LA PARTE DELLA DONNA

Sempre mi sta dinanzi la casetta di Lazzaro in Bethania, sulla vetta della collina, cinta di ulivi e di tamarindi. È là che Gesù in mezzo a due donne tanto diverse l’una dall’altra pronunciò le sublimi parole “Marta Marta, tu sei sollecita e ti travagli intorno a molte cose, ma di una sola fa bisogno„. 

Io sono persuasissima che tutte le donne le quali ora lavorano per la questione così detta femminista ritengono fermamente di averla sepolta la buona Marta con tutte le sue faccende domestiche e si immaginano di essere Maria, Maria a cui Gesù disse «Tu hai scelto la buona parte, quella che non ti verrà tolta». Esse invece non sono che Marte moderne; hanno abbandonato la rigovernatura delle stoviglie ma rigovernano ancora e si affanano materialmente intorno a Gesù, invece di offrirgli in silenzio l’ardore dell’anima — la sola cosa di cui fa bisogno. 

Una singolare confusione di idee si è venuta ora sovrapponendo alla nozione semplice e retta dei reciproci doveri e per ciò queste donne chiedono: volete che noi viviamo lungi dall’anima del compagno, insensibili alle vittorie e alle delusioni sue? e vivere accanto all’anima del compagno, partecipare alle sue vittorie e alle sue delusioni vuol dire essere avvocato come lui, dottore come lui, professore come lui, scrittore come lui, elettore, conferenziere, mitingaio come lui; cioè interpretare la propria missione nel modo più pedestre, più gretto, più egoistico, più contrario all’ordine ed alla economia sociale, in cui i due sessi rappresentano due forze e due energie opposte, come sarebbe a dire le radici e la vetta dell’albero, entrambe necessarie ma per vie diverse alla completa fioritura di esso. 

L’ideale è che la donna sia tanto unita all’uomo da non formare che un essere solo, dunque una sola questione e un solo interesse: non capisco il progresso della donna disgiunto dal progresso dell’uomo. Se l’uomo ha progredito ha progredito con lui anche la donna per ineluttabile legge di equilibrio naturale, e progredirà ancora, ma senza bisogno di scindere quella che io chiamo causa comune. Fare ognuno la propria parte con un medesimo fine, ecco ciò che si deve; ma ognuno la propria parte. 

Non è del resto da meravigliarsi che l’utopia dopo di avere debellato lo spirito forte, il maschio, si attacchi allo spirito debole, la femmina, e mieta abbondantemente in ogni campo e in ogni classe, poichè essa ha veramente la superficie iridata degli specchietti per allodole ed alle spostate offre la sedazione delle carriere libere, alle infelici la speranza di riformare il loro destino, alle pedanti la gioia di stendere dei programmi, alle sciocche il mezzo di apparire intelligenti, a quelle che si annoiano una occupazione, a quelle che flirtano un campo nuovo da esplorare. Tutte credono di essere mosse da un unico ideale grandioso e tutte non fanno altro che girare su se stesse. 

Certo vi sono anche anime elette che aspirano ad una perfezione i cui germi stanno esclusivamente dentro di loro, e queste veramente mi interessano e mi fanno compassione, come bravi soldati troppo impazienti che si stancano e vanno sciupando le loro forze a guerreggiare contro i fantasmi. Intanto abbiamo nel campo femminista uno spettacolo non molto dissimile da quello che presenta il Santo Sepolcro a Gerusalemme dove ardono quarantatre lampade: tredici per la fede dei cristiani Greci, tredici per la fede dei cristiani Latini, tredici ancora per i cristiani Armeni e quattro per i Cofti — tutti persuasi di adorare il vero Dio. 

Imitare e sostituire l’uomo mi sembra, oltre che inutile, molto più umiliante dell’avere una missione a sè che la donna ha davvero ed infinitamente superiore a quelle che può togliere dall’uomo. La brutta idea non è nemmeno nuova. Fino dal secolo tredicesimo una seguace di Guglielmina la Boema voleva andare a Roma per far abolire il papa maschio e istituire un papato femminile. Ma quando vediamo una donna emergere nelle arti o nelle scienze, non dobbiamo credere che ella sia un segno precursore di altre donne simili nell’avvenire; no, ella è semplicemente una eccezione, e come tale possiamo apprezzarla più o meno ed anche ammirarla, se è il caso, ma non di più. Dire che la donna non fa generalmente ciò che fa l’uomo per vizio atavico, è confondere in un modo troppo grossolano per verità gli ultimi dettati della scienza, ed è anche ignorare che donne straordinarie, cioè fuori del comune, o eccezionali come dico io, vi furono sempre; perchè tali qualità nella donna non possono essere il risultato di una educazione o di una preparazione, ma solo la manifestazione isolata e individuale di un modo specialissimo di sentire. Le due più grandi scrittrici del secolo, Giorgio Eliot e Giorgio Sand, passarono i primi trent’anni della loro vita, l’una a manipolare burro, l’altra a fabbricar conserve; forse nessuna, ripeto, nessuna delle fanciulle che ora si vogliono tirar su per scrittrici (povere fanciulle!) scriverà il Mulino sulla Floss o Consuelo. Ma anche è necessario persuadersi che migliaia di donne le quali non scrissero romanzo alcuno sono e per intelligenza e per benefico influsso delle loro anime e per ricca sensibilità benemerite al pari e più della Eliot e della Sand. 

Appoggerò qui una tesi alla quale accennai già altrove, cioè che tutta la forza impiegata dalla donna per i lavori, dirò così esterni, della intelligenza, vanno a detrimento del lavoro intimo, sublime, inimitabile, che lei sola può compiere, sacrificando la sua personalità all’uomo che deve nascere da lei. Sotto questo aspetto è facile scorgere quanto e la Eliot e la Sand poco diedero alla umanità in confronto delle oscure madri di Leonardo e di Dante. Compiangiamo anzichè invidiare, la donna che spinta da occulti destini fallisce la sua missione di olocausto al sesso da cui esce il genio. 

Se io fossi investita di una autorità qualsiasi e la mia voce potesse lusingarsi di essere ascoltata, vorrei fare una ricerca e stabilire una statistica delle madri degli uomini grandi. Quasi sempre si troverebbe una donna superiore che non produsse nulla. La difficoltà di questa ricerca sta tuttavia nell’indole stessa della tesi che vorrei dimostrare, perchè appunto quelle donne non fecero palare di sè e non lasciarono memorie scritte. 

Cito a caso le madri di Goethe, di Schopenhauer, di Tennyson, di Ruskin, tutte di gran valore intellettuale o morale. La madre di Alfredo de Vigny, moglie di soldato, sapendo il figlio pure destinato alle armi, potè nell’ambiente eccitatore delle guerre napoleoniche trasfondere in lui le proprie doti di sensibilità e di finezza per cui la Francia annovera Alfredo de Vigny tra i suoi uomini migliori. L’emulo suo, Lamartine, ebbe anch’egli una madre ideale, una madre che era ella stessa l’essenza della poesia e che invece di scrivere dei versi fece un poeta. Guardando in casa nostra vediamo Belli, uno dei poeti dialettali più simpatici, trarre la delicata e sensibile tempra non certo dal padre, gretto e brutale, ma irraggiarsi in lui l’anima gentile della madre morta giovane ed infelicissima. Enrico Tazzoli, il martire di Belfiore, ebbe dalla madre il cuore ardente e coraggioso come quasi tutti — mirabile accordo femminile — gli eroi del nostro risorgimento. E come non pensare alla scontrosa malata anima di Leopardi senza ricordare con istintivo movimento di ricerca quella donna così poco donna che fu la contessa Leopardi nata marchesa Antici? In qual modo si sarebbe svolto con un’altra madre il genio dell’autore di Ginestra?… 

Una figura grandiosa, una figura che trovo particolarmente interessante giganteggia in questa ricerca che sto facendo dei riscontri intimi tra madre e figlio. Agostino di Tagaste, l’ingegno più mirabilmente moderno dell’antica cristianità, non riconosce di dover tutto a sua madre? Qual donna fu Monica! Non si leggono più le Confessioni di S. Agostino ritenendole buone solamente per i preti. Si ha torto. Sfrondati alcuni capitoli che non saprebbero più interessarci, tutto ciò che si riferisce alla vita intima del potente scrittore è ancora al giorno d’oggi affascinante. “Avvicinandosi il giorno in cui (la madre) doveva uscire da questa vita, giorno a Te (Dio) noto, ignoto a noi, avvenne, procurandolo Tu, credo con occulti tuoi modi, che ella ed io fossimo soli appoggiati ad una finestra sopra il giardino dell’albergo in Ostia dove, lontani dal tumulto dopo la fatica di lungo viaggio, ci rifacevamo per rimetterci in mare.„ 

Così incomincia il capitolo che precede la morte di Monica; e ancora parlando di sua madre Agostino trova una frase ammirabile: “Aveva nutriti i figliuoli suoi tante volte partorendoli quante scorgeva che deviassero da Te„. E su queste parole luminose ricche di profondi ammonimenti lascio meditare le mie lettrici che trovano poco da fare nella loro parte di donna.