20 Sui motti di spirito

E dèi oltre a ciò sapere che alcuni motti sono che mordono et alcuni che non mordono; de’ primi voglio che ti basti il savio ammaestramento che Lauretta ne diede, cioè che i motti come la pecora morde deono così mordere l’uditore, e non come il cane: percioché, se come il cane mordesse, il motto non sarebbe motto ma villania; e le leggi quasi in ciascuna città vogliono che quegli che dice altrui alcuna grave villania sia gravemente punito; e forse che si conveniva ordinar similmente non leggieri disciplina a chi mordesse per via di motti oltra il convenevole modo; ma gli uomini costumati deono far ragione che la legge che dispone sopra le villanie si stenda eziandio a’ motti, e di rado e leggiermente pungere altrui. Et oltre a tutto questo, sì dèi tu sapere che il motto, comeché morda o non morda, se non è leggiadro e sottile gli uditori niuno diletto ne prendono, anzi ne sono tediati, o, se pur ridono, si ridono non del motto, ma del motteggiatore. E percioché niuna altra cosa sono i motti che inganni, e lo ingannare, sì come sottil cosa et artificiosa, non si può fare se non per gli uomini di acuto e di pronto avedimento, e spezialmente improviso, percioché non convengono alle persone materiali e di grosso intelletto, né pure ancora a ciascuno il cui ingegno sia abondevole e buono, sì come per aventura non convennero gran fatto a messer Giovan Boccaccio; ma sono i motti speziale prontezza e leggiadria e tostàno movimento d’animo. Per la qual cosa gli uomini discreti non guardano in ciò alla volontà, ma alla disposizion loro, e, provato che essi hanno una e due volte le forze del loro ingegno invano, conoscendosi a ciò poco destri, lasciano stare di pur voler in sì fatto essercizio adoperarsi, accioché non avenga loro quello che avenne al cavaliero di madonna Orretta. E se tu porrai mente alle maniere di molti, tu conoscerai agevolmente ciò che io ti dico esser vero: cioè che non istà bene il motteggiare a chiunque vuole, ma solamente a chi può. E vedrai tale avere ad ogni parola apparecchiato uno, anzi molti, di quei vocaboli che noi chiamiamo bistìccichi, di niun sentimento; e tale scambiar le sillabe ne’ vocaboli per frivoli modi e sciocchi; et altri dire o rispondere altrimenti che non si aspettava, sanza alcuna sottigliezza o vaghezza: – Dove è il signore? – Dove egli ha i piedi! – e: – Gli fece ugner le mani con la grascia di San Giovan Boccadoro – e: – Dove mi manda egli?– Ad Arno; – Io mi voglio radere –  E’ sarebbe meglio rodere; – Va chiama il barbieri – E perché non il barbadomani? – I quali, come tu puoi agevolmente conoscere, sono vili modi e plebei; cotali furono, per lo più, le piacevolezze et i motti di Dioneo. Ma della più bellezza de’ motti e della meno non fia nostra cura di ragionare al presente, conciosiaché altri trattati ce ne abbia, distesi da troppo migliori dettatori e maestri che io non sono, et ancora percioché i motti hanno incontinente larga e certa testimonianza della loro bellezza e della loro spiacevolezza, sì che poco potrai errare in ciò, solo che tu non sii soverchiamente abbagliato di te stesso, percioché dove è piacevol motto ivi è tantosto festa e riso et una cotale maraviglia. Laonde, se le tue piacevolezze non saranno approvate dalle risa de’ circonstanti, sì ti rimarrai tu di più motteggiare, percioché il difetto fia pur tuo, e non di chi t’ascolta, con ciò sia cosa che gli uditori, quasi solleticati dalle pronte o leggiadre o sottili risposte o proposte, eziandio volendo, non possono tener le risa, ma ridono mal lor grado; da’ quali, sì come da diritti e legitimi giudici, non si dee l’uomo appellare a se medesimo, né più riprovarsi. Né per far ridere altrui si vuol dire parole né fare atti vili né sconvenevoli, storcendo il viso e contrafacendosi, ché niuno dee, per piacere altrui, avilire sé medesimo, che è arte non di nobile uomo, ma di giocolare e di buffone. Non sono adunque da seguitare i volgari modi e plebei di Dioneo («madonna Aldruta, alzate la coda…»), né fingersi matto, né dolce di sale, ma, a suo tempo, dire alcuna cosa bella e nuova e che non caggia così nell’animo a ciascuno, chi può, e chi non può, tacersi: percioché questi sono movimenti dello ’ntelletto, i quali, se sono avvenenti e leggiadri, fanno segno e testimonianza della destrezza dell’animo e de’ costumi di chi gli dice, la qual cosa piace sopra modo agli uomini e rendeci loro cari et amabili, ma, se essi sono al contrario, fanno contrario effetto, percioché pare che l’asino scherzi, o che alcuno forte grasso e naticuto danzi o salti spogliato in farsetto.