Due donne, l’una seduta ritta, l’altra sdraiata sopra un divano con una sigaretta fra le dita: questo il gruppo che uno scultore milanese presentò alcuni anni or sono ad una mostra di belle arti col titolo: Schiave bianche. Il gruppo per ragioni di pudore fu respinto e durante qualche tempo, esposto nella vetrina di un negozio, attirò gli sguardi di tutti i curiosi i quali naturalmente scissi in due fazioni approvavano o biasimavano il verdetto del comitato.
Per verità il gruppo in sè stesso non giustificava il rigore del rifiuto. Nulla vi era nella posa e nell’abbigliamento delle due donne che potesse stonare in mezzo alle ninfe ed alle bagnanti, assai meno vestite, che sogliono popolare le esposizioni. Il titolo fu quello che impaurì i signori della giuria. Coll’innocente appellativo di Oziose o qualsiasi altro del genere, il gruppo sarebbe passato senza lode e senza infamia, inosservato forse. Ma si chiamava schiave bianche coll’evidente intenzione di oltrepassare il fine dell’arte, richiamando il pensiero sopra una questione d’ordine morale; e la commissione per le belle arti, presa così all’improvviso da una metafora che le metteva brutalmente dinanzi ciò che gli uomini sogliono relegare nelle loro memorie più nascoste e più gelose, si impennò, arrossì di tutte le debolezze passate, presenti e future, come se una mano violenta avesse strappato a quei signori l’ultimo velo del pudore. Cento ricordi lontani, dimenticati, soffocati, reietti nel cantuccio più vile dell’essere, come si cela la biancheria sudicia nel punto più buio della casa, dovettero sorgere nell’animo di quelle egregie persone. Cittadini, mariti, padri, essi non potevano permettere che le loro spose e le loro figlie contemplassero riprodotta nella plasticità della creta e nell’aureola dell’arte, l’infima vergogna del sesso; senza riflettere che gli ignari di quelle vergogne ben poco l’avrebbero scorta nel gruppo incriminato, anche coll’aiuto del titolo.
Da allora, saranno circa dieci anni, l’argomento è salito agli onori della pubblica discussione e su questo soggetto delle schiave bianche si tennero conferenze, si scrissero articoli, si stabilirono commissioni, si apersero collette. Le donne oneste non temettero di mischiarsi al movimento, non solo, ma furono le prime a promuoverlo, le più ardenti a sostenerlo. Si potrebbe forse osservare che mancano un poco dell’esperienza del loro soggetto…. non certo di fede e di buona volontà! Ma anche la fede e la buona volontà hanno il loro lato manchevole quando si tratta di questioni tanto complesse. Mi pare intanto di dover avvertire che l’impostazione stessa della guerra che si vuol muovere pecca di vedute corte, unilaterali vociando troppo quel ritornello ormai frusto per essere passato e ripassato su tutti gli organetti: la miseria e l’ignoranza. Colla miseria e coll’ignoranza oramai si vuol spiegare ogni cosa.
Premetto che l’opera di protezione per le fanciulle pericolanti o abbandonate è santa come tutto ciò che si fa in pro della giovinezza santa ma non nuova; ammetto che molte fanciulle sono tratte coll’inganno alla mala vita e qualcuna, ma qualcuna appena, dalla miseria. Sta bene. Si faccia per queste poverette tutto quello che si deve e vada ad esse la compassione materna di tutte le donne. Credere però che vincendo la miseria e l’ignoranza (poichè le due parole si ripetono insistentemente su tutti i toni e sole) venga sciolto il doloroso problema, è accordare a fattori materiali una importanza esagerata e di gran lunga inferiore alla loro potenzialità. Chi afferma che la miseria e l’ignoranza traggono la donna all’estrema degradazione dice parte della verità, non tutta la verità. Io anzi non mi perito ad asserire che la miseria e l’ignoranza non forniscono che una centesima parte di contingente al vizio, il quale si alimenta a fonti ben altrimenti oscure. Col voler dare alla miseria ed all’ignoranza tutta la colpa delle abbiettezze umane si sottrae l’attenzione della coscienza all’esame delle altre cause prevalenti; e ciò è di gravissimo danno, perchè non bisogna dimenticare che una molla lasciata inoperosa si guasta. Così deve essere dei sentimenti di dignità e di responsabilità che la comoda teoria di buttar tutto sulle spalle della miseria e dell’ignoranza finirà col paralizzare completamente.
No, io non posso interessarmi ai miglioramenti materiali che tanto appassionano al giorno d’oggi perchè non vedo in essi alcuna forza di veri ideali. Se il denaro e l’istruzione (quanto denaro e quale istruzione?) bastassero a risolvere il problema morale, esso sarebbe già risolto in una maggiore moralità delle classi ricche. I ricchi provvisti di denaro e di istruzione dovrebbero essere il modello della virtù. Abbiamo noi questo? Credo bene che nessuno vorrà affermarlo. E allora? Questo è il nodo della questione.
Gli operai francesi che si citano sempre per i lauti stipendi e per la maggior coltura non sono più degli italiani viziosi ed alcoolici? Le operaie del Belgio che guadagnano quanto gli uomini e insieme agli uomini vivono in libero amore ed in concordi ubbriacature, potrebbero forse insegnare i buoni costumi alle operaie nostre più povere e più ignoranti? La miseria, questa famosa miseria, orco delle parole che fa inorridire tutte le altre, battuta da presso e rintracciata nella sua tana non si risolve il più delle volte in un desiderio di lusso e di vita comoda? Certo il moralista compatirà anche questo desiderio e lo troverà umano, ma è bene che ogni cosa abbia il suo posto ed ogni parola il suo significato.
Mi trovavo un giorno nel negozio di un libraio quando entrò una bella ed elegante signora a ritirare dei libri in abbonamento. Avendo preso interesse ad alcuni particolari della sua fisonomia chiesi chi fosse. Il libraio che di frasi fatte ne ode tante, rispose enfaticamente: «È una vittima della società!» — Vale a dire? — «Sa… una di quelle donne!…» — Scusi mi spieghi un poco come c’entra la società, perchè infine apparteniamo tutti alla società e mi preme sapere la parte di responsabilità che mi tocca. La prego dunque di narrarmi la storia di quella signora. — Il libraio, grave, incominciò: — «Anzitutto è una donna senza testa».
Il fatto è autentico. Quante altre storie simili si potrebbero incominciare proprio così. Anzitutto è una donna senza testa.
Mi rivolgo a tutte le donne, alle madri di famiglia, alle direttrici di stabilimenti, a coloro infine che avvicinarono molte fanciulle in qualità di serventi, di operaie, di allieve. Ricordano le infingarde che non amano il lavoro? le vanerelle tutte prese dalla loro bellezza? le squilibrate? le sciocche? le impudenti? le insensibili e irriducibili? E non hanno mai pensato che costoro erano altrettante candidate… alla schiavitù? Senza dubbio la maggior parte aiutate da circostanze favorevoli entrano nelle rotaie della vita comune; ma basta un urto, una piccola occasione, un cattivo esempio, qualche disgrazia, perchè si buttino alla mala vita. Sarà giusto dire che la colpa fu della società, della miseria, della mancata educazione? E tutte quelle che resistettero? Quante ne conobbi fra le tentazioni e la miseria, le quali avrebbero veramente avuto una attenuante al cadere, nate da genitori abbietti, cresciute alla ventura, analfabete, eppure salvate dalla rettitudine dei loro sentimenti! Perchè non si vuole tener conto di questo fattore altissimo in una questione dove le ragioni psichiche militano per lo meno alla pari colle circostanze esterne?
Una celebre orizzontale che viveva a Parigi sotto il secondo Impero e che lasciò le proprie memorie, narra il suo primo passo. Era figlia di un pastore protestante; aveva in casa pane, istruzione e buon numero di fratelli e sorelle. Un giorno tornando dalla scuola (aveva quattordici anni) incontra un signore che le narra delle storielle… Ella conosceva certamente l’avventura del Cappuccetto rosso, ma non ne seppe trarre un saggio ammonimento, poichè seguì lo sconosciuto a casa sua e il pastore non vide mai più la pecorella smarrita. Avrebbero agito in tal modo tutte le fanciulle? Anche cedendo alle lusinghe del… lupo, non sarebbero altre ritornate piangendo nelle braccia della madre? C’era dunque nella costruzione fisica e morale di quella fanciulla un alleato pronto a secondare le mosse del nemico. Non è questo che bisogna ricercare se si vuole che l’agitazione per la buona causa abbia uno scopo veramente efficace?
Ahi! troppo comodo partito è quello di gettare ogni responsabilità sulle braccia vaghe della miseria e dell’ignoranza!
E mi rivolgo ora agli uomini. Dicano essi in quale incommensurabile raccolta di stupidaggine innata, di insensibilità e di impostura affogano le eccezionali creature cadute nel baratro per colpa degli altri. Quale sistemazione economica potrebbe far fronte alla stupidaggine ed alla vanità dei delinquenti nati? Dobbiamo avere pietà per costoro. Abbiamola. Ma pietà efficace non deve sciuparsi in sentimentalismi, i quali, non fosse altro, fanno perdere un tempo prezioso deviando il cercatore dal sentiero che guida alla verità.
Un forzato della Nuova Caledonia lasciò in alcuni quaderni scritti nel penitenziario un esempio chiaro di questa criminalità istintiva. Figlio di un avvocato che spendeva la maggior parte del suo tempo e delle sue sostanze nella propaganda democratica, Alfonso Delfont rimasto orfano trovò un impiego di archivista; ma se in esso fece prova di intelligenza rivelò pure un carattere impetuoso e stravagante. Arrestato per moti sediziosi, fu rimesso in libertà, ma perdette l’impiego e cominciò allora nel suo cervello il fermento dell’odio contro la società. Ad onta di questo un amico di famiglia venne in suo aiuto offrendogli un impiego nella propria casa. Nè basta. Muore uno zio ricco e gli lascia da vivere agiatamente. Entra nell’esercito vi si distingue, è decorato, ha incombenze onorevoli. Qui si dovrebbe far punto. Invece sempre per la violenza e l’alterigia dei suoi modi schiaffeggia un superiore, è arrestato, condannato. Gli amici riescono a farlo fuggire. Ripara in Tunisia, rifà la sua fortuna, è creato bey… ma finisce all’ergastolo. Gravi, gravi assai questi problemi umani!
Torniamo alle schiave bianche che per tante vie si riuniscono al problema della delinquenza nata. Era certamente una di esse ch’io vidi nel baraccone di una fiera; insensibile al freddo di un rigidissimo gennaio sotto la maglia di cotone che la lasciava quasi nuda. Sulle prime pensai anch’io che la povertà l’avesse ridotta a fare quel mestiere e mi stringeva il cuore di profonda compassione. Se non chè, guardandola, i tratti del suo viso me ne rammentarono altri veduti in ben altri luoghi, tra i doppieri delle sale dove vanno i felici del mondo. Erano gli stessi occhi luccicanti e superficiali, le stesse mani ripugnanti al lavoro, lo stesso stigma di delinquenza scolpito in fronte. Non avevo che a cambiare la maglia di cotone con un sontuoso abito da ballo per vedervi fremere dentro la stessa lascivia. Che cosa facevano di diverso quelle signore educate in collegio? Non si offrivono forse per un gioiello o per un abito nuovo, tanto e quanto questa poveraccia? E se pure per questa la causa fu la miseria, quale scusa avranno avuta le altre e perchè non dovremo preoccuparcene? Perchè non dovremo ricercare tutte le cause che spingono una donna sulla lubrica via se vogliamo veramente trovare tutti i mezzi per salvarla? La società può fare qualche cosa in questo senso ma non riescirà a nulla se prima non si occupa ad elevare la coscienza individuale.
Non vorrei pronunciare qui la parola virtù perchè è stata sciupata dalle religioni che dividono gli uomini in due categorie: i credenti e i non credenti. Ma questo parmi anche l’errore di certi sociologhi i quali vogliono giustificare ogni bruttura, ogni vizio della classe povera, quasi la classe che ha denari e coltura e che dovrebbe perciò essere modello di perfezione, non ripetesse sotto altre forme le stesse brutture, gli stessi vizii. Se non dunque virtù nel significato chiesastico, chiamisi pure con altro nome il sentimento morale. Esiste e non appartiene all’una piuttosto che all’altra classe, non può essere il frutto di combinazioni materiali nè di materiali progressi. Sorge da ogni classe e da ogni popolo, sorge fra i ceppi della miseria e fra quelli dell’opulenza, fra la corruzione ignorante e la corruzione sapiente. E desso che bisogna coltivare. Sorge raro e solitario, sperando nelle conquiste ideali che fa presente lotta di appetiti intorbida e ricaccia in un lontano avvenire. Il trionfo della razza umana sarà quello.
Ma non bisogna troppo affidarsi alla smania di collettivismo che domina l’ora presente. Coloro stessi che intendono di abolire fin l’ultimo privilegio di classe non faranno che spostarli dai nobili e dai potenti ai poveri ed ai plebei, mentre la verità è che non vi sono meriti di classe ma solamente meriti di persona. L’individuo vale per quello che è, non per la classe cui appartiene, la quale ugualmente non può nè inorgoglirsi nè vergognarsi di lui. Tutti gli uomini sono popolo; l’uomo solo è qualcuno.
Lo stesso pregiudizio collettivista si infiltra nella questione femminile e minaccia il problema delle schiave bianche. Torno a ripetere volentieri che opporsi con tutti i mezzi all’inganno che trae fanciulle innocenti sulla mala via e punire severamente i corruttori sarà opera santa; non calcoliamo troppo tuttavia sopra questo mezzo; esso è limitato al pari dell’influenza della miseria. Per ben altre vie si turba e si corrompe l’animo femminile!
È anche necessario conservare un certo disprezzo per il fatto, non scusarlo e ammetterlo con sì larga dose di irresponsabilità, quasi a creargli intorno un’aureola di sacrificio e di poesia. Ricordiamoci che nella maggior parte di queste donne c’è una disposizione morbosa, una criminalità latente non molto diversa da quella dei delinquenti e al pari di essa cedevole a stimoli smodati di vanità, mentre rimane insensibile a tutte le ragioni di ordine morale.
Infine, non vorrei mi si fraintendesse al punto di credere che la mia povera prosa tenda a intralciare l’opera dei filantropi. Al contrario, metto al loro servizio trent’anni di osservazioni sulla donna; esse potranno valere almeno come documento che l’importante questione è stata guardata da un altro punto di vista con altro metodo e mezzi diversi e la conclusione è questa: Avanti! Avanti! Non avete finora fatto altro che sfiorare la corolla dell’immenso fiore del male. La radice è molto più in fondo.