13 Contro i millantatori e i bugiardi o coloro che si vantano

E, quantunque niuna cosa paia che si possa trovare più vana de’ sogni, egli ce n’ha pure una ancora più di loro leggiera, e ciò sono le bugie: però che di quello che l’uomo ha veduto nel sogno pure è stato alcuna ombra e quasi un certo sentimento, ma della bugia né ombra fu mai né imagine alcuna. Per la qual cosa meno ancora si richiede tenere impacciati gli orecchi e la mente di chi ci ascolta con le bugie che co’ sogni, comeché queste alcuna volta siano ricevute per verità; ma a lungo andare i bugiardi non solamente non sono creduti, ma essi non sono ascoltati, sì come quelli le parole de’ quali niuna sustanza hanno in sé, né più né meno come s’eglino non favellassino, ma soffiassino. E sappi che che tu troverai di molti che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro utile, né di danno o di vergogna altrui, ma percioché la bugia per sé piace loro, come chi bee non per sete, ma per gola del vino. Alcuni altri dicono la bugia per vanagloria di se stessi, milantandosi e dicendo di avere le maraviglie e di essere gran baccalari. Puossi ancora mentire tacendo, cioè con gli atti e con l’opere; come tu puoi vedere che alcuni fanno, che, essendo essi di mezzana condizione o di vile, usano tanta solennità ne’ modi loro e così vanno contegnosi e con sì fatta prorogativa parlano, anzi parlamentano, ponendosi a sedere pro tribunali e pavoneggiandosi, che egli è una pena mortale pure a vedergli. Et alcuni si truovano, i quali, non essendo però di roba più agiati degli altri, hanno d’intorno al collo tante collane d’oro e tante anella in dito e tanti fermagli in capo e su per li vestimenti appiccati di qua e di là, che si disdirebbe al Sire di Castiglione: le maniere de’ quali sono piene di scede e di vanagloria, la quale viene da superbia, procedente da vanità; sì che queste si deono fuggire come spiacevoli e sconvenevoli cose. E sappi che in molte città – e delle migliori – non si permette per le leggi che il ricco possa gran fatto andare più splendidamente vestito che il povero, percioché a’ poveri pare di ricevere oltraggio quando altri, eziandio pure nel sembiante, dimostra sopra di loro maggioranza; sì che diligentemente è da guardarsi di non cadere in queste sciocchezze. Né dee l’uomo di sua nobiltà né di suoi onori né di ricchezza e molto meno di senno vantarsi; né i suoi fatti o le prodezze sue o de’ suoi passati molto magnificare, né ad ogni proposito annoverargli, come molti soglion fare: percioché pare che egli in ciò significhi di volere o contendere co’ circostanti, se eglino similmente sono o presumono di essere gentili et agiati uomini e valorosi, o di soperchiarli, se eglino sono di minor condizione, e quasi rimproverar loro la loro viltà e miseria: la qual cosa dispiace indifferentemente a ciascuno. Non dee adunque l’uomo avilirsi, né fuori di modo essaltarsi, ma più tosto è da sottrarre alcuna cosa de’ suoi meriti che punto arrogervi con parole; percioché ancora il bene, quando sia soverchio, spiace. E sappi che coloro che aviliscono se stessi con le parole fuori di misura e rifiutano gli onori che manifestamente loro s’appartengono, mostrano in ciò maggiore superbia che coloro che queste cose, non ben bene loro dovute, usurpano. Per la qual cosa si potrebbe per aventura dire che Giotto non meritasse quelle commendazioni che alcun crede per aver egli rifiutato di essere chiamato maestro, essendo egli non solo maestro, ma, sanza alcun dubbio, singular maestro, secondo quei tempi. Ora, che che egli biasimo o loda si meritasse, certa cosa è che chi schifa quello che ciascun altro appetisce mostra che egli in ciò tutti gli altri o biasimi o disprezzi; e lo sprezzar la gloria e l’onore, che cotanto è dagli altri stimato, è un gloriarsi et onorarsi sopra tutti gli altri, conciosiaché niuno di sano intelletto rifiuti le care cose, fuori che coloro i quali delle più care di quelle stimano avere abondanza e dovizia. Per la qual cosa né vantare ci debbiamo de’ nostri beni, né farcene beffe, ché l’uno è rimproverare agli altri i loro difetti, e l’altro schernire le loro virtù; ma dee di sé ciascuno, quanto può, tacere, o, se la oportunità ci sforza a pur dir di noi alcuna cosa, piacevol costume è di dirne il vero rimessamente, come io ti dissi di sopra. E perciò coloro che si dilettano di piacere alla gente si deono astenere ad ogni poter loro da quello che molti hanno in costume di fare, i quali sì timorosamente mostrano di dire le loro openioni sopra qual si sia proposta, che egli è un morire a stento il sentirgli, massimamente se eglino sono per altro intendenti uomini e savi. – Signor, V(ostra) S(ignoria) mi perdoni se io no’l saprò così dire: io parlerò da persona materiale come io sono e, secondo il mio poco sapere, grossamente, e son certo che la S(ignoria) V(ostra) si farà beffe di me; ma pure, per ubidirla… –: e tanto penano e tanto stentano che ogni sottilissima quistione si sarebbe diffinita con molto manco parole et in più brieve tempo: percioché mai non ne vengono a capo. Tediosi medesimamente sono e mentono con gli atti nella conversazione et usanza loro alcuni che si mostrano infimi e vili; et essendo loro manifestamente dovuto il primo luogo et il più alto, tuttavia si pongono nell’ultimo grado; et è una fatica incomparabile a sospingerli oltra, però che tratto tratto sono rinculati a guisa di ronzino che aombri. Perché con costoro cattivo partito ha la brigata alle mani qualora si giugne ad alcun uscio, percioché eglino per cosa del mondo non voglion passare avanti, anzi sì attraversano e tornano indietro, e sì con le mani e con le braccia si schermiscono e difendono che ogni terzo passo è necessario ingaggiar battaglia con esso loro e turbarne ogni sollazzo e talora la bisogna che si tratta.