migliorata. La mia vita trascorre, però, su per giú, come prima. Te la voglio descrivere un po’ minutamente; cosí ogni giorno, potrai immaginare ciò che faccio. La cella è ampia come una stanzetta da studente: a occhio la calcolo tre metri per quattro e ½ e 3/½ d’altezza. La finestra dà sul cortile dove si prende l’aria: non è una finestra regolare, naturalmente; è una cosidetta «bocca di lupo», con le sbarre all’interno; si può vedere solamente una fetta di cielo, non si può guardare nel cortile o lateralmente. La disposizione di questa cella è peggiore di quella precedente che era esposta a sud-sud-ovest (il sole si vedeva verso le 10 e alle 2 occupava il centro della cella con una striscia di almeno 6° cm.); nell’attuale cella, che deve essere esposta a sud-ovest-ovest, il sole si vede verso le due e sta in cella fin tardi, ma con una striscia di 25 cm. In questa stagione, piú calda, forse cosí andrà meglio. Inoltre: l’attuale cella è posta sull’officina meccanica del carcere e si sente il rombo delle macchine; ma mi abituerò. La cella è molto semplice e molto complessa insieme. Ho la branda a muro con due materassi (uno di lana): la biancheria viene cambiata ogni 15 giorni circa. Ho un tavolino e una specie di comodino-armadio, uno specchio, un catino e una brocca di ferro smaltato. Possiedo molti oggetti di alluminio acquistati alla Rinascente che ha organizzato un reparto nel carcere. Possiedo alcuni libri miei; ogni settimana ricevo in lettura 8 libri della biblioteca del carcere (doppio abbonamento). Perché ti faccia un’idea ti faccio la lista di questa settimana, che però è eccezionale per la relativa bontà dei libri capitati: — 1° Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli (ottimo); 2° V. Alfieri, Autobiografia; 3° Molière, Commedie scelte, tradotte dal signor Moretti (traduzione ridicola); 4° Carducci, 2 v. delle opere complete (mediocrissimi, tra i peggiori del Carducci); 5° Artur Lévy, Napoleone intimo (curioso, apologia di Napoleone come «uomo morale»); 6° Gina Lombroso, Nell’America meridionale (mediocrissimo); 7° Harnack, L’essenza del Cristianesimo; Virgilio Brocchi, Il destino in pugno, romanzo (fa spiritare i cani); Salvator Gotta, La donna mia (meno male che è sua, perché è noiosissima). Al mattino mi levo alle 6½, alle 7 suonano la sveglia: caffè, toilette, pulizia della cella; prendo mezzo litro di latte e ci mangio un panino; alle 8 circa si va all’aria, che dura 2 ore. Passeggio; studio la grammatica tedesca, leggo la Signorina contadina di Puškin e imparo a memoria una ventina di righe del testo. Compro «Il Sole», giornale industriale-commerciale, e leggo qualche notizia economica (mi sono letto tutte le relazioni annuali delle Società per azioni); il martedí compro il «Corriere dei Piccoli» che mi diverte; il mercoledí la «Domenica del Corriere»; il venerdí il «Guerin Meschino», cosidetto umoristico. Dopo l’aria, caffè; ricevo tre giornali, «Corriere», «Popolo d’Italia», «Secolo» (adesso il «Secolo» esce al pomeriggio e non lo comprerò piú, perché non vale piú niente), che leggo; il pranzo arriva in ore disparate, dalle 12 alle 3; riscaldo la minestra (in brodo o asciutta), mangio un pezzettino di carne (se è di manzo, perché non riesco ancora a mangiare la carne di manzo), un panetto, un pezzetto di formaggio, la frutta non mi piace, e un quarto di vino. Leggo un libro, passeggio, rifletto su tante cose. Alle 4-4½ ricevo altri due giornali, la «Stampa» e il «Giornale d’Italia». Alle 7 ceno (la cena arriva alle 6), minestra, due uova crude, un ¼ di vino; il formaggio non riesco a mangiarlo. Alle 7½ suona il silenzio; vado a letto e leggo dei libri fino alle 11-12. Da due giorni, verso le 9 bevo una chicchera di camomilla. (Il seguito al prossimo numero, perché voglio scriverti d’altro).

1° Non ho bisogno di biancheria, ecc. Ne ho abbastanza e non saprei dove mettere altri oggetti. Le scarpe che ho sono buonissime; ho anche le tue pantofole. L’abito per adesso va bene, come abito carcerario. Ho il soprabitino che mi ha servito nei mesi freddi e adesso è già diventato inutile. Ho tutti i tuoi cucchiai e cucchiaini, che mi hanno servito molto (anche senza manico), ho 6 o 7 pezzi di sapone, spazzole, spazzolini, pettine ecc, ecc. Non mi serve veramente nulla di essenziale. La tua venuta qui, il poterti vedere, sarebbe una grandissima cosa per me, puoi pensare! Occorre però prima sapere se io rimarrò qui, primo; occorre esser sicuri che ti diano il permesso del colloquio, secondo. Devi ricordare che giuridicamente noi non siamo parenti, perché il matrimonio non è stato registrato in Italia; io giuridicamente sono celibe e tu non puoi dimostrare di essere mia cognata. Ti scrivo questo, perché sarebbe orribile per me se tu venissi e poi non potessi vedermi. Ti dico però che non è impossibile avere il colloquio; so che dei miei amici hanno avuto il colloquio con le loro compagne non mogli giuridicamente, perché sarebbe impossibile per le cognate. Bisogna parlare con un avvocato: a Milano bisognerebbe che tu ti rivolgessi all’Avv. Arys (Via Unione 1) il quale (come mi ha scritto Bordiga da Ustica) si è occupato per me. Cara Tania, come sarei contento di vederti; ma non devi scrivermi di ciò, altro che se hai già assicurata la possibilità di avere il colloquio; altrimenti soffrirei troppo della delusione. Ti abbraccio

Antonio

— Senti, cara, per la corrispondenza, stabiliamo cosí: io ti scrivo una lettera ogni lunedí (in questo raggio si scrive il lunedí); tu mi scrivi una lettera ogni settimana e in più due cartoline, anche illustrate, e mi mandi le lettere di Giulia. Sai; nuovamente l’idea della censura epistolare mi toglie la spontaneità, come i primi tempi di Ustica. Spero di diventare «spudorato» come prima, ma ancora non ci riesco. Scrivi a Giulia che penso molto a lei e ai bambini, ma non riesco a scrivere, proprio; scriverei come un emarginatore di pratiche e ciò mi fa orrore.

25.

11 aprile 1927

Carissima Tania,

ho ricevuto le tue cartoline del 31 marzo e del 3 aprile. Ti ringrazio per le notizie che mi mandi. Attendo la tua venuta a Milano; ma, ti confesso, non voglio contarci troppo. Ho pensato che non è molto piacevole continuare la descrizione, intrapresa nella scorsa lettera, della attuale mia vita. È meglio che volta per volta ti scriva ciò che mi salta in testa, senza un piano prestabilito. Lo scrivere mi è anche diventato un tormento fisico, perché mi dànno degli orribili pennini, che grattano la carta e domandano un’attenzione ossessionante alla parte meccanica dello scrivere. Credevo di poter ottenere l’uso permanente della penna e mi ero proposto di scrivere i lavori ai quali ti ho accennato; non ho però ottenuto il permesso e mi dispiace insistere. Perciò scrivo solo nelle due ore e ½ o tre ore in cui si sbriga la corrispondenza settimanale (2 lettere); naturalmente non posso prendere appunti, cioè in realtà non posso studiare ordinatamente e con profitto. Leggicchio. Tuttavia il tempo passa molto rapidamente, piú di quanto pensassi. Sono trascorsi 5 mesi dal giorno del mio arresto (8 novembre) e due mesi dal giorno del mio arrivo a Milano. Non pare vero come tanto tempo sia trascorso. Bisogna però tener conto del fatto che in questi cinque mesi ne ho visto di tutti i colori e ho subito le impressioni piú strane e piú eccezionali della mia vita. Roma: 8 novembre fino al 25 novembre; isolamento assoluto e rigoroso. 25 novembre: Napoli, in compagnia dei miei 4 compagni deputati fino al 29 (3, non 4, perché uno fu staccato a Caserta per le Trémiti). Imbarco per Palermo e arrivo a Palermo il 30. Otto giorni a Palermo: 3 viaggi per Ustica a vuoto per il mare tempestoso. Primo contatto con gli arrestati siciliani per mafia: un mondo nuovo, che io conoscevo solo intellettualmente; verifico e controllo le mie opinioni in proposito, che riconosco abbastanza esatte. Il 7 dicembre, arrivo a Ustica. Conosco il mondo dei coatti: cose fantastiche e incredibili. Conosco la colonia dei beduini di Cirenaica, confinati politici: quadro orientale, molto interessante. Vita di Ustica. Il 20 gennaio, riparto. 4 giorni a Palermo. Traversata per Napoli con criminali comuni. Napoli: conosco tutta una serie di tipi del piú alto interesse per me, che del Mezzogiorno fisicamente conoscevo solo la Sardegna. A Napoli, tra l’altro, assisto alla scena di iniziazione alla camorra: conosco un ergastolano (un certo Arturo) che mi lascia una impressione indelebile. Dopo 4 giorni parto da Napoli; fermata a Cajanello, nella caserma dei carabinieri; conosco i miei compagni di catena, che verranno con me fino a Bologna. Due giorni a Isernia, con questi tipi. Due giorni a Sulmona. Una notte a Castellamare A., nella caserma dei carabinieri. Ancora: due giorni con circa 60 detenuti. Vengono organizzati dei trattenimenti di occasione in mio onore; i romani improvvisano una bellissima accademia di recitazione, Pascarella e bozzetti popolari della malavita romana. Pugliesi, calabresi e siciliani svolgono un’accademia di scherma del coltello secondo le regole dei 4 stati della malavita meridionale (lo Stato Siciliano, lo Stato Calabrese, lo Stato Pugliese, lo Stato Napoletano): Siciliani contro Pugliesi, Pugliesi contro Calabresi. Non si fa la gara tra Siciliani e Calabresi, perché tra i due Stati gli odii sono fortissimi e anche l’accademia diventa seria e cruenta. I Pugliesi sono i maestri di tutti: accoltellatori insuperabili, con una tecnica piena di segreti e micidialissima, sviluppata secondo e per superare tutte le altre tecniche. Un vecchio pugliese, di 65 anni, molto riverito, ma senza dignità «statali», sconfigge tutti i campioni degli altri «stati»; poi, come clou, schermisce con un altro pugliese, giovane, di bellissimo corpo e di sorprendente agilità, alto dignitario e al quale tutti obbediscono e per ½ ora sviluppano tutta la tecnica normale di tutte le scherme conosciute. Scena veramente grandiosa e indimenticabile, per tutto, per gli attori e per gli spettatori: tutto un mondo sotterraneo, complicatissimo, con una vita propria di sentimenti, di punti di vista, di punto d’onore, con gerarchie ferree e formidabili, si rivelava per me. Le armi erano semplici: i cucchiai, strofinati al muro, in modo che la calce segnava i colpi nell’abito. Poi Bologna, due giorni, con altre scene; poi Milano. Certo questi 5 mesi sono stati movimentati e ricchi di impressioni per uno o due anni di rimuginamento. Questo ti spiega come passo il tempo, quando non leggo; ripenso a tutte queste cose, le analizzo capillarmente, mi ubbriaco di questo lavoro bizantino. Inoltre tutto diventa oltremodo interessante, di ciò che avviene intorno a me e che riesco a percepire. Certo mi controllo assiduamente, perché non voglio cadere nelle monomanie che caratterizzano la psicologia dei detenuti; a ciò mi aiuta specialmente un certo spiritello ironico e pieno di umore che mi accompagna sempre. E tu cosa fai e a che pensi? Chi ti compra i romanzi d’avventura, ora che io non ci sono? Sono persuaso che hai riletto le mirabili istorie di Corcoran e della sua amabile Lisotta. Frequenti quest’anno le lezioni del Policlinico? Il professor Caronia, è lui che ha trovato il bacillo del morbillo? Ho visto le sue lamentevoli vicende; non ho capito dai giornali se il professor Cirincione è stato sospeso anch’egli. Tutto ciò è, almeno in parte, legato al problema della mafia siciliana. È incredibile come i siciliani, dal piú infimo strato alle cime piú alte, siano solidali tra loro e come anche degli scienziati di innegabile valore corrano sui margini del Codice Penale per questo sentimento di solidarietà. Mi sono persuaso che realmente i siciliani fanno parte a sé; c’è piú somiglianza tra un calabrese e un piemontese che tra un calabrese e un siciliano. Le accuse che i meridionali in genere muovono contro i siciliani sono terribili: li accusano persino di cannibalismo. Non avrei mai creduto che esistessero tali sentimenti popolari. Penso che occorrerebbe leggere molti libri sulle storie degli ultimi secoli, specialmente sul periodo della separazione tra la Sicilia e il Mezzogiorno durante i regni di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat a Napoli, per trovare l’origine di tali sentimenti. Sono entusiasta della cuffietta; dove sei riuscita a trovarla? Penso sia la cuffia di Orgosolo, rossa e bleu, che io non ero piú riuscito a trovare. La palla di cartapesta non si potrà mandare e cosí tu non potrai mandarmi la vernice: credo sia assolutamente impossibile, specialmente per la vernice, che può essere ritenuta un veleno, in linea di regolamento e domanderebbe tutta una serie di controlli molto complessi. Ecco, vedi; un altro oggetto di analisi molto interessante: il regolamento carcerario e la psicologia che matura su di esso da una parte, e sul contatto coi carcerati, dall’altra, tra il personale di custodia. Io credevo che due capolavori (dico proprio sul serio) concentrassero l’esperienza millenaria degli uomini nel campo dell’organizzazione di massa: il manuale del caporale e il catechismo cattolico. Mi sono persuaso che occorre aggiungere, sebbene in un campo molto piú ristretto e di carattere eccezionale, il regolamento carcerario, che racchiude dei veri tesori di introspezione psicologica. — Aspetto le lettere di Giulia: credo che dopo averle lette, riuscirò a scriverle direttamente. Non credere che questa sia una fanciullaggine. Una notizia importante: da qualche giorno mangio molto; tuttavia non riesco a mangiare la verdura; ho fatto strenui sforzi, ora ho rinunziato perché mi rivolta in modo terribile. — Eppure, non riesco a dimenticare che forse tu verrai e che forse (ahimè!) potremo rivederci sia pure per qualche minuto. Ti abbraccio.

Antonio

26.

18 aprile 1927

Cara Tania,

ho ricevuto il tuo bigliettino del 4 aprile, con le due lettere di Giulia; non ho ancora ricevuto le altre lettere che annunzi. Ho passato la Pasqua attendendo i tuoi saluti, ma non ho ricevuto nulla (ti ricordi? mi scrivesti che mi mandavi al carcere di Roma varie cose supplementari, perché ognuna di esse era come un tuo saluto). Ti assicuro però che ciò non mi ha fatto dispiacere; ero quasi sicuro che non saresti riuscita, proprio per il giorno di Pasqua, a inviarmi i dolci. Quando ti scrissi era troppo tardi, dato l’ingorgo postale che si verifica in tali occasioni e penso che se anche arriva qualcosa dopo il giorno regolamentare, non sarà trasmesso. Pazienza. Un altro giorno regolamentare è quello dello Statuto (prima domenica di giugno): te lo rivelo dopo un lungo ragionamento pro e contro. Il ragionamento si è concluso cosí: sarà un bellissimo epigramma se io festeggerò il giorno dello Statuto! Perciò conto sui tuoi dolci, per allora; hai tutto il tempo per pensarci, scegliere, confezionare, ecc. ecc. Non preoccuparti troppo della scelta. Mi piacciono tutte le qualità, purché non siano troppo dolci. Ieri (Pasqua) ho acquistato due etti di datteri pasquali e una colomba di biscotto; ma i datteri non li ho potuti mangiare perché mi hanno provocato un grande dolore alle gengive. Mi sono deciso perciò a presentarmi al medico e farmi ordinare una cura palliativa; ho pensato anche di farmi fare delle iniezioni in vista dei prossimi calori. Che te ne pare? Già l’inizio della buona stagione ha incominciato a produrmi dei disturbi. Non posso assolutamente mangiare la carne; il solo odore mi rivolta e mi dà la nausea. Cosí dormo meno di prima; non piú di 3 ore ½. Non è insonnia nervosa, perché non sono agitato e non sogno: è insonnia pura e semplice. Perché te ne renda conto e possa consigliarmi te la descriverò. Vado a letto alle 7½ e alle 8½ potrei dormire. Ma se mi addormento alle 8½ mi sveglio a mezzanotte quando viene la visita e allora non mi riaddormento piú. Perciò mi sforzo di star sveglio fino alla visita delle 9, per addormentarmi dopo; mi addormento cosí verso le 10, non sento la visita di mezzanotte, ma quando viene la visita delle 3 sono già sveglio almeno da un’ora. Dunque non ho difficoltà ad addormentarmi, e ciò mi pare importante; ma non posso dormire che poco, e ciò mi lascia sempre un po’ stanco ed esaurito. Dormendo cosí dalle 10 all’1½ mi sento piú riposato che dormendo dalle 8½ a mezzanotte. Penso che le iniezioni mi possano giovare, stimolando l’appetito; se mangiassi di piú, forse dormirei di piú. Adesso che incomincia il bel tempo farò piú bagni: ci sono solo le doccie, non c’è la vasca e quando faccio la doccia anche calda, sento poi un grandissimo freddo, anormale (devo ancora avere la temperatura del sangue sotto il normale almeno di 5 linee e ciò spiega tutto).

Ti abbraccio affettuosamente

Antonio

Ricevo in questo momento la tua cartolina del 9 con la veduta del Trafoi. Brava!

27.

18 aprile 1927

Mia carissima Julca,

riprendo a scriverti, dopo tanto tempo. Ho ricevuto solo pochi giorni fa due tue lettere: una del 14 febbraio e l’altra del 1° marzo e ho pensato tanto tanto a te; ho proprio fatto un inventario di tutti i miei ricordi e sai quale immagine m’è rimasta piú impressa? Una delle prime, di tanto tempo fa. Ricordi quando sei ripartita dal bosco di argento, dopo il tuo mese di vacanze? Io ti ho accompagnato fino all’orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare. Ci eravamo appena conosciuti, ma io ti avevo fatto già parecchi dispetti e ti avevo fatto anche piangere; ti avevo canzonato col comizio dei gufi e avevo avuto l’elettricità dei gatti quando tu suonavi Beethoven. Cosí ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell’altra la tua borsa da viaggio cosí pittoresca. Qual’è adesso il mio stato d’animo? Ti scriverò piú a lungo le prossime volte (domanderò di scrivere una doppia lettera) e cercherò di descriverti gli aspetti positivi della mia vita di questi mesi (gli aspetti negativi ormai sono dimenticati); vita interessantissima, come puoi immaginare, per gli uomini che ho avvicinato e le scene alle quali ho assistito. Il mio stato d’animo generale è improntato alla piú grande tranquillità. Come posso riassumerlo? Ricordi il viaggio di Nansen al Polo? E ricordi come si svolse? Poiché non ne sono molto persuaso, te lo ricorderò io. Nansen, avendo studiato le correnti marine ed aeree dell’Oceano Artico ed avendo osservato che sulle spiaggie della Groenlandia si ritrovavano alberi e detriti che dovevano essere di origine asiatica, pensò di poter giungere o al Polo o almeno vicino al Polo, facendo trasportare la sua nave dai ghiacci. Cosí si lasciò imprigionare dai ghiacci e per 3 anni e ½ la sua nave si mosse solo in quanto si spostavano, lentissimamente, i ghiacci. Il mio stato d’animo può paragonarsi a quello dei marinai di Nansen durante questo viaggio fantastico, che mi ha sempre colpito per la sua ideazione, veramente epica.

Ho reso l’idea? (come direbbero i miei amici siciliani di Ustica). Non potrei renderla in modo piú breve e sintetico. Dunque non preoccuparti per questo lato della mia esistenza. Invece, se vuoi che io ti ricordi sempre con tenerezza (scherzo, sai!), scrivimi a lungo e descrivimi la tua vita e quella dei bambini. Tutto mi interessa, anche le minuzie. E mandami delle fotografie, ogni tanto. Cosí seguirò anche con gli occhi, lo sviluppo dei bambini. E scrivimi anche di te, molto. Vedi, qualche volta, il signor Bianco? E vedi quel curioso tipo di africanista che una volta mi promise un fritto di rognoni di rinoceronte? Chissà se si ricorda ancora di me; se lo vedi parlagli di questo fritto e scrivimi le sue risposte; mi divertirò un mondo. Sai che non faccio altro: pensare al passato e riandare tutte le scene e gli episodi piú buffi; ciò mi aiuta a passare il tempo, qualche volta proprio rido di cuore, senza neanche accorgermene. Cara, Tania mi annunzia altre tue lettere; come le attendo! Saluta tutti i tuoi. Ti voglio molto bene.

Antonio

Tania è proprio una bravissima ragazza. Perciò io le ho dato parecchi tormenti.

28.

25 aprile 1927

Carissima mamma,

ho ricevuto la tua lettera proprio oggi. Ti ringrazio. Sono molto contento delle buone notizie che mi dai, specialmente di Carlo. Non sapevo quali fossero le sue condizioni di lavoro e di vita. Credo che Carlo sia un ottimo ragazzo, nonostante qualche sua capestreria del passato e credo anche che sia piú solido negli affari di quanto lo fossero (e forse lo sono ancora) tanto Nannaro che Mario, che erano portati a vedere guadagni favolosi e a fare castelli in aria per ogni piccola cosa. Ahimè! tutti in casa nostra (eccettuato io solo) hanno creduto di avere uno speciale bernoccolo per gli affari e non vorrei che tutti facessero una esperienza come quella famosa del «pollaio»; te ne ricordi? e Carlo se ne ricorda? Bisognerebbe ricordarglielo a sempiterno scorno dei Gramsci che vogliono fare degli affari. Io me ne ricorderò sempre, anche perché quelle galline, che non facevano mai l’uovo, mi hanno beccato e rovinato tre o quattro romanzi di Carolina Invernizio (meno male!). La mia vita scorre sempre uguale. Leggo, mangio, dormo e penso. Non posso fare altro. Tu però non devi pensare a tutto ciò che pensi e specialmente non devi farti illusioni. Non perché io non sia arcisicuro di rivederti e di farti conoscere i miei bambini (riceverai la fotografia di Delio, come ti ho annunziato; ma Carlo non te ne aveva consegnata una nel 1925? quando Carlo venne a Roma? e Chicchinu Mameli ti aveva dato uno scudo di argento che avevo mandato a Mea perché si facesse fare un cucchiaino? e una tabacchiera di legno speciale per te? — mi sono sempre dimenticato di domandarti queste cose), ma perché sono anche arcisicuro che sarò condannato e chissà a quanti anni. Tu devi capire che in ciò non c’entra per nulla né la mia rettitudine, né la mia coscienza, né la mia innocenza o colpevolezza. È un fatto che si chiama politica, appunto perché tutte queste bellissime cose non c’entrano per nulla. Tu sai come si fa coi bambini che fanno la pipí nel letto, è vero? Si minaccia di bruciarli con la stoppa accesa in cima al forcone. Ebbene: immagina che in Italia ci sia un bambino molto grosso che minaccia continuamente di fare la pipí nel letto di questa grande genitrice di biade e di eroi; io e qualche altro siamo la stoppa (o il cencio) accesa che si mostra per minacciare l’impertinente e impedirgli di insudiciare le candide lenzuola. Poiché le cose sono cosí, non bisogna né allarmarsi, né illudersi; bisogna solo attendere con grande pazienza e sopportazione. Va là, tu sei ancora forte e giovane e ci rivedremo. Intanto scrivimi e fammi scrivere dagli altri: mandami tante notizie di Ghilarza, di Abbasanta, di Boroneddu, di Tadasuni, di Oristano. Zia Antioga Putzulu, vive ancora? E chi è il podestà? Felle Tariggia, credo. E Nassi cosa fa? E gli zii di Oristano vivono ancora? Zio Serafino sa che ho dato nome Delio al mio bambino? E l’ospedaletto l’hanno finito? E le case popolari a Careddu le hanno continuate? Vedi quante cose voglio sapere. E si parla, come penso, di unire Ghilarza ad Abbasanta? senza che gli abbasantesi insorgano in armi? E il bacino del Tirso serve finalmente a qualche cosa? Scrivimi, scrivimi e mandami le fotografie specialmente dei bambini. Baci a tutti e tanti tanti a te

Nino

E Grazietta perché non mi scrive neanche un rigo?

29.

25 aprile 1927

Carissima Tania,

ho ricevuto la tua lettera del 12 e mi sono proposto freddamente, cinicamente, di farti arrabbiare. Lo sai che sei una grande presuntuosa? Te lo voglio dimostrare obbiettivamente e mi diverto già immaginando la tua collera (non andare troppo in collera, però; ciò mi dispiacerebbe). Che la lettera mandatami ad Ustica fosse tutta sbagliata, è certo; ma tu non ne puoi essere ritenuta responsabile. È impossibile immaginare la vita di Ustica, l’ambiente di Ustica, perché è assolutamente eccezionale, è fuori di ogni esperienza normale di umana convivenza. Potevi tu immaginare cose come questa; senti. Io sono giunto ad Ustica il 7 dicembre, dopo 8 giorni di interruzione nell’arrivo del vaporetto e dopo 4 traversate fallite. Ero il quinto confinato politico che giungeva. Fui avvisato subito di farmi una provvista di sigarette, perché la scorta era agli sgoccioli; andai dal tabaccaio e domandai 10 pacchetti di macedonia (16 lire), mettendo sul banco un biglietto da cinquanta lire. La venditrice (una giovane donna, dall’apparenza assolutamente normale) si maravigliò della mia domanda, se la fece ripetere, prese i dieci pacchetti, li aprí, incominciò a contare le sigarette una ad una, perse il conto, ricominciò, prese un foglio di carta, fece dei lunghi conti colla matita, li interruppe, prese le cinquanta lire, le guardò da ogni parte; finalmente mi domandò chi ero. Saputo che ero un confinato politico, mi consegnò le sigarette e mi restituí le 50 lire, dicendomi che l’avrei potuta pagare dopo aver cambiato il biglietto. Lo stesso fatto si ripeté altrove ed eccone la spiegazione: — ad Ustica esiste solo l’economia del soldo; si vende a soldi; si spende mai piú di 50 cent. Il tipo economico di Ustica è il coatto, che prende 4 lire al giorno, ne ha già impegnate 2 dall’usuraio o dal vinaio e si alimenta con le altre 2, comprando 300 grammi di pasta e mettendoci come condimento un soldo di pepe macinato. Le sigarette si vendono una per volta; una macedonia costa 16 centesimi, cioè tre soldi e un centesimo; il coatto che compra una macedonia al giorno, lascia un soldo di deposito e ne sconta 1 cent. al giorno per 5 giorni. Per calcolare il prezzo di 100 macedonie, occorreva dunque fare 100 volte il calcolo dei 16 centesimi (3 soldi più i cent.) e nessuno può negare che questo sia un calcolo discretamente difficile e complicato. Ed era la tabaccaia, cioè uno dei commercianti piú grossi dell’isola. Ebbene: la psicologia dominante in tutta l’isola è la psicologia che può avere per base l’economia del soldo, l’economia che conosce solo l’addizione e la sottrazione delle singole unità, l’economia senza la tavola pitagorica. Senti quest’altra (e ti parlo solo di fatti accaduti a me personalmente; e ti parlo dei fatti che credo non siano passibili di censura): venni chiamato negli uffici, dall’impiegato addetto alla revisione della posta in arrivo; mi fu consegnata una lettera, a me diretta e mi fu domandato di dare spiegazioni sul contenuto di essa. Un amico mi scriveva da Milano, offrendomi un apparecchio radiofonico e domandandomi i dati tecnici per acquistarlo almeno della portata Ustica-Roma. In verità non capivo la domanda che mi si faceva all’ufficio e dissi di che si trattava; credevano che io volessi parlare con Roma e mi fu negato il permesso di far venire l’apparecchio. Piú tardi il podestà mi chiamò per conto suo, e mi disse che il Municipio avrebbe comprato l’apparecchio per conto proprio e perciò non insistessi; il podestà era favorevole a che mi fosse dato il permesso, perché era stato a Palermo e aveva visto che coll’apparecchio radiofonico non si può comunicare. Potevi tu immaginare tutto questo? No. Dunque nella mia osservazione non c’era neanche l’ombra di una malizia sul tuo conto. Non si può domandare a nessuno di immaginare cose nuove; si può invece domandare (dico cosí per dire) l’esercizio della fantasia per completare sugli elementi noti tutta la realtà vivente. Ecco dove voglio colpirti e farti arrabbiare. Tu, come tutte le donne in generale, hai molta immaginazione e poca fantasia e ancora, l’immaginazione in te (come nelle donne in generale) lavora in un solo senso, nel senso che io chiamerei (ti vedo fare un salto)… protettore degli animali, vegetariano, infermieristico: le donne sono liriche (per elevarci un po’) ma non sono drammatiche. Immaginano la vita degli altri (anche dei figli) dal solo punto di vista del dolore animale, ma non sanno ricreare con la fantasia tutta un’altra vita altrui, nel suo complesso, in tutti i suoi aspetti. (Bada che io constato, non giudico, né oso trarre conseguenze per l’avvenire; descrivo ciò che esiste oggi). Ecco dove volevo arrivare. Tu sai che io sono qui, in prigione, in uno spazio limitato, dove mi «devono» mancare tante cose; pensi al bagno, agli insetti, alla biancheria ecc. Se io ti scrivessi che mi manca uno speciale dentifricio, per esempio, certo tu saresti capace di correre su e giú per Roma, di trascurare il pranzo e la cena, di farti venire la febbre; ne sono sicuro. Ma invece tu mi scrivi annunziandomi una lettera di Giulia; poi mi riscrivi annunziandomene un’altra; poi ricevo una tua lettera (e le tue lettere mi sono molto care), ma non ricevo le lettere di Giulia e ancora non le ho ricevute. Ebbene, tu non sai rappresentarti la mia esistenza, qui in prigione. Non immagini come io, ricevendo l’annunzio, aspetti ogni giorno e abbia ogni giorno una delusione e ciò si ripercuote su tutti i minuti di tutte le ore di tutte le giornate; come io legga e ogni momento salti su dalla lettura e mi metta a passeggiare su e giú e pensi e ripensi e almanacchi e dica spesso: Ah, quella Tania, quella Tania! Ma non devi arrabbiarti troppo sai, e non devi neanche provare troppo dispiacere (un pochino, sí, però; cosí mi manderai subito le lettere, senza annunziarmele prima e farmi pensare sempre che saranno andate perdute). Hai visto che lungo giro ho fatto per dirti questa cosa semplicissima? e quante storie ho spolverato? Sono cattivo, proprio cattivo. Ma come tu non capisci che io spesso voglio scherzare e mi rispondi seria seria? Sai quanto ho riso quando mi hai risposto proprio con tutta serietà a proposito delle fotografie che mi sono portato in cella? Cosí per il tuo confondere i due santi Antonio; anch’io scherzavo. Un’altra cosa non hai capito. Tu, proprio tu (e come hai dimenticato?) mi avevi scritto che non dovevo pensare (per il fatto che non ricevevo tue lettere) che mi volessi meno bene o mi avessi dimenticato. E io ti ho risposto che se avessi pensato ciò, non ti avrei piú scritto, come ho fatto talvolta nel passato, non già perché io abbia «sempre bisogno di essere amato, curato ecc. ecc.» (o psicologia da… società protettrice degli animali!) ma perché odio tutto ciò che è convenzionale e sente di pratica di ufficio. Io non sono un afflitto che debba essere consolato; e non lo diventerò mai. Anche prima di essere cacciato in prigione, conoscevo l’isolamento e sapevo trovarlo anche in mezzo alle moltitudini. Non è questo, non è ciò che tu hai pensato. Proprio il contrario è vero. Una tua lettera, mi riempie parecchie giornate. Se tu potessi vedermi quando ricevo una lettera, certo me ne scriveresti una al giorno (ma ciò sarebbe male, a sua volta). Ma basta di tutto ciò. Intanto questa settimana non posso scrivere a Giulia. Sai, il tuo pacco è giunto e ho visto le bellissime cose che mi hai spedito: ma solo il cioccolato mi fu dato. Non è però escluso che anche il resto mi venga consegnato: occorre fare una pratica che è già in corso. Il cioccolato è molto buono: lo mangio a pezzettini, per via dei denti (ecco una cosa che ti interessa: mi hanno dato il cioccolato ma non la carta colorata dell’involucro appunto perché può servire a tingere: la palla però ha un colore naturale di carta pesta che va molto bene ora che è completamente asciugata). L’indirizzo di mia madre è questo: Peppina Gramsci, Ghilarza (Cagliari); le scrivo oggi stesso annunziandole la fotografia. Riceverai (a quanto mi assicurano) un pacco di uva di Pantelleria per Delio e Giuliano; vedrai che uva meravigliosa; altro che lo zibibbo greco! Ti dò il permesso di mangiarne un po’ per accertartene. Giulia sarà molto contenta e Delio vorrà mangiarla tutta subito. Ti assicuro che quest’uva mi ha stupito per il profumo, il sapore e la carnosità della sua polpa secca. Cara Tania, non andare troppo in collera; ti voglio molto, molto bene e sarei proprio disperato di procurarti un dispiacere troppo vivace. Ti abbraccio.

Antonio

30.

2 maggio 1927

Carissima Tania,

ho ricevuto insieme una tua cartolina del 15 aprile e una lettera di Giulia, spedita da te il 20; ho ricevuto inoltre una tua cartolina del 26 aprile, nella quale accenni a un tuo scritto che non ho ricevuto. Era forse contenuto nella busta che conteneva la lettera di Giulia? O si tratta di altra busta che conteneva oltre al tuo scritto anche qualche scritto di Giulia? O era solo una cartolina? Credi che la corrispondenza mi preme molto: è il solo legame che mi unisce al mondo ed è ciò che rompe di tanto in tanto la mia segregazione e il mio isolamento. Vorrei che tu numerassi sempre 1° le tue cartoline 2° le tue lettere, 3° le lettere di Giulia con numerazioni indipendenti, in modo che io veda subito se c’è stata interruzione e di che carattere e grado essa sia stata. Per ciò che riguarda le mie lettere, tu puoi facilmente controllare settimana per settimana; ci può essere spostamento solo nel caso che mi cambino di raggio e che nel nuovo raggio il giorno della corrispondenza sia diverso dall’attuale o che io cada talmente ammalato da non poter scrivere (nel quale caso penso sia autorizzato un telegramma). Mi dispiace che non abbia ricevuto la mia lettera dell’11 aprile, perché ciò significa che tutta una certa zona di ricordi e di impressioni deve essere bandita; non ricordo neppure con esattezza cosa inoltre quella lettera contenesse. Pazienza. Sai? Ho potuto avere i tuoi dolci (martedí, 26) e ti ringrazio ancora una volta; erano freschissimi e ottimi anche dal punto di vista dei miei poveri denti. Anch’io vorrei mandarti un regalo, ma non so come fare. Ho, con infinita pazienza, fabbricato un piccolo tagliacarte di legno. Il legno non è certo di prima qualità (tutt’altro), non ha neanche le fibre molto resistenti e compatte, ma l’oggettino mi pare riuscito abbastanza bene; e poi, ho raschiato per più di 15 giorni per ridurlo alla forma voluta, e vi ho immagazzinato qualche centinaio di lire di salario, a dir poco. In ogni caso, tu sai che ho a tua disposizione un piccolo tagliacarte. Ciò mi fa ricordare la storia dei manichini per il cucchiaio e la forchetta di corno, che ne sono sempre sprovvisti; la forchetta l’adopero abitualmente, anche senza manico: non cosí il cucchiaio, che mi spaventa con la sua mole e mi dà soggezione. Adopero invece gli altri due cucchiai di legno, di proporzioni modeste, uno per la minestra e l’altro per la frutta cotta (che non riesco però a farmi mandare regolarmente); cosí non adopero mai i due cucchiaini di corno, ma solo i due di legno che sono diventati nerissimi per il caffè. Dovrei ancora a questo proposito accennarti alla quotidiana tragedia della lavatura ed asciugatura delle posate, ma preferisco passarci sopra. — Ed ecco che ti ho proprio scritto una lettera in perfetto stile carcerario. La volta o le volte prossime ti scriverò di cose ben piú gentili: il canto degli augelletti al tramonto e all’alba, il rapido germogliare dei fagioli e dei giaggioli nel cortile dove prendo l’aria ogni mattina, i mutamenti di luminosità nella mia cella a seconda della posizione del sole sull’orizzonte, ecc. ecc. Non ho trovato ancora nessun ragno da educare; topi non ce ne sono e la restante zoologia non è delle piú simpatiche. Del resto, niente di interessante o di nuovo. Ti abbraccio

Antonio

Mi pare che nella lettera dell’11 ti domandavo se quest’anno frequenti le lezioni del Policlinico e se leggi ancora dei romanzi d’avventura: hai avuto la continuazione del romanzo marinaresco di Kipling che io dovevo comprarti proprio quando fui arrestato?


  1. Julca/Giulia è Julca Schucht (1894-1980), la moglie di Gramsci.
  2. La madre è Giuseppina Marcias (1861-1932).
  3. Tatiana/Tania è Tatiana Schucht (1888-1943), sorella maggiore della moglie di Gramsci, Julca.
  4. A Piero Sraffa (1898 - 1983), celebre economista torinese.
  5. A Piero Sraffa.
  6. A Piero Sraffa.
  7. A Piero Sraffa.
  8. A Tania e Julca.
  9. A Teresa, sorella di Gramsci.