4 Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo

E sappi che in Verona ebbe già un Vescovo molto savio di scrittura e di senno naturale, il cui nome fu messer Giovanni Matteo Giberti, il quale fra gli altri suoi laudevoli costumi si fu cortese e liberale assai a’ nobili gentiluomini che andavano e venivano a lui, onorandogli in casa sua con magnificenza non soprabondante, ma mezzana, quale conviene a cherico. Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui, la quale era per lo più di costumati uomini e scienziati. E percioché gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo commendarono et apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne’ suoi modi; del quale essendosi il Vescovo – che intendente signore era – avveduto et avutone consiglio con alcuno de’ suoi più domestichi, proposero che fosse da farne aveduto il Conte, comeché temessero di fargliene noia. Per la qual cosa, avendo già il Conte preso commiato e dovendosi partir la matina vegnente, il Vescovo, chiamato un suo discreto famigliare, gli impose che, montato a cavallo col Conte, per modo di accompagnarlo, se ne andasse con esso lui alquanto di via; e, quando tempo gli paresse, per dolce modo gli venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare uomo già pieno d’anni, molto scienziato et oltre ad ogni credenza piacevole e ben parlante e di grazioso aspetto, e molto avea de’ suoi dì usato alle corti de’ gran signori: il quale fu e forse ancora è chiamato M(esser) Galateo, a petizion del quale e per suo consiglio presi io da prima a dettar questo presente trattato. Costui, cavalcando col Conte, lo ebbe assai tosto messo in piacevoli ragionamenti; e di uno in altro passando, quando tempo gli parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il Conte et accommiatandolo, con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: – Signor mio, il Vescovo mio signore rende a V(ostra) S(ignoria) infinite grazie dell’onore che egli ha da voi ricevuto; il quale degnato vi siete di entrare e di soggiornar nella sua picciola casa. Et oltre a ciò, in riconoscimento di tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono per sua parte, e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con lieto animo; et il dono è questo. Voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; per la qual cosa, avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere et essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente piacevole e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le labra e con la bocca, masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo e pregandovi che voi v’ingegniate del tutto di rimanervene e che voi prendiate in luogo di caro dono la sua amorevole riprensione et avertimento; percioché egli si rende certo niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse. – Il Conte, che del suo difetto non si era ancora mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco, ma, come valente uomo, assai tosto ripreso cuore, disse: – Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanta sua cortesia e liberalità verso di me ringraziatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio per innanzi bene e diligentemente mi guarderò; et andatevi con Dio.