ATTIVITÀ FEMMINILE

Da noi – mi diceva una signora tedesca – il cuoco maschio non esiste; in cucina è la donna che lavora. 

E va benissimo. Sono anche pronta a concedere che in certi negozi a misurar trine e nastri a spiegare velluti, a vender guanti, profumi, spilli, saponette, ventagli, ombrelli, calze, le donne ci starebbero meglio che gli uomini. Concedo pure che in un ordine superiore le maestre allarghino i loro orizzonti fuori delle prime classi e conquistino gradi più elevati di insegnamento quando speciali disposizioni ve le attraggano; così come le dottoresse di bambini potrebbero trovare un posto fra la levatrice e il medico e nelle Gallerie d’arte invece dei bidelli neghittosi meglio starebbe una donna con un lavoretto in mano. 

Tutte queste occupazioni non escono dalle attitudini femminili e non snaturano la missione della donna. Ma quanto al divenire capi di officina, direttrici di strade ferrate o di trasporti marittimi, banchieri, deputati, ministri, come è nelle idee di qualcuno che abbiano a divenire, non solo non lo credo attuabile ma non lo credo perchè tale utopia non è nè bella nè utile, quindi senza ragione d’essere. 

Veramente i miei avversari di ragioni ne espongono parecchie. Troppe io direi e spesso contradditorie; ma quelle che maggiormente si impongono sono tre: Per rendersi economicamente indipendenti. Per rivendicare il diritto all’uguaglianza. Per essere felici fuori della famiglia e del matrimonio. Chi non vede che quest’ultima le riassume tutte ed è forse la sola che a loro preme? Ma procediamo con ordine. 

Dire che tutte le donne, principesse o contadine, dipendono economicamente dall’uomo1 non risponde alla verità, perchè noi sappiamo che le donne ereditano al pari dell’uomo e nelle famiglie provvedute di censo esse dispongono della loro rendita liberamente. Le donne povere poi hanno sempre lavorato quando hanno potuto farlo ed anche quando i bisogni della casa e dei bimbi le avrebbero così utilmente ritenute fra le domestiche pareti; onde parmi che se un progresso è desiderabile questo è appunto che ogni madre di famiglia attenda alla famiglia e solo le giovani cerchino occupazione altrove. Per ciò basterà, come ho detto sopra, che gli uomini cedano alle loro compagne alcuni impieghi e professioni meglio adatte alla natura femminile senza che la donna invada tutte le attività maschili per le quali, oltre al non essere indicata dalla natura, è contrario l’equilibrio sociale e il suo stesso interesse, perchè, già difficili gli impieghi per gli uomini, quando in grazia della concorrenza troveranno i posti occupati, dovranno stare essi in casa ad aspettare il salario della moglie. Sarà questa una bella conquista per l’uguaglianza. 

Si osserva che le mercedi essendo scarse il guadagno della moglie aiuta quello del marito a tirare innanzi la famiglia. Ma come tira innanzi? Una buona donnina scossa dalle parolone dei rivendicatori mi assicurava col candore dell’innocenza che in casa ella non aveva più nulla da fare e si sarebbe per ciò associata ai negozi del marito. – E i suoi tre figliuoli? – le domandai – Il primo lo tiene mia madre, il secondo mia sorella, il piccino è in casa colla donna di servizio. – Risposta testuale. 

Io non ebbi il coraggio di ridere in faccia alla donnina perchè evidentemente si trovava in piena buona fede, ma il fatto di tre donne sostituite ad una che diserta il suo posto è abbastanza eloquente per l’uguaglianza, per l’economia ed anche per l’educazione della prole. 

In condizioni più basse ancora vedo la moglie che va alla fabbrica sempre allo stesso scopo di vantaggiare il bilancio domestico; ma, oltre all’inevitabile abbandono dei figli, deve spendere denaro per aggiustature d’abiti, lavature, ecc.; e lei stessa ha bisogno di maggior spesa per il suo vestiario; tanto che l’economia se ne va per altra parte trascinando seco la sequela di guai che provengono dai figli cresciuti lungi dalla madre. 

Ma un nuovo argomento si impone e terribile. Quando la donna fosse pareggiata all’uomo nell’intero sistema di vita e cioè, sdegnando le occupazioni casalinghe, tutta concedesse la propria attività al lavoro pubblico, per inevitabile logica dovrebbe acquistare le abitudini ed i vizi che ora sono più propriamente dell’altro sesso, fra cui primissimo l’alcoolismo. Avremo dunque, oltre che dal lato paterno, anche per parte delle madri questo spaventoso flagello della razza. Si sa che l’alcoolismo ha sui figli una azione micidiale. Esso, infallibilmente farà crescere il numero dei delinquenti, degli idioti, degli epilettici, dei nevrastenici. Avremo avvelenate le sorgenti stesse della vita e la natura si vendicherà della violenza che vogliamo imporle, dandoci generazioni sempre più deboli ed infelici. Le statistiche parlano chiaro in proposito. Il contributo maggiore fornito all’alcoolismo delle donne era fino a pochi anni fa additato primo nelle erbivendole, le quali alzate di buon mattino ed esposte ai rigori del freddo sulle piazze segnavano nientemeno che il cento per cento; venivano poi a distanza le cuoche, le lavandaie; ultime fra tutte e con un contributo debolissimo le cucitrici ed in generale le donne residenti in casa. Ora si può aggiungere le operaie senza tema di andar molto errati mettendole a fianco delle erbivendole. Il pregiudizio che un bicchierino di liquore fa bene allo stomaco e che rinforza, acquista tutta la sua eloquenza quando la donna strappata alla casa si trova attirata nella compagnia e coll’esempio degli uomini; così da una volgare questione economica si cade in un delitto antropologico. 

Davanti ai disastri dell’alcool nella fibra della donna, quanto dire della madre, non è il caso di rilevare la breccia che per questo lato si forma anche nel bilancio delle famiglie povere. 

Infine, coll’auspicato pareggio non si potranno già pareggiare le funzioni del sesso; la donna che tanto deve dare delle sue energie e del suo sangue alla conservazione della specie riuscirà inferiore alla lunga nella gara di fatiche coll’uomo. Occupata, e così seriamente nella maternità, la quale non è solo un travaglio di nove mesi ma è il lavoro di tutta la vita per la preparazione e per le conseguenze, ella sarà obbligata a cedere quando i pochi esperimenti personali (quindi inconcludenti per la verità di un principio) avranno invaso la totalità delle femmine. Purtroppo vi sono casi nei quali la donna è obbligata a lavorare al pari di un uomo il che vuol dire di più di un uomo poichè ha già il suo lavoro di donna, ma queste sono piaghe sociali, non sono idealità future. 

Riserbandoci ad altra occasione di discutere meglio il diritto all’uguaglianza e la felicità fuori della famiglia, terminiamo per oggi la contemplazione del fattore economico. Bebel fa balenare come un grande miraggio di progresso l’assetto socialistico nel quale la casa deve ridursi alle minime proporzioni, una specie di tenda per ricoverarsi alla notte, dovendosi la maggior parte del tempo spendere nella vita pubblica, nelle riunioni, nei comizi, nelle arringhe. Egli assicura a dir vero che quando anche la preparazione dei cibi diventerà istituzione sociale lo stomaco funzionerà meglio (La donna e il socialismo, pag. 417) e tale mirabile affermazione è bene fatta per sorridere a molti; ma noi che non crediamo tanto prossima la distruzione della casa vogliamo un po’ vedere se essa è veramente quell’arnese inutile che si va dicendo. 

Perchè non si fanno più calze è forse cessato il lavoro femminile in casa? Consideriamo le esigenze della moda al giorno d’oggi, la frequente mutabilità, la spesa grandissima della mano d’opera da una parte; dall’altra il basso prezzo delle stoffe e la poca durata di esse, e sarà facile concludere che se le donne si applicassero a fabbricarsi da se una parte del loro abbigliamento realizzerebbero con un lavoro tranquillo e casalingo ben maggiori economie che non a correre le strade in cerca di guadagno. Questo io dico principalmente alle piccole borghesi, alle donne di quella categoria così detta civile ma scarsa di mezzi e che è forse la più numerosa e la più bisognevole di aiuto. Lo so anch’io che non trovano più nulla da fare in casa. Fanno fare tutto fuori! Provino a contare in fine d’anno quanto viene a costare la sarta, la modista, la bustaia, la stiratrice, la cucitrice, molto più se nel conto ci devono stare gli abiti, i grembiuli, le calzine, i berrettini dei bimbi; non parliamo della biancheria comune di famiglia che presto cade in rovina se non si rimedia a tempo e per la quale è pure cresciuto il lusso delle trine e dei trafori, quindi del lavoro per la donna economica che vuole far figurare bene la sua casa. 

Ognuno può vedere i sacrifici che si impongono certe piccole famiglie borghesi per insegnare alle fanciulle una lingua straniera, o il piano, o la pittura, persuasi che ciò renderà loro in avvenire; e intanto spendono trenta o quaranta lire in un cappella che ne ha, di valore, dieci o quindici ma che raggiunge quella cifra iperbolica perchè, comperato in un negozio, ha sopra di se la spesa dell’affitto, dell’illuminazione, della mano d’opera e del capitale impiegato. E la piccola famiglia paga tutto questo, mentre sarebbe così semplice che la fanciulla prima di imparare le lingue straniere, il piano o la pittura, imparasse a prepararsi i propri cappelli; visto che di cappelli ne porterà sempre, e l’applicazione di quelle altre cognizioni invece è per lo meno problematica. 

Si sono messe tante volte in ridicolo le trine all’uncinetto; confesso di non comprendere questo ostracismo assoluto. Oramai si fanno bellissimi lavori anche all’uncinetto, così come sono progrediti tutti i lavori femminili dei quali l’ultima Esposizione a Villa Reale diede luminosi esempî. Del resto dipingere quadri mediocri o scrivere romanzi noiosi è forse più nobile e più proficuo? Non sono di tale opinione. 

Gli uomini che hanno uno speciale interesse congiunto alla questione femminista vanno anche spargendo la voce che nelle occupazioni casalinghe la donna istupidisce e paralizza le facoltà dell’ingegno, che il ricamo è snervante, che il cucito è penoso, quasi che essi potessero essere buoni giudici in proposito. Io invece, avendo fatto in vita mia oltre ai ricami non so quante paia di calze ed avendo cucito io stessa gli abiti de’ miei figli fino all’età di dieci anni posso assicurare che questi lavori sono piacevolissimi e riposano lo spirito. Se i nervi dell’uomo non resistono alla continua tensione mentale, come vi resisterebbero quelli della donna sui quali gravita tanto altro lavoro? È dunque utile anche per la salute della donna questo genere di occupazioni così strettamente generate dalle sue attitudini e da’ suoi gusti concentrici; nè esse saprebbero turbare in alcun modo lo sviluppo del suo ingegno naturale, che anzi nel raccoglimento di tali lavori matura il talento di osservazione e si formano quei ben temprati caratteri femminili forti e dolci ad un tempo, appassionati e riflessivi, che furono in tutti i secoli onore e vanto nostro. 

Avendo già citate e la Eliot e la Sand in prova che i maggiori ingegni femminili si svilupparono nella solitudine e nel raccoglimento della casa, aggiungerò l’esempio delle sorelle Bronté una delle quali, Carlotta, sotto il pseudomino di Currer Bell prese posto onorevole fra i romanzieri inglesi e l’altra Emilia, è chiamata da Maeterlink l’anima femminile più grande del suo secolo — che fu pure il secolo della Eliot. E se la Eliot passò la giovinezza manipolando burro, e Giorgio Sand preparando conserve, le sorelle Bronté nello squallore della casa paterna tiravano il mangano per fare il pane. 


1Bebel: La donna e il socialismo.